L’Uovo e la Croce

Alessandro D’Avenia – Corriere della Sera

Sei felice? Abbastanza. A momenti. Rispondere «sempre» sembra impossibile: il primo ad aver descritto il metodo scientifico per riuscirci è stato Aristotele, come ben racconta Edith Hall nel recente Il metodo Aristotele. La felicità, per il filosofo greco, è nelle nostre mani: basta realizzare il proprio potenziale e diventare la miglior versione di se stessi. Ma alla prova dei fatti la nostra costitutiva fragilità rende la meta quasi irraggiungibile: essere limitati e mancanti sembra incompatibile con la piena felicità. Siamo quindi a un bivio.

Da un lato c’è la via in salita che trasforma la mancanza in inventiva: il culto, la politica, l’arte, la scienza, il lavoro, e tutto ciò che l’uomo crea proprio perché la felicità gli manca. I Greci imboccarono questa via e della sofferenza fecero un cammino. Non la rimossero, ma la trasformarono in occasione: non fuggirono in un mondo in cui morte e dolore non esistono, anzi ne fecero la scuola dell’arte di vivere. Il pathei mathos, «conoscere attraverso il dolore», è il fiero realismo di chi accetta la sofferenza come sfida creativa: «Persino nel sonno gocciola nel cuore,/e la saggezza giunge anche a chi la respinge» scrive Eschilo nell’Agamennone. Di fronte al muro del destino i Greci provarono ad aprire una breccia: esistere è resistere, agire, creare. Per questo cercarono la bellezza immortale: tutta la loro «conoscenza», dalla politica all’arte, nasce dal tentativo di dare senso alla ferita mortale e originaria dell’uomo. Questo è anche il metodo di Aristotele, la via aperta dall’etica del bene: per essere felici la strada è impegnarsi a fare la cosa giusta ed evitare di fare il male.

Dall’altro lato c’è una via in discesa che rifiuta la vita così com’è o ne fa un alibi per disimpegnarsi. La mancanza non è vita e va rimossa, la sofferenza non serve a nulla, il limite non può diventare ricerca. Fontana tagliava le tele per ricordarci che abbiamo ferite-feritoie da tenere aperte per affacciarci sulla realtà, ma noi corriamo a chiuderle e cancelliamo le cicatrici con un photoshop mentale. È la via scelta dall’etica del successo e del piacere: alle domande sulla sofferenza spesso si risponde cambiando discorso o regalandosi sempre nuove distrazioni. Ne vedo gli effetti su ragazzi in preda al panico di fronte al dolore e al fallimento. Nei loro cuori e menti cresce il “non senso”, il cancro dell’azione e del desiderio: se la vita fa schifo perché devo impegnarmi? Fatemi gioire: happy hour, happy meal, happy pills… E se non potrò vincere e godere mi toglierò di mezzo.

Sembra che la nostra fragilità escluda la felicità che desideriamo. Forse allora non siamo fatti per essere felici, ma per «imparare» a non esserlo? È la proposta di alcune filosofie: se eliminiamo il desiderio che ci fa sentire mancanti, non soffriremo più. Ma farlo significa sterilizzare l’azione creativa: perché mai la mancanza, il limite, sarebbero il negativo della vita? Le più grandi scoperte e opere umane sono il frutto di un’eroica fiducia nel desiderio, nella mancanza, nella sconfitta: Dante scrisse la Commedia dopo aver perso tutto, Dostoevskij scrisse i suoi grandi romanzi dopo i lavori forzati in Siberia. Lo dice così il poeta Zagaevskij in Venerdì santo: «Ho ascoltato la Passione secondo Matteo/che tramuta in bellezza il dolore./Ho letto Fuga di morte di Celan/che tramuta in bellezza il dolore./Nei corridoi del metrò il dolore non si tramuta,/solo perdura, senza tregua». Esiste un’arte di vivere capace di mutare in bellezza anche il dolore del metrò, quello senza tregua e di ogni giorno? Esiste una felicità compatibile con la fragilità? Una luce viene dall’uovo di Pasqua.

Abbiamo ridotto la Pasqua alla dolcezza sferica dell’uovo con la sorpresa. Questo simbolo di vita nuova è però il frutto degli spigoli della Croce. Quando l’apostolo Tommaso, assente all’apparizione del Risorto, dice agli altri che crederà solo se potrà mettere il dito nelle ferite di Cristo, chiede l’essenziale: è veramente felice solo una vita che non ignora il dolore, la sconfitta, la morte, ma che li attraversa e supera, mostrandone, appunto, le credenziali. Tommaso vuole la garanzia che il Risorto sia proprio il Crocifisso. Noi oggi abbiamo rimosso la Croce, prima che dalle pareti, dalla vita: l’imperativo di una felicità fatta di ciò che è definito «vincente» è incompatibile con la sconfitta. Ma «prendere» – come dice Cristo – «la croce di ogni giorno» significa innanzitutto imparare a dare un significato alla vita tutta intera, ad ogni suo aspetto: anche al dolore dei corridoi del metrò. La sofferenza, per l’etica del successo come imperativo, è luogo di disperazione e va eliminata. Per un’arte di vivere integrale, invece, la sconfitta diventa un prezioso luogo di verità, ricerca, iniziativa. Prendere la croce di ogni giorno non significa desiderare il dolore, ma riuscire a trasformare in bellezza il limite di quel giorno: è la sola via che libera dal risentimento e dalla paura che paralizzano le energie creative, l’inventiva e l’azione. Può sembrare un paradosso ma bisogna amare proprio ciò che temiamo, perché così ce ne possiamo servire e non ne diventiamo servitori: non solo non ci rassegniamo o lottiamo contro il male, ma lo accogliamo e trasformiamo in vita.

L’uomo più evoluto non è né il faber né il sapiens, ma il patiens: l’uomo che sa dare un significato anche alla sofferenza, che poi è solo l’uomo che sa amare. L’uomo salvato dal male non è né l’uomo che lo rimuove né l’uomo che si limita a resistere, ma chi riesce a trasformarlo creativamente. L’atto creativo libera la vita contenuta nel dolore: lo scrittore che racconta la sua esperienza nel lager vince sul lager, il genitore che accetta la fragilità di un figlio e vi dedica tempo vince sulla fragilità, l’educatore che accompagna la crisi di un allievo vince la crisi… Costoro prendono la croce-amore del giorno e lo liberano dal male. Nel suo romanzo più bello, Il mio nome è Asher Lev, Chaim Potok racconta di un pittore ebreo che, per rappresentare le sofferenze della madre, dipinge la donna in croce con, ai piedi, il figlio e il marito. Lo scandalo provoca il suo allontanamento dalla comunità, ma persino per Asher Lev la croce è l’unico modo di rappresentare e superare il dolore: «Per tutto il dolore che hai sofferto, mamma. Per il Padrone dell’Universo il cui mondo di sofferenza io non capisco… Per tutte queste cose ho creato il quadro, io, un ebreo osservante che lavora su una crocifissione perché non esiste un modello estetico a cui far risalire un quadro di angoscia e tormento estremi». La croce è ricevere la capacità di trarre il bene anche dal male, di risorgere sempre e comunque. Questo è il metodo di Cristo.