Pigi Colognesi – Il Sussidiario
S’è inaugurata a Oslo una grande rassegna per celebrare i 150 anni della nascita di Edvard Munch (1863-1944). Il pittore norvegese è stabilmente entrato nello spazio visivo di tutti noi almeno per il celeberrimo Urlo, da lui dipinto in quattro differenti versioni. Questo quadro è considerato una «icona» della condizione umana contemporanea, vale a dire una immagine che, per la potenza tipica dell’intuizione geniale, riesce a coagulare espressivamente quel che tutti viviamo. Ed effettivamente è agevole riconoscere in quel personaggio che si tiene tra le mani un viso diventato teschio di gomma, e in quel corpo, quasi risucchiato nel vortice del mare, qualcosa della nostra esperienza. Per andarci un pò più a fondo, ricostruiamo la vicenda da cui è nato il quadro e che Munch ha descritto nel suo diario.
Il pittore ha vent’anni quando gli capita quello che stiamo per raccontare. Non è una pura notazione biografica; vent’anni è l’età della baldanza, del coraggio, ed invece il protagonista del quadro – «sono io», afferma Munch – è distrutto, angosciato, travolto dalla paura. Il giovane Edvard, dunque, sta camminando sul ponte che attraversa un fiordo della sua città, Oslo, in compagnia di due amici; li si vede a sinistra, immobili come lampioni, indifferenti a quello che sta succedendo. Il sole sta calando, finisce il giorno.La stessa Norvegia, come scrive Munch, è un «margine estremo», una terra oltre al quale non c’è più vita umana. Una doppia fine, perciò; quella del tempo: il tramonto, e quello dello spazio: il fiordo oltre il quale l’umanità non può sussistere. «Improvvisamente ho sentito un urlo che attraversava la natura»; all’inizio, dunque, sono il cielo, la terra e il mare che gridano la loro inesorabile caducità. A questa voce angosciata l’uomo risponde gridando anch’egli: «Anch’io mi sono messo a gridare, tappandomi le orecchie, e mi sono sentito un pupazzo, fatto solo di occhi e di bocca, senza corpo, senza peso, senza volontà, se non quella di urlare, urlare, urlare».
L’uomo grida l’angoscia di fronte alla finitezza della natura e sua, grida perché l’ultimo lembo di terra sta per essere ingoiato dal mare e il cielo pare trasformarsi in un fiume di sangue, grida perché la sua stessa consistenza viene meno, grida perché la vertigine lo prende alla gola e niente è più stabile, grida perché è solo e chi gli sta attorno non capisce, forse non sente neanche.
Proprio qui c’è uno snodo importante. Prosegue Munch nel suo racconto: «Ma nessuno mi stava ascoltando».L’urlo dell’uomo, infatti, è radicalmente diverso da quello della natura ed anche da quello degli animali – il verbo «urlare» deriva dal latino «ululare» e definisce il verso prolungato di un lupo o di un malaugurante uccello notturno -: l’uomo urla non solo per sfogarsi, ma perché spera che qualcuno lo senta.Che si tratti di un urlo motivato dal dolore fisico o morale, che sia il debordare di un’angoscia o un segno di protesta, bestemmia o lamento, l’urlo umano è sempre rivolto a qualcuno,è come il nucleo confuso di una domanda. Munch conclude che nessuno ascolta ed è pure la conclusione del nostro clima culturale dominante, che ha fatto del suo quadro un emblema nichilista. È anche la conclusione di un altro grande scandinavo, Pär Lagerkvist; ma l’autore di Barabba ha fatto un decisivo passo avanti: «Non c’è nessuno che ode la voce invocante nelle tenebre. Ma perché la voce esiste?».
Ferdinando Camon – Avvenire
In questi giorni si apre in Europa, come i lettori di Avveniresanno bene, una serie di mostre delle opere di Edvard Munch, in Norvegia (dove il pittore nacque 150 anni fa), in Svezia, Svizzera, Italia (Venezia e Genova).
Rivedremo più volte sui media le varie versioni dell’Urlo, il suo quadro più famoso. Rivedremo La Disperazione, La fanciulla malata, Il Vampiro, gli autoritratti. Sarà un’immersione nell’angoscia. Perché tanta angoscia?
Perché così spesso la morte e la disperazione? Cosa c’è nel suo mondo? E cosa manca? L’Urloè del 1893. Epoca cruciale nella cultura europea, la fine dell’Ottocento, perché sono gli anni in cui Freud pensava alla presenza nell’uomo di parti che l’uomo non conosce e non controlla. L’uomo non è tutto Io, cioè tutto coscienza. Compito dell’uomo è farsi coscienza, «dov’era l’Es, deve diventare l’Io». L’uomo dell’Urlo ha visto qualcosa che lo spaventa. Visto, o intravisto. L’urlo non è rabbia o follia, ma spavento. L’uomo che urla è solo.Ci sono due figure alle sue spalle, due uomini che sembrano parlarsi, in ogni caso non hanno visto ciò che ha visto l’uomo urlante.Non c’è rapporto tra questo e quelli, non si forma gruppo, non c’è umanità. L’autore ha coscienza e memoria di come questo quadro gli è nato nella mente, e lo racconta, parlando di una visione: «Camminavo per la strada con due amici, il sole tramontava e il cielo si tinse di rosso sangue, mi fermai, mi appoggiai sfinito a un recinto, sul fiordo nerazzurro e sulla città schizzarono sangue e lingue di fuoco, i miei amici continuavano a camminare e io tremavo di paura e sentivo un grande urlo infinito nella natura».
L’uomo urlante ha appena visto la dissoluzione del mondo, la fine cosmica, la morte di tutto.Se è possibile, e io credo che sia possibile, una lettura in chiave fideistica dell’Urlo, l’Urloè l’uomo che non ha nessuno, sta su un ponte, sotto di lui l’abisso, non vede salvezza. È possibile intendere l’urlo come un’invocazione. Un urlo per l’assenza di Dio e un’invocazione perché si presenti. Dico queste cose, e mi s’affacciano al cervello altre letture fideistiche di autori sedicenti atei: Moravia, per esempio, e Pasolini. Pasolini come cattolico che combatteva dalla parte avversa, per ragioni che Freud avrebbe potuto spiegargli. E lui ci andò, in analisi freudiana, ma quando ‘la cosa oscura’ risaliva alla superficie ebbe paura e scappò. Per tutta la vita Moravia ha scritto di una borghesia senza-valori, quindi senza-Dio.
Una vita buia, senza luce, puro istinto, sesso, denaro, e la morte come fine di tutto. Ma alla fine s’è accorto che la sua descrizione di un mondo vuoto era un’invocazione, e ha concluso dicendo (dicendomi, l’ho messo in un libretto, quando lui era ancora vivo): «Il Nulla dopo la morte non mi sta bene, mi sta bene il dubbio». Il vuoto come richiamo, l’assenza come supplica. Forse è una mia stortura, ma ho sempre sentito questa invocazione anche nell’Urlodi Munch. L’uomo che urla è Munch stesso, urla perché ha paura della morte,urla perché è già morto, ha la testa che è un teschio, il corpo è molle e filamentoso, non è un corpo ma uno spirito, il centro pittorico del quadro è la bocca spalancata, da quella bocca escono le onde sonore dell’urlo che deformano ondularmente il paesaggio, come fanno in uno stagno le onde concentriche prodotte dal tonfo di una pietra. Si tende sempre a collegare Munch con Kierkegaard, e si fa di Kierkegaard il padre dell’esistenzialismo.
Ma nel suo pieno sviluppo l’esistenzialismo era ateo, mentre il sistema di Kierkegaard è una sequenza di «timori e tremori» (titolo di un suo libro) che sono le onde irradiate da un Dio che dev’essere lì anche se lì non lo si vede. Munch non lo sente e urla, Kierkegaard lo sente e trema.