Michele Lugli
In questi giorni di panico e paura collettiva, legati al diffondersi dell’epidemia da Corona Virus, ho rivisto un quadro di Edvard Much intitolato “L’urlo”.
Sullo sfondo si vede il mare, il sole al tramonto tinge di rosso il cielo. Due uomini lontani ammirano indifferenti l’orizzonte. In primo piano c’è il protagonista che invece guarda verso lo spettatore. È l’unico che si è accorto di qualcosa che lo spaventa. Il suo volto è angosciato e pieno di paura. Grida tenendosi tra le mani il viso.
L’autore dipinge un’esperienza che lui stesso ha vissuto. Un giorno stava camminando con due amici sul ponte che attraversa un fiordo di Oslo in Norvegia. Il sole stava calando e il giorno finendo. In questo tramonto Munch ha sentito il grido del mondo che muore. La morte era come un buco nero che risucchiava inesorabilmente tutta la realtà. Il cielo, la terra e il mare gridavano mentre venivano inghiottiti dal nulla.
L’utore e protagonista del quadro grida perché si sente parte di questo destino di morte che inesorabilmente incombe su tutte le cose. Urla perché ha paura della morte, urla perché si sente già morto, la sua testa infatti è un teschio, il corpo è molle e filamentoso, non sembra più un corpo ma uno spirito evanescente.
Ciò che rende angosciante il quadro però non è tanto la morte che incombe sul mondo quanto il fatto che nessuno sembra sentire il suo grido. Sullo sfondo infatti i suoi amici gli danno le spalle e non si accorgono di nulla.
Questo quadro è l’icona dell’uomo moderno che, prima crede di essere onnipotente, poi davanti all’evidenza del destino inesorabile che lo aspetta, si ritrova disperato e solo.
L’uomo è questo grido di fronte a eventi della vita, come la crisi attuale, che rompono la bolla di benessere in cui viveva. In un attimo svanisce l’illusione di tenere tutto sotto controllo. Basta un virus invisibile per essere messi KO. In questi giorni la realtà ci ricorda che la vita è fugace.Di fronte a questo destino certo per tutti viene a galla la coscienza che abbiamo maturato nel cammino fatto insieme.
Possiamo affrontare la crisi come spettatori davanti alla televisione che commentano le notizie pensando di essere immuni; possiamo tentare di evadere il problema con mille distrazioni; possiamo gonfiarci di coraggio finché uno spillo non ci fa scoppiare; possiamo chiuderci in casa paralizzati dall’angoscia; possiamo dare la colpa alla Cina, al governo o a Dio… oppure possiamo guardare in faccia la sfida della realtà come il Pastore di Leopardi che contemplando stupito il cielo stellato domanda alla Luna che senso ha la sua piccola vita di fronte all’immensità del cielo.
Noi siamo come questo pastore che aspetta una risposta dal cielo… siamo come un bimbo che grida nella notte. La vita si illumina quando il mio grido viene ascoltato. Quando qualcuno risponde. La mia vita diventa umana quando viene adottata, accolta, voluta, abbracciata da un padre.
È una presenza che vince la paura, non le nostre strategie, la nostra intelligenza, il nostro coraggio. Abbiamo bisogno di incontrare una presenza più forte della morte. Una presenza che ci permetta di affrontare la sfida fino in fondo guardandola negli occhi. È l’esperienza che ha vissuto Gesù.
I discepoli lo vedono fare miracoli, predicare con autorità, sfidare i Farisei, pero alla fine di ogni giornata vedono che si ritira a pregare in solitudine… l’uomo dei miracoli s’inginocchia davanti a uno più grande di lui… I discepoli hanno capito che li c’è la fonte della sua presenza originale… li c’è il suo segreto… per questo lo seguono e lo spiano, finché un giorno gli chiedono: Insegnaci a pregare, cioè mostraci la sorgente della tua vita.
Il Signore vuole condividere il suo segreto; non lo conserva gelosamente; sperava che i suoi discepoli lo seguissero fin li; svela il suo segreto insegnando loro la preghiera del Padre nostro. Gesù non insegna ai suoi discepoli una nuova formula devozionale ma mostra il contenuto della sua autocoscienza.
La sorgente di Cristo è la sua comunione con il Padre. Gesù è l’uomo vero! non si concepisce autonomo ma vive con la coscienza di essere figlio; per questo non è schiavo del mondo ma è libero, è libero perché è figlio; è libero perché risponde al Padre; il rapporto con il Padre illumina e sostiene il suo cammino, elimina la solitudine.
Per noi invece l’uomo maturo è l’uomo autonomo-emancipato, che crede di farsi da se; questa anarchia ci rende schiavi del mondo incastrati e schiacciati dagli imprevisti; ci esaltiamo per il successo e ci deprimiamo per il fallimento perché ci concepiamo soli. Abbiamo paura della vita perché abbiamo perso la coscienza di essere figli.
Il vero virus che ci riempie di paura, è più profondo di quello che vuole colpire il nostro corpo ed è il virus che ci fa credere di essere soli, orfani, in balia di una tempesta senza poter contare su nulla se non su noi stessi.
Gesù ci insegna il Padre Nostro per introdurci nel suo rapporto con il Padre. Per dirci che non siamo soli; dietro l’orizzonte del mondo e della storia non c’è un demone o il caos cieco e crudele ma il volto di un padre. Un padre che ascolta e risponde al nostro grido; solo lo sguardo del Padre che ci abbraccia, consola e corregge ci permette di correre nella vita liberi e leggeri.
La forza della persona è la sua appartenenza: non appartengo alla storia con i suoi imprevisti; al mio stato d’animo con i suoi alti e bassi; ai miei successi e fallimenti; appartengo a Dio, dipendo da Lui; non è la dipendenza dello schiavo ma quella che l’albero vive con la terra. L’albero vive perché le sue radici affondano nella terra che lo alimenta.
Per questo motivo ritrovarci questa sera in chiesa per pregare non è una fuga dal mondo, ma un gesto di coraggio per guardare in faccia il mistero della vita. Questo faccia a faccia con Dio ci ridona il nostro vero valore. Non siamo un granello di polvere che il vento spazza via, siamo figli di Dio. Abbiamo un valore irriducibile. Può un padre dimenticarsi di suo figlio!?
L’abbraccio del padre arriva a noi carnalmente attraverso la nostra compagnia. La coscienza nuova che Cristo dona ai suoi amici è un fiume di vita che arriva fino a noi attraverso i volti della nostra comunità.
Più che di un discorso rassicurante abbiamo bisogno di incontrare persone in cui possiamo vedere incarnata l’esperienza della vittoria sulla paura. Nella nostra compagnia ci sono persone libere per il rapporto che vivono con il Padre che ci insegnano a dire Padre nostro di fronte al mistero della storia.
È questo rapporto con Dio Padre che ci rende audaci e creativi, capaci di costruire, di affrontare la battaglia, di prenderci a cuore il bisogno dei nostri fratelli. Non pensiamo di essere dei super eroi immuni al virus, siamo fragili come tutti, ma proprio per questo non vogliamo più sprecare la vita.
Nel film il Settimo sigillo Bergman racconta la storia di un cavaliere che tornato nel suo paese dalla Terra Santa si trova dinanzi un’epidemia di peste. La morte gli si presenta dinanzi per prendersi la sua vita. Il cavaliere lotta con la morte e le propone una sfida a scacchi: la morte potrà prendersi la sua vita solo quando gli avrà dato scacco matto.
Il cavaliere sa che non potrà batterla, ma in questo modo guadagna tempo. Ad un passo dalla morte si è reso conto che ha speso inutilmente la sua vita. Per questo vuole guadagnare tempo per rimediare e compiere qualcosa di buono, qualcosa per cui la sua vita abbia avuto un significato.
Dinanzi al coronavirus il problema quindi non è solo proteggersi, ma domandarsi per cosa stiamo spendendo la vita, che cosa dobbiamo fare prima di morire perché la vita non sia stata solo un lusso inutile, uno spreco di tempo ed energie senza senso. A noi non interessa solo sopravvivere ma vivere.
L’Amuchina, che in questi giorni sembra diventata un salva vita, rende le mani pure e sterili, ma sterile è anche chi non porta frutto. Per portare frutto, per dare alla vita sapore e colore, occorre sporcarsi le mani. Allora la domanda che più mi interessa in questo tempo è: Signore che cosa vuoi che faccia della vita che mi hai donato? Come la devo spendere perché sia utile?
Signore cosa vuoi che faccia della vita che mi hai donato?
Come devo spenderla perché sia utile?
Caro don Michele,
facendomi provocare da queste domande che tu hai lasciato aperte, l’unica risposta che riesco a darmi è che bisogna viverla abbracciando tutte le situazioni che la vita stessa nella sua quotidianità ci porta. Viverle come segno di qualcosa di più grande, che rende pieno di significato il fatto che sono chiamata a vivere. Noi invece spesso tutto questo lo riduciamo anteponendo strategie, modelli, pensieri, mentre dovremmo semplicemente abbandonare la nostra misura per far entrare quella di un Altro. Aderire così al metodo con il quale Dio ha voluto raggiungerci. Il marito, i figli, il lavoro, gli amici, la malattia, l’imprevisto, le delusioni, le difficoltà, le gioie. Aderire a tutto questo ogni giorno è quello che il Signore vuole che faccia della mia vita: spenderla con affezione per le persone che il destino ha voluto sulla mia strada. Quante volte, anche inconsapevolmente, sarò stata inadeguata davanti a tutto ciò e quante altre volte ancora lo sarò! Ma questo mio limite oggi non mi determina più. Con infinita pazienza Lui mi ha fatto comprendere che non sono giudicata per la mia performance, per le mie prestazioni, bravura. Assolutamente no! Mi scopro sempre più bisognosa e questo mi rende libera, lieta. Tutto questo mi ha portato a volermi più bene, ad avere uno sguardo pieno di affezione a me stessa e, di conseguenza, desiderare di guardare chi ho davanti allo stesso modo. Sono convinta che Lui voglia semplicemente raggiungermi per accompagnarmi ogni giorno… me lo ha promesso… ”Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”.
E questo mi basta!