Preghiera e Missione

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Padre Mauro Lepori – Festa della Fraternità S. Carlo – 22/9/2018
Parrocchia S. Maria del Rosario ai Martiri Portuensi

Mentre preparavo un po’ questo incontro, non troppo in chiaro sul tema, ho deciso di semplicemente condividere alcuni punti di meditazione che mi accompagnano di questi tempi nell’ambito della mia vocazione e missione, della situazione della Chiesa, dell’imminente Sinodo dei Vescovi sui giovani, a cui parteciperò assieme ad altri superiori generali.

Nella preghiera sorge la missione

Parto da un Vangelo che abbiamo ascoltato un paio di settimane fa nei giorni feriali, tratto dal capitolo quarto di Luca. Gesù aveva visitato Nazaret, ed era stato mandato via in malo modo, poi scese a Cafarnao dove poté evangelizzare, operare molte guarigioni e scacciare molti demoni. Abitava nella casa di Simon Pietro, a cui guarì la suocera. Non sappiamo quanto tempo rimase lì. Ma un giorno usci presto, come penso facesse quotidianamente, a pregare in un luogo deserto. Forse col tempo tutti avevano un po’ scoperto dove approssimativamente andava a pregare, per cui la folla che lo cercava spasmodicamente, giorno e notte, riuscì a rintracciarlo. Siamo alla fine del capitolo 4 di Luca, nel capitolo 5 ci sarà la scena della chiamata dei primi discepoli, dopo la pesca miracolosa dalla barca di Pietro (Lc 5,2ss).

«Sul far del giorno uscì e si recò in un luogo deserto. Ma le folle lo cercavano, lo raggiunsero e tentarono di trattenerlo perché non se ne andasse via. Egli però disse loro: “È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato”. E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea.» (Lc 4,42-44)

La cosa che mi ha colpito e fatto riflettere in questa finale del capitolo 4 di Luca, è la totale coincidenza per Gesù fra la preghiera in solitudine e la missione. È impressionante come la cosa viene raccontata. Si direbbe che Gesù sia partito in missione non da Cafarnao, che non sia tornato nella casa di Pietro a congedarsi e a preparare i bagagli, a far colazione, ma che sia partito direttamente dal luogo della sua preghiera verso le “altre città”. Direi di più: è come se le folle, trovandolo in preghiera, avessero visto che da lì stava partendo, che da lì era “necessario” che partisse in missione ad “annunciare la buona novella del regno di Dio” al mondo. Certo, le folle hanno detto questo perché non lo avevano trovato in città. Ma incontrandolo nel deserto, avrebbero potuto dare un sospiro di sollievo: “Meno male che sei ancora qui!”. Invece percepiscono qualcosa di nuovo, di strano, e che Lui sta effettivamente lasciando Cafarnao. E Gesù conferma questa impressione, questo timore, e descrive l’urgenza che in Lui è nata nella preghierae che loro hanno percepito in contrasto con le loro aspettative: «Egli però disse loro: “È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato”».

È come se per Gesù la missione, l’urgenza della missione, nascesse direttamente dalla preghiera. Luca mette in scena lo sgorgare diretto della missione di Gesù dalla preghiera solitaria, cioè dallo stare solo con Dio, solo con il Padre. Gesù non avrebbe avuto bisogno di uscire nel deserto a pregare per conoscere la missione affidatagli dal Padre, perché già nell’istante di delicatissima irruzione dell’eterno nel tempo che è l’Incarnazione, la concezione del Verbo nel grembo di Maria, già in quell’istante e da quell’istante tutto era chiaro e deciso, tutto era compiuto. Cioè, già da quell’istante la decisione eterna della Trinità di salvare e redimere l’umanità tramite la missione del Figlio era entrata con Gesù nel tempo e nel mondo. Eppure, con il suo ritirarsi a pregare, Gesù ci insegna che la preghiera è come un ritorno alla delicatissima irruzione iniziale, un rinnovarsi di essa, e con essa della coscienza e attuazione della missione.

Gesù non viveva nessuna dicotomia fra preghiera e missione, perché per Lui non c’era separazione fra l’essere mandato e l’essere Figlio del Padre.Nel rapporto con il Padre, Gesù viveva immediatamente la missione che lo costituiva. Per Gesù la missione era la sua identità con il Padre, come lo ha espresso in alcune frasi essenziali del Vangelo di Giovanni: “Colui che mi ha mandato è con me: non mi ha lasciato solo” (Gv 8,29). “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9). L’identità di Gesù era l’identità con il Padre. Nella preghiera Gesù ardeva di questo mistero, e tutta la sua missione consisteva nell’andare ovunque a irradiare il mistero del Padre nella sua persona di Figlio.

Ebbene, Cristo ci ha trasmesso questa natura e modalità di missione della vita. E ce le trasmette a cominciare dal punto sorgivo della sua preghiera. Paradossalmente, se Gesù fuggiva le folle per ritirarsi a pregare era proprio perché le folle, e i discepoli per primi, lo trovassero lì, in quel deserto, in quella posizione, in quell’atteggiamento che incarnava nello spazio e nel tempo il mistero eterno del Figlio mandato dal Padre senza che il Padre lo abbandoni, senza che la comunione dello Spirito Santo si “allenti” fra di loro. Dio si dilata senza rarefarsi, perché Dio è amore. Per questo, incontrando Cristo in preghiera, lo si incontrava in missione; e incontrandolo in missione, lo si incontrava in preghiera. E questa unità, Cristo ce la vuole trasmettere, perché non siamo chiamati a vivere nulla che non sia Cristo stesso. Non esiste una vocazione ecclesiale che non sia Gesù stesso, la sua vita, la sua preghiera e missione.

«“Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo.”» (Gv 20,21-22) Cosa vuol dire questa parola e questo gesto, questo soffio? Vuol dire che Gesù ci comunica la sua missione assieme alla sua intimità di amore con il Padre, lo Spirito Santo. Ci comunica la missione con la comunione con Lui, e tramite Lui con il Padre. Per questo missione e preghiera coincidono, e la folla li riconosce uniti in Gesù.

Non approfondisco, ma in ogni vocazione o stato di vita, anche per chi né la vocazione né lo stato di vita sono definiti o definibili se non dal battesimo, in ogni vocazione fondamentalmente si tratta solo di vivere questa vocazione, questo mistero di adesione a Cristo che aderisce al Padre, questa missione di Cristo mandato dal Padre. E il fatto che la sorgente della missione, persino della missione infinita e universale di Cristo stesso, e quindi della Chiesa, sia l’intimità di un rapporto personale con Dio, cuore a cuore, nel silenzio e la solitudine del deserto, dovrebbe aiutarci a semplificare definitivamente ogni discorso e progetto sulla missione della Chiesa nel mondo.

Trasmettere ai giovani il soffio che libera e risuscita

Da qui vorrei passare al tema dei giovani su cui si applicherà il prossimo Sinodo dei Vescovi. Si possono fare tutte le analisi possibili della condizione giovanile, ed è bene farlo, almeno per renderci conto che è una condizione oggi molto complessa. Però è importante anche qui ricentrare il tutto nella fede che l’unica cosa di cui i giovani di oggi come di sempre hanno bisogno veramente è di incontrare Cristo in missione dal Padre verso di loro, come verso ogni uomo.

Mi impressiona come nel Vangelo, l’incontro di Gesù con i giovani, con i fanciulli, vivi o morti che siano, sani o malati, è espresso come un incontro che “rialza” il giovane. Gesù, ai giovani che incontrava, ricchi o poveri, persino ai giovani morti, come la figlia di Giairo o il figlio della vedova di Naim, in un modo o nell’altro diceva: “Alzati!” (cfr. Mc 5,41; Lc 7,14).

 Gesù incontrava giovani sprofondati, come il giovane ricco, nella tristezza di non incontrare il senso della loro vita, un senso che non trovavano né nelle ricchezze, né nella fedeltà formale a delle regole (cfr. Mc 10,17-22); incontrava giovani sprofondati nella morte, che riassume tutto ciò che impedisce alla vita di vivere, di crescere, di donarsi. E a tutti, in un modo o nell’altro, diceva “Alzati! Sorgi! Risorgi! Cresci! Segui me come modello di vita piena e felice!” E la sua parola, se accolta, era efficace, realizzava quello che diceva: il giovane si alzava, risorgeva, cresceva.

 Questo vuol dire che Gesù offriva ai giovani, come a tutti del resto, un’autorità efficace, perché, come sapete, auctoritas, dal verbo augeo, designa la capacità di “far crescere”. Gesù offriva ai giovani una presenza adulta, che ti accompagna a crescere, a maturare nella vita.

Sono belli e significativi i gesti con cui Cristo esprimeva questa autorità nei confronti dei giovani: dava loro la mano per alzarsi, come al ragazzo epilettico che una volta scacciato il demonio che lo possedeva tutti credono morto: “Ma Gesù lo prese per la mano, lo fece alzare ed egli stette in piedi” (Mc 9,27). L’autorità tremenda e divina con la quale ha scacciato lo spirito impuro dal fanciullo (Mc 9,25), diventa tenerezza paterna che ti prende per mano, cioè ti accompagna a crescere, a stare in piedi, ad avere una statura umana.

Questo ragazzo prima era costantemente afferrato dal demonio e gettato a terra, come spiega suo padre a Gesù: “Dovunque lo afferri, lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce” (Mc 9,18). Il demonio è il potere non autorevole, il potere che non è auctoritas, il potere che non ti fa crescere, che ti butta a terra, in preda ad un’istintività convulsiva, animale. Il demonio è il potere che ti afferra senza lasciarti la libertà.

Che contrasto con Gesù che “tenendolo per mano, lo fece alzare ed egli stette in piedi”! Il “tenere” di Cristo, la stretta della mano di Gesù, non è per togliere la libertà, ma per attivarla, per esaltarla. La compagnia, il sostegno, l’accompagnamento di Gesù è autorevolezza pura, che non vuole altro che il crescere del giovane, senza il minimo strascico di possessività, di manipolazione, di seduzione.

Sono bellissimi i verbi usati dal Vangelo, che in italiano perdono un po’ della loro intensità: “ἤγειρεν αὐτόν, καὶ ἀνέστη”, in latino: “elevavit eum et surrexit” (Mc 9,27). In questi due verbi e nella loro concatenazione c’è tutto il senso dell’educazione umana e cristiana che siamo chiamati a trasmettere. Perché il soggetto di “elevavit” è Gesù, mentre il soggetto di “surrexit” è il ragazzo. L’autorità di Cristo è quell’aiuto, quel sostegno, che eleva il giovane affinché lui stesso risorga, si alzi, stia in piedi. È quindi la trasmissione di una tenuta umana, di una capacità di stare e camminare, che dalla libertà del padre si trasmette alla libertà del figlio, che dalla libertà del maestro si trasmette alla libertà del discepolo.

Pensiamo a quanto questa autorevolezza di Cristo, in ogni sua modalità, sia l’assoluto contrario di qualsiasi forma di abuso sui minori! Chi abusa, invece, incarna alla lettera l’esercizio del potere del demonio, che afferra, getta a terra, e fa di te quello che vuole lui, lasciandoti a terra solo e senza vita.

Ma pensiamo anche a come Gesù, la sua autorità, il suo essere Padre, Maestro, siano una possibilità mai svanita di aiutare chi è stato abusato a ritrovare con libertà la statura e maturità umane gettate a terra e calpestate.

E Gesù vorrebbe trasmettere ai suoi discepoli, alla Chiesa, a noi, questa sua autorevolezza, questa autorità paterna e materna che ti dà la mano per elevarti affinché tu possa risorgere, persino dalla morte, persino dall’annullamento apparentemente totale della tua libertà e dignità. In questo episodio del ragazzino indemoniato e epilettico, mentre Gesù si trovava sul Tabor per la Trasfigurazione, i discepoli avevano tentato di liberare il fanciullo dallo spirito impuro senza riuscirci. Saputa la cosa, Gesù si arrabbia non poco contro i discepoli (Mc 9,19), certamente perché hanno preteso orgogliosamente di trarre da loro stessi l’autorità necessaria per fare questo miracolo. Dopo che Gesù ha liberato il ragazzo, rientrati in casa, i discepoli, – certamente e giustamente umiliati da tutta la faccenda –, Gli chiedono: “Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?”(9,28), allora Gesù dà una risposta pacata ma netta e precisa, che mette il dito sul punto cruciale: “Questa specie di demòni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera”(9,29).

È semplice, e in fondo molto illuminante per affrontare tutti i problemi e le sfide che viviamo oggi: non siamo chiamati ad avere noi stessi l’autorità per risolvere la crisi del mondo e in particolare quella dei giovani. Ma siamo chiamati a trasmettere al mondo, e in particolare ai giovani, l’autorità di Cristo, quella che Lui attinge, come abbiamo visto prima, dal Padre, piegandosi anche Lui a pregare, a domandare, ad accogliere quello che è chiamato a donare.

Dire che la preghiera è necessaria, anzi: qui Gesù la ritiene assolutamente indispensabile, non vuol dire che senza la preghiera ci manca, che so, un elemento di contatto per far funzionare un apparecchio elettronico. Dire che manca la preghiera vuol dire che manca la totalità del nostro c’entrare con la realtà in cui ci troviamo. Non manca solo un elemento che fa funzionare l’apparecchio; è come pretendere che l’apparecchio funzionante abbia senso mettendolo a disposizione di un gruppo di scimmie. Senza la preghiera, senza la domanda, – intesa come la viveva Gesù: come rapporto di dipendenza amante e costitutiva da Dio –, non ci siamo, non ha senso che stiamo nel mondo, non ha senso che stiamo di fronte alla vita, alle persone, figuriamoci di fronte a un giovane coi problemi che aveva l’epilettico indemoniato o tanti giovani d’oggi! Senza la preghiera, è come porci di fronte alla realtà con la consistenza di fantasmi.

Invece, che consistenza di sé di fronte a tutti e a tutto aveva Gesù, il Gesù che anche in quell’episodio, non a caso, scendeva dal Tabor, scendeva da un tempo forte di preghiera nel deserto, in cui ha dato anche ai tre discepoli di vedere l’invisibile, di vedere cosa succedeva quando Gesù pregava, quando per esempio pregava i salmi e meditava la Scrittura. La Trasfigurazione infatti fu anzitutto la manifestazione ai discepoli della realtà della preghiera di Gesù.

E notiamo che l’effetto della preghiera per Gesù non era che tornava più “spirituale”, più “mistico”, nel senso banalizzato del termine, ma il contrario: era come se Gesù dalla preghiera tornasse più “incarnato”, perché vi tornava in un certo senso più “mandato dal Padre”, più “in missione”.L’effetto della preghiera in Gesù era appunto la sua mano ferma che prendeva quella del fanciullo apparentemente morto per alzarlo, elevarlo, farlo crescere, fino a che fosse capace di stare in piedi, di ergersi da uomo libero e adulto nella vita.

Questa mano di Cristo che è autorevole, che educa, che aiuta a crescere e a stare in piedi da sé, questa mano è simbolo della presenza ecclesiale di Cristo, del Corpo di Cristo chiamato a far crescere il mondo.Per questo, senza la preghiera di Cristo, senza la liturgia della Chiesa, la missione della Chiesa non funziona, perché senza la preghiera, centrata sull’Eucaristia, la Chiesa non incarna la missione di Cristo.

Potremmo dire che la missione della Chiesa è tutta descritta nell’atto di Gesù di prendere per la mano il fanciullo demolito e abbattuto dal demonio per alzarlo fino a che stia in piedi.I due verbi utilizzati, sono verbi che il Nuovo Testamento utilizza per descrivere la risurrezione del Signore, e la nostra in Lui. Si tratta di comunicare ai giovani, e a tutti, un’esperienza pasquale che rianimi e renda matura e bella la loro umanità. É proprio questo che la Chiesa, in particolare attraverso il prossimo Sinodo, vuole e deve ravvivare in se stessa, nella concezione e nell’esperienza di se stessa di fronte al mondo di oggi.

Le lacrime di Pietro

Ma qui sentiamo tutti la confusione di fronte alle infedeltà gravissime che affiorano con particolare pubblicità in questo tempo della Chiesa. Comunque ci si ponga di fronte a questa situazione, è inevitabile che ogni membro cosciente del Popolo di Dio si senta turbato, turbato certamente da quello che viene denunciato, ma anche nel sapersi membro di un corpo ecclesiale tanto infedele alla testimonianza del volto buono e vero di Cristo che sarebbe chiamato ad incarnare.

Papa Francesco, con la sua “Lettera al Popolo di Dio” richiama tutti alla preghiera e alla penitenza, ed è certamente la via più giusta e adeguata per stare di fronte a situazioni in cui il mistero dell’iniquità viene a penetrare e inquinare l’umanità del suo Corpo ecclesiale. Pensiamo a come Gesù poté essere turbato quando percepì che Satana entrava in Giuda, in uno dei suoi apostoli, in uno che aveva scelto fin dall’inizio per esprimere la Sua autorità di amore e verità! “Allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui” (Gv 13,27). O quando ha sentito Pietro gridare di non aver nulla a che fare con Lui. Che tristezza deve aver assalito il cuore del Signore, proprio quando aveva più bisogno di compagnia e amicizia!

Ecco, io mi chiedo se in questo momento della Chiesa – ma è sempre stato così, perché l’infedeltà e il tradimento hanno sempre accompagnato il cammino della Chiesa, come il cammino della nostra vita –, in questo momento forse dovremmo pensare anzitutto a Cristo stesso, a Cristo che era ed è presente in ogni vittima innocente del peccato, ma anche in ogni apostolo o discepolo infedele e rinnegatore. In tutto, in tutti, si tratta di Lui, di Lui abbandonato, di Lui flagellato, coperto di sputi, di Lui che porta la Croce e vi è inchiodato, di Lui che muore e viene sepolto.

Allora, è come se tutto il turbamento che possiamo provare nella Chiesa e per la Chiesa, dovesse percepire come una scossa che gli impedisca di affondare in se stesso, di assopirsi in un turbamento senza sbocco, che è come un perdersi nella nebbia senza più scorgere un sentiero che permetta di uscirne. Giuda è affogato nel turbamento per la propria infedeltà, perché non l’ha rivolto a Gesù. Pietro ha guardato Gesù e ha sentito tutto il male che aveva fatto a Lui con il suo rinnegamento. Allora ha pianto per Gesù. Si è trovato con il cuore catapultato nell’amore di Cristo.E non c’è migliore riparazione di tutte le nostre infedeltà, e quindi non c’è migliore e più profonda consolazione di Cristo, che un amore penitente, che un amore fino alla sofferenza per Lui. Le peccatrici che andavano a bagnare di lacrime i piedi di Gesù, riparavano tutte le loro infedeltà consolando il Signore con il loro amore pentito.

La preghiera e la penitenza che chiede il Papa non servono anzitutto, che so, per “ripulire”, o “ridorare” l’immagine della Chiesa di fronte all’opinione pubblica, e neanche di fronte a se stessa, ma deve risvegliare nella Chiesa le lacrime di Pietro, che sono le lacrime delle peccatrici che hanno ottenuto più perdono amando di più Cristo, consolando la missione salvifica di Gesù con un abisso di mendicanza della Sua misericordia.

Ricostruire la Chiesa

La Lettera al Popolo di Dio di Papa Francesco porta la data del 20 agosto. Non lo menziona, ma era la festa di san Bernardo di Chiaravalle, che di lacrime per Gesù e per la sua Sposa non sempre fedele ne ha versate tante.

Questo mi fa pensare ad un bassorilievo ligneo del coro di Chiaravalle di Milano della prima metà del 17° secolo. Ritrae una scena che si riferisce all’impegno di san Bernardo per ricomporre lo scisma di Pietro di Léon in Francia, che fu antipapa con il nome di Anacleto (cfr. Vita Bernardi, Lib. II, cap. 1). In primo piano c’è il santo abate inginocchiato in preghiera. Sulle sue mani giunte vengono a concentrarsi i raggi che irradiano da una nube divina nella quale si scorgono le teste di quattro angeli. Sullo sfondo è come se l’oratorio in cui si trova Bernardo si aprisse per lasciar apparire una scena che illustra l’effetto immediato della sua preghiera. Si vede una chiesa diroccata, come colpita dal terremoto che ha fatto crollare il tetto, le colonne e alcune pareti. Ma attorno a questa chiesa in rovina si vedono all’opera quattro angeli. Forse gli stessi della nuvola che irradia su Bernardo. Stanno lavorando di buona lena per riscostruire e restaurare la chiesa, portando e passandosi grosse pietre.

Questa immagine penso illustri bene il valore missionario della preghiera di cui parlavo all’inizio. Non solo la preghiera ci dà le forze per edificare la Chiesa o restaurarla quando è rovinata dalle divisioni e dal peccato dei suoi membri, ma la preghiera è già essa stessa “Opus Dei – Opera di Dio”, come san Benedetto definisce l’Ufficio divino dei monaci, cioè Dio all’opera tramite i suoi angeli, angeli che possono essere anche tutti i membri della Chiesa – laici, religiosi, ministri ordinati –, mandati da Cristo e con Cristo nel mondo per edificare e riedificare il Regno di Cristo che nulla, neppure la nostra miseria e infedeltà, potrà mai arrestare nella passione di salvare il mondo.