
Pier Paolo Bellini e Chiara Piccinini; Amico carissimo; Enzo Piccinini… p. 187-191
Quando succede una cosa grande nella vita, imparagonabilmente grande, proprio in forza della sua eccezionalità si corre inevitabilmente il rischio di pensare che da quel momento in poi tutto sarà più facile, che non sarà più necessario faticare, che si sarà diversi dagli altri perché le cose andranno finalmente “bene”: e così si ripiomba quasi insensibilmente a ragionare come tutti, “con più regole”, diceva Enzo, ma di nuovo con “i piedi inchiodati a terra”. Mounier, tante volte ricordato da don Giussani e tanto amato da Enzo, diceva che “occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne”.
Il sacrificio, la sofferenza, non sono risparmiati a chi incontra il senso della vita: non capire questo, non accettarlo, rende il cristiano drammaticamente fragile il giorno che segue quello dell’incontro. La parabola del buon seminatore è purtroppo una galleria quanto mai attuale di tanti amici che si sono esaltati fino alla commozione per lo spettacolo della baldanza ingenua che accadeva in loro stessi: poi però si sono persi (anche malamente). «Nessuno può avvicinarsi a una cosa così e non sentirne il fascino, l’intuizione di bellezza per sé. Ma questo implica il fatto che questa compagnia non puoi più leggerla con la misura di sempre. Significa attraversare la realtà e sentire che dentro la realtà solita, al di là delle apparenze, dentro le apparenze, c’è il seme del vero. Significa cambiare. (…)
“Occorre mettere il cuore in quello che si fa”: non c’è nulla che possa descrivere meglio di questa frase il temperamento di Enzo. Non c’è nulla di più prezioso nell’uomo del suo cuore. Eppure, c’è qualcosa che vale più dell’uomo, di fronte a cui è ragionevole “offrire” (cioè sacrificare) quello che egli ha di più prezioso: “Siccome nella nostra vita, almeno intuitivamente, qualche flash c’è stato per cui quell’Uomo, quello che dice e quello che fa, è corrispondente con quello che abbiamo sempre desiderato, amato e voluto, da quel momento in poi – ecco la svolta finale – dire cuore e dire Cristo è la stessa cosa. Questa è la novità. Anzi, adesso diventa più concreto dire io. Se quel criterio di fondo per cui esistiamo ha come unica corrispondente risposta uno che dice: “Io sono quell’orizzonte” e, verificato, uno capisce che non solo non è uno strano tipo, non è un pazzo e, imitandolo, scopre addirittura che è più bello essere se stessi… da quel momento in poi il criterio allora è Cristo. Nemmeno più il cuore. Tanto il cuore è Cristo».
“Per rapportarti con questo “Altro da te” (di cui tuttavia la tua vita segna costante bisogno), per rapportarti con questo, devi mettere in conto che qualcosa di te deve rompersi, perché non può essere solo che sei d’accordo. Il rapporto con questo Altro – dategli il nome che volete – deve rompere qualche cosa in noi.”
Mi ricordo una conversazione in un bar di Bologna (…) Fu li che Enzo mi disse quelle parole, pesanti come un pugno nello stomaco: «Il criterio, per chi incontra Cristo, non è più neanche il cuore». La cosa mi fece un po’ paura e mi rimase impressa: in effetti la coscienza é e rimane una frontiera invalicabile agli uomini, lo spazio intimo del rapporto con Dio. Quello che Enzo voleva farci capire era il fatto che, da una parte, è facilissimo far coincidere la voce della coscienza con la propria personale opinione e non con la voce di un Altro, dall’altra parte, che la proposta di Cristo è l’unica di fronte alla quale il cuore inquieto può comprendere se stesso, una corrispondenza che chiede che qualcosa si rompa.
“Il cambiamento è incominciare a prendere sul serio l’accettare di lottare contro la propria istintività. Cioè che la verità delle cose e il sentimento vero delle cose non è quel che si pensa o si sente. E come se il sentire e il pensare dovesse essere rotto e approfondito da un giudizio: c’è di più. C’è di più. E questo di più è il mio cuore che lo esige ed è la realtà che lo ammette, che lo testimonia. Il lavoro si chiama lotta accanita, voluta, desiderata, accettata contro l’istintività, cioè che la legge della vita sia ciò che penso e ciò che sento. E’ la cosa che vi rende più marziani in questo mondo. Perché in questo mondo è esattamente il contrario, è tutto sull’istintività. La legge è ciò che si pensa e si sente. Ma che il senso del Mistero, cioè questo significato che c’è, decida una modalità di rapporto per cui non posso più affidarmi a ciò che penso è sento, è ciò che ci rende uomini, non solo della comunità. È una condizione per essere uomini”. “Leali con se stessi, anche se questo può costare il fatto che devi cambiare, si deve rompere la tua misura. Leali (bello, eh?) fino alla rottura della tua misura.”
Ma questa rottura, o, per usare la parola tecnicamente esatta, questo “sacrificio” non trova ragioni dentro il dinamismo “naturale” dell’uomo: nessuno desidera il sacrificio. Occorre trovare qualcosa che renda ragionevole questa situazione, occorre trovare la promessa, la certezza di un “guadagno”, magari differito nel tempo, ma sicuro: «Se c’è una parola ostica oggi è quella parola: quando si parla di sacrificio è come se andasse via la Grazia di Dio. La parola sacrificio è come se fosse una cosa solo negativa, sembra che ci si debba mortificare o tagliare via qualcosa o non so. Invece il sacrificio è l’accettare un lavoro per qualcosa di più di quel che si è, l’accettare una fatica per qualcosa di più che si deve vedere, o che hai visto, perché se no, alla cieca, vorrebbe dire che qualche rotella gira male. Il termine sacrificio indica l’idea dell’”offrire a”. Perciò l’idea dell’azione senza sacrificio non è azione umana, perché un’azione senza sacrificio vuol dire che non è offerta a niente se non a quel che ti pare e piace. Può comportare una fatica che però fai perché capisci, o hai visto, che chi l’ha fatto sta meglio. E allora sì che è ragionevole, se no è dare via la testa».
“Finché saremo su questa terra faremo sempre fatica, chiaro? Però, dall’altra parte, chi vuole la fatica? Nessuno! Allora come la mettiamo? È questo il problema: è una condizione, ma non la vuole nessuno. Dobbiamo fare un sacrificio per alzarci al mattino: ho voglia di stare a letto, ma suona la sveglia, è ora di andare a lavorare… è un sacrificio! Noi non Siamo fatti per il sacrificio e per la fatica. C’è una malattia che si chiama sadomasochismo, per chi invece desiderasse il sacrificio, ma è una malattia, perciò non va bene. C’è un’unica cosa che permette quel sacrificio: se, in quella fatica che devi fare, tu puoi partecipare a qualcosa di già redento, altrimenti è impossibile che lo si possa fare come contributo al sacrificio che ha redento il mondo. Un contributo che è di un milionesimo di micron, però c’è!”
Questa condizione mortale “redenta” era diventata habitus, forma di vita per Enzo, lo accompagnava durante le migliaia di chilometri in autostrada, le centinaia di incontri e di interventi chirurgici. È rimasta la sua preoccupazione, la sua esortazione fino alla fine, fino al suo ultimo intervento pubblico, tre giorni prima dell’incidente: «Perché c’è ancora disagio? Perché il vero, quando succede nella vita, esige un cambiamento, che si deve mettere a tema della vita. E questo che non viene accettato. Sapete cosa vuol dire? Significa mettere a tema che quel che penso io è sempre da correggere. Ci state o no su questo? Se non ci state è inevitabile il disagio. Siete fuori posto. Siete qui, ma non siete qui, non ci siete pienamente».