don Antonio Anastasio
Di cosa abbiamo più paura nella nostra vita? Abbiamo paura di non riuscire nel lavoro, nello studio, nei progetti che abbiamo. Temiamo di sbagliare rischiando in un rapporto affettivo. Abbiamo timore di perdere qualcosa quando decidiamo per qualcos’altro. Abbiamo paura della malattia, della sofferenza, della morte e perciò di tutto quello che anticipa queste cose: fallimenti, depressioni, mortificazioni, correzioni, imperfezioni. O, come mi ha detto una persona, finendo l’università, gli amici spariscono, non siamo più insieme tutti i giorni, mi manca la loro compagnia (Ho sentito una volta Julián definire questa l’esperienza della tribù).
Abbiamo paura di perdere l’esperienza appagante, ma fallace, del gomito a gomito, della stringenza sentimentale, quella che don Giussani ci ricordava con I due orfani, la poesia di Pascoli. Infine, dietro a tutte queste cose, la nostra paura più grande è la sofferenza. Abbiamo paura di soffrire. Forse siamo diventati cristiani per non soffrire? Forse il giorno del nostro primo incontro con Gesù, con gli amici che ce lo manifestavano, con le cose che ci colpivano, l’eccezionalità che abbiamo visto ci ha fatto dire: “Cavolo! Questo non è solo il significato della vita! Questa è la squadra vincente, questa è la compagnia che può sbaragliare via tutte le difficoltà che devo affrontare. Voglio essere della squadra vincente, posso dare il mio apporto a questo gruppo trionfante!” Ma dopo poco, nella vita di tutti i giorni, la fatica non era vinta, la sofferenza c’era ancora, i difetti della compagnia, i tradimenti degli altri e quelli nostri, le incertezze e le dubbiosità nostre e di quelli a cui vogliamo più bene… insomma non sembrava più di essere parte della squadra trionfante, ma anzi di essere con l’ultima in classifica.
Allora la fede sembra che non basti. La fede è riconoscere che c’è qualcuno, che c’è una presenza. Allora la Presenza sembra che non basti. Questa Presenza se c’è non sembra fare nulla per vincere, anzi sembra proprio convinta di voler perdere, di farci perdere tutti. Quante volte ragioniamo così, magari senza rendercene conto, quante volte abbiamo ragionato così nelle vicende della nostra vita? Anche gli apostoli erano così, come noi. Gesù continua a insistere che soffrirà, che morirà e loro non vogliono sentire questo discorso, non ci vogliono pensare. Però adesso è diventato difficile non pensarci perché il nemico è alle porte, tutto sembra andare nella direzione profetizzata da Lui. Gesù sta per rivelarsi un perdente, uno che fallisce, uno che secondo la logica del mondo non sarebbe nessuno. Egli, sapendo di andare a morire, fa questo ultimo gesto di comunione coi suoi: Ho tanto desiderato di fare questa Pasqua con voi. Lui ha qualcos’altro in mente, Lui non è nella logica di tutti gli altri, Lui vuole perdere, anzi vuole perdersi, perdersi per loro, perdersi per tutti. Vuole donarsi interamente, donarsi è perdersi perché l’altro viva, quante volte invece vincere è far morire, è soffocare l’altro per potere vivere noi (questa è la logica del potere, della violenza, del male). E infatti inizia questa cena, in cui costituirà quel gesto sacramentale con cui sancirà il per sempre della sua donazione, inizia questo momento bello con il gesto più umiliante che si poteva pensare tra gli ebrei, il gesto degli schiavi: lava i piedi ai suoi! Vuole lavare i piedi ai suoi! Allora Pietro, quando tocca a lui ancora una volta si ribella: No Gesù! Non esiste che tu faccia questa cosa da schiavo per me! Tu sei il Messia, colui che deve vincere, che deve trionfare, colui che non può soffrire! E il nemico è alle porte, e l’ora è quasi giunta. Ma Pietro, e pensavano come lui certamente anche tutti gli altri, non ha ancora capito, si rifiuta di accettare… Che cosa? Questa umiltà, questa umiliazione, questa sofferenza. Qual è questa idea che proprio non riusciamo a “digerire”? Che Pietro fa fatica, e noi di più, a metabolizzare? Che nella sofferenza, nella morte, perciò nel perdere, nel fallimento – direbbe il mondo – o ci possa essere un’utilità, anzi che ci possa essere l’estrema utilità per sé e per tutti, che ci possa essere la salvezza.
Guardando Gesù nell’ultima cena, e quel gesto profetico di servizio, lavare i piedi, umiliarsi, gesto profetico della crocifissione, guardando Gesù che si offre per noi, per me, per te non possiamo non avvertire un brivido, una commozione. Quella commozione di chi si sente amato, amato in modo eccezionale, amato da uno disposto a morire per me. Lui, Gesù, comprendeva bene cos’è la vocazione. Cosa vuol dire rispondere a un Altro nella vita. Rispondeva a suo Padre che voleva salvare tutti. E suo Padre, per salvare tutti noi, gli ha chiesto di dare la vita. Gli ha chiesto di perdere la vita, perderla per trovarla. E noi? Abbiamo paura della nostra vocazione? Abbiamo ancora paura di perdere? Non siamo ancora abbastanza affascinati dal suo amore da misurarci ancora con le nostre riuscite, da illuderci con i nostri tentativi di salvarci da noi stessi? Amare è essere vulnerabili, sottoporsi al rischio, anzi alla certezza di soffrire, gli altri per non soffrire non amano nessuno se non se stessi, per imporre se stessi, diventano duri per essere come dei dell’olimpo, perfetti e belli come statue, infine sono duri e inutili come sassi di strada. La vocazione è il rapporto con il Padre. Per noi il rapporto con Gesù. Condividere i suoi sentimenti, condividere la sua missione, condividere il suo amore.
Soffrire con Lui. Per gioire con Lui. Perdere la vita. Ma lo scopo è guadagnarla per davvero, così aveva detto… Perché amici: il nostro cuore è fatto per amare così, siamo lieti, siamo liberi, niente ci frena più, nulla ci fa scandalo o obiezione quando lo seguiamo su questo cammino, quando siamo come Lui. Questa è la Vittoria sul male, sulla morte: la croce di Cristo, da lì viene la nostra resurrezione. Perciò oggi ci uniamo a Lui nel gesto che Lui ha scelto, come il giorno della nostra prima comunione Egli si unisce a noi, ci unisce a Lui. E allora sarai quello che a te è chiesto di essere, medico, professore, ingegnere, ma dentro questo e non solo in questo sarai molto di più, la tua utilità sarà molta di più. Sarà l’utilità stessa di Gesù. Sarai come Gesù. Purché come diceva una grande santa: Amor meus in me crucifixus est et ego in illo! Il mio amore è crocifisso ed io con Lui. O come dice san Paolo: Non sono più io che vivo ma è Lui che vive in me. Per meno di questo non c’è gusto, né vittoria, né squadra vincente, né utilità della vita, non c’è professione, affettività, infine non c’è vera vocazione. Perché la vocazione, prima di essere la domanda “che cosa devo fare nella vita?”, è Gesù che mi dice: “Tu sei il mio diletto, sei il mio amato. Se ti lasci lavare i piedi da me, se ti lasci amare da me, avrai parte con me, amerai come amo io, salverai come salvo io. Non si tratta più delle tue incertezze, delle tue fragilità, si tratta del mio amore”. Che presa di coscienza liberante! Un uomo cosciente di un amore così che infine vince anche la morte, un uomo in compagnia di un Amore grande così, nessun potere, nessun ricatto affettivo, nessuna debolezza, nessun dubbio, nessun sacrificio, nessuna sofferenza… niente lo potrà fermare! Niente potrà più fermare l’amore di Cristo mendicante dell’uomo, né l’uomo mendicante di Cristo.
Questo è un insegnamento a vivere un insegnamento a non far fermare la fede dove si è arrivati .grazie