“Tu sol pensando o ideal, sei vero”

Testimonianza di Enzo Piccinini →

 

Io sono chirurgo all’università di Bologna. Tutte le volte che mi chiedono di parlare della mia esperienza, il primo sentimento che ho è quello di tirarmi indietro perché, non so voi cosa ne pensiate, è difficile parlare in pubblico senza barare sulle cose che si amano di più. E questa vita è la cosa che io amo di più in assoluto. Perciò ho come una specie di timore, di pudore, perché il movimento, per me, letteralmente è stato, ed è, [letteralmente] la mia salvezza. Io non so dove sarei senza il movimento. Soprattutto, se penso a un po’ di anni fa, sarebbe stato assurdo anche solo pensare, avrei dato del pazzo a chiunque m’avesse detto che sarei stato qui a dirvi le cose che vi dirò, perché è stata una cosa che è entrata dentro pian piano e mi ha cambiato inaspettatamente.

Un’altra cosa, però, prima ancora, è che, proprio per quel che vi ho detto, mi è molto chiaro che tutto quel che sono io l’ho avuto, mi è stato dato; perciò è una gratitudine a cui non posso sottrarmi: quando gli amici mi chiedono un sacrificio per il movimento, lo faccio volentieri.

Quando ho cominciato la mia carriera universitaria (la mia professione, diciamo, perché non era ancora chiaro), avevo finito la facoltà di Medicina e dovevo cercare un punto di riferimento per andare avanti professionalmente, un maestro. Io ero interessato alla chirurgia, ma non avevo, allora, davanti della gente del movimento o degli amici stretti con cui poter dialogare su questo; perciò ho fatto la cosa più normale al mondo: ho girato tutti i chirurghi che c’erano in università e ho scelto quello che immediatamente mi corrispondeva di più. Ho scelto quello che sentivo che era quello che diceva: era un uomo che era quello che diceva, e m’interessava una cosa così; mi aveva veramente molto colpito per questa sua posizione intera, umanamente intera. Così gli sono andato dietro, ma come gli va dietro un ragazzo di quell’età (penso a voi); gli ero affezionatissimo, guardavo come si muoveva, quello che faceva, come ripeteva le cose, in sala operatoria stavo attento perfino ai minimi particolari, le mosse, ecc.; mi ricordo che aveva un tic e l’avevo preso anch’io.

Allora non eravamo una grande, ma una piccola comunità, e io invitavo sempre in comunità anche lui, quando facevamo un’assemblea, con l’idea che poi non sarebbe mai venuto, ma lo facevo lo stesso… mi sarebbe piaciuto. Così un giorno me lo sono trovato in assemblea. Ora, potete immaginare il timore e il tremore che avevo: era un rispetto e una venerazione, insomma, come uno di fronte a un maestro che stima fino in fondo. Me lo sono trovato lì e potete immaginare questi 30-40 che eravamo, al massimo, ragazzi tutti giovani, e questo tipo con la testa pelata che emergeva, con una faccia da svizzero: era una caratteristica sua che non ha mai perso. Avete mai visto il telegiornale svizzero? Dicono che è una festa o che tutto è crollato con la stessa faccia, uguale. E lui era proprio così. Io ero lì tutto fermo, con un italiano perfetto, cercavo le parole, nessuna parolaccia, e tenevo l’occhio sempre su di lui. Mi entusiasmavo, e lui “svizzero”; io continuavo, e lui “svizzero”. Arrivo alla fine, lui si alza e va via: sempre stessa espressione. Do gli avvisi velocemente, lo blocco sulla porta e con uno stato d’animo che potete immaginare, gli dico: «Professore, come è andata?». Lui mi guarda (svizzero) e dice: «Piccinini, queste sono cose da ragazzi: sono belle, sono vere, ma sono da ragazzi! Vanno bene per voi, per te, perché non sai cos’è la vita. Io ho avuto dei compromessi, la mia vita è stata difficile, grandi fatiche, anche dei disastri. Queste sono cose che fanno i ragazzi, è un entusiasmo che hanno i ragazzi». Beh, ragazzi, m’è crollato un mito e m’è scomparso il tic. Perché la consapevolezza che mi è venuta chiara è che una cosa è riconosciuta vera perché corrisponde e rimane per sempre così, anche perché ciò che riconosce il vero è come un detector, qualcosa che abbiamo dentro e che ci caratterizza, ed è questa esigenza di vero, di bello, di giusto, di amare e di essere riamati, che chiamiamo cuore. Questa cosa è strutturale e non può essere messa tra parentesi perché la situazione è difficile o perché le cose non tornano o perché c’è la vecchiaia. È strutturale ed è il punto che ci caratterizza e che ci fa riconoscere le cose vere che rimangono per sempre, e non è un problema di età, e non è un problema di circostanza.

Da quel momento ho capito che il problema era uno solo: che l’unità della mia persona [perché in ballo c’era quello, anche rispetto alle sue osservazioni], era individuata da quel fattore che avevo dentro e che mi accompagnava come mi aveva accompagnato da ragazzo quando ho incominciato a giocare a calcio, fino all’università, fino ad adesso. Era qualcosa che mi caratterizzava: un’esigenza di felicità che nessuna cosa avrebbe potuto cancellare, in qualche modo sarebbe venuta fuori, sempre, non fosse altro che come amarezza. Avevo capito questo, e ho capito da allora che l’unità della persona comincia dal fatto che uno mette il cuore in quel che fa, e questo – credete a me – vale per chi come me ha a che fare con situazioni drammatiche (che poi vi dirò), ma vale anche per chi è davanti al computer, come per quella che va a fare la spesa, come per quella che pulisce le scale: è uguale. Mettere il cuore in quel che si fa, significa mettere se stessi, e mettere il cuore significa giocare quell’esigenza di felicità che è indomabile perché è strutturale in noi.

Ma la vita di lì a poco si sarebbe complicata e ho fatto anch’io esperienza, come l’ha fatta lui, delle situazioni che descriveva. Così ho dovuto cambiare città, ho cambiato situazione: sono andato in una Divisione Chirurgica più grande, dove ero considerato un intruso, e perciò evidentemente, immediatamente, mors tua vita mea, perciò uno sbaglio era la festa per gli altri, ero sottoposto tutti i giorni a un controllo e a una tensione che era impressionante. E poi la mia famiglia era cresciuta: nel frattempo, ridendo e scherzando, avevo fatto quattro figli. Ed era un problema serio perché non avevo i soldi, e i miei continuavano a darmi i soldi. Era un po’ un’umiliazione. Poi, alla fine, gliel’ho detto, e allora mi davano magari il formaggio o il vestito, per far vedere che non mi davano i soldi.

E poi c’era l’impegno con il movimento. Ero diventato, tout court, responsabile della comunità più grossa del Clu in Italia, a Bologna, e quindi c’era tutto un insieme di questioni. E lì ho capito che, di nuovo, l’unità della persona non poteva essere un ricercato equilibrismo tra le attività, le questioni, le cose da fare, perché questo non poteva essere, tanto più che non ci si riusciva. Il tempo, la disponibilità, il lavoro, la famiglia: non poteva essere così, perché mettere il cuore in quello che si fa non poteva essere salvare capra e cavoli. Non poteva essere: era una totalità, una totalità anche dentro le circostanze che non potevano tornare immediatamente o non potevo mettere insieme io.

Così ho capito che si può mettere il cuore in quello che si fa se si è di fronte a qualcosa di più grande di sé. Ci deve essere qualcosa di più grande di sé: quello che in Scuola di comunità chiamiamo destino. Questo poteva aiutarmi in ogni situazione a mettere il cuore: qualcosa di più grande di me, più grande della mia capacità. Ogni passo della vita (l’andare in famiglia piuttosto che andare a fare l’assemblea con gli universitari, o andare al mattino in ospedale) è un cammino verso il destino, sempre, ogni passo è questo, è la risposta al destino, è l’impegno col destino.

Ma non basta: non regge nemmeno così. E avrei dovuto capirlo dopo. Perché nel frattempo il mio impegno universitario era cresciuto, la mia capacità anche professionale aveva avuto un incremento, e perciò cominciavo a diventare un punto di riferimento in giro, blando ancora, ma insomma incominciava ad essere così. E perciò mi arrivavano anche casi complicati o particolari, e cominciavo a vedere sulla mia pelle che le cose andavano bene o andavano male, non era sempre una riuscita.

Così, mi ricordo ancora, era successo, appunto, con il papà di alcuni di noi, che, operato, si è complicato, l’ho ri-operato, complicato, l’ho ri-operato, siamo andati avanti quasi un anno, poi è morto. E la cosa non mi ha mai lasciato tranquillo, mai. Così un giorno – eravamo ad una delle prime Responsabili a Milano, eravamo ancora pochi con Giussani – sono venuto fuori dalla Responsabili, ero lì in corridoio, Giussani si avvicina e dice: «Come va?». Io dico: «Non c’è male». Lui si ferma: «Come, non c’è male? Cosa c’è?». Dico: «No, stupidaggini. Dopo quello che abbiamo detto prima lì all’incontro, queste sono stupidaggini. Dai, andiamo, non importa». Lui si è fermato di colpo, era stanchissimo, si è fermato di colpo (in corridoio – eh! – passava la gente): «Ma scusami, Enzo, con tutte le stupidaggini che ci diciamo, quando c’è una cosa che conta davvero non ne parliamo?». Io rimango inchiodato e dico: «Scusami, guarda, non volevo, ma m’è successo questo e mi do un po’ di colpe, insomma, non riesco più a dormire. Cioè, dormo un’ora, poi mi viene in mente questa cosa. E anche mia moglie è preoccupata, perché dopo un’ora che dormo mi alzo su, e va un po’ avanti così». Lui mi guarda e mi dà una risposta che era la più impensata in assoluto, non potevo neanche immaginarla. Mi guarda e mi fa: «Ma Enzo, proprio tu», ma con una faccia delusa: «Proprio tu ti comporti come se Cristo non ci fosse?! È come se tutto dipendesse dalle tue mani: ma come credi di poter andare avanti così? Non farai mai più niente di quello che fai, farai come tutti: cercare quello che meno ti ferisce, che ti mette a posto. Non rischierai più». Poi fa: «Comunque, in ogni caso, io ne voglio riparlare. Puoi venire appena puoi?».

Figurati! Due giorni dopo ero su. Così, ci vediamo a pranzo e dice: «Allora, racconta di nuovo». Allora ho accennato, però gli ho detto: «Senti, Giussani, guarda io non voglio rubarti del tempo, perché poi adesso ho capito. Guarda, da me c’è una cappellina e adesso io prima di andare in sala operatoria vado lì e dico una preghiera e le cose si rimettono insieme. Sono più tranquillo». Lui scatta: «Enzo, ma che pregare e pregare! Il problema non è pregare, è che tu non sai offrire. Il tuo problema è che non sai offrire, e offrire significa che la realtà non è una cosa che hai in mano tu, non è tua, e che tutto quel che si fa è come se avesse dentro la domanda che il Signore, padrone di questa realtà, si riveli, perché è così che si vive, e tu, guarda – te l’ho detto, ma te lo ridico un’altra volta – smetterai di fare quel che fai e avrai paura di rischiare». E, infatti, era vero: erano due mesi che dicevo ai miei due assistenti più grandi: «Ragazzi, basta fare questi interventi: non abbiamo bisogno di problemi, io devo far carriera, meno problemi ho e meglio è». Poi, continuando nella discussione, mi dice: «Ma sai che cosa vuol dire offrire, riconoscere che la realtà non è tua, che non l’hai fatta tu, che non sei padrone delle cose? Vuol dire che tu stai di fronte alla realtà con una povertà che è il modo più vero, più autentico di starci di fronte: sei seriamente più realista, prendi in considerazione le cose, ti accorgi del limite che hai, se non sai chiederai e chiederai, e non dovrai difendere la tua immagine, la tua posizione».

Insomma, ve l’ho detto, mettere il cuore in quel che si fa è possibile per qualcosa, se c’è qualcosa di più grande di te, ma questo qualcosa di più grande di te deve essere presente. Presente, cioè qualcosa a cui puoi dire: «Ecco, ecco qui», cioè qualcosa che riconosci, a cui rispondi di quel che fai. E rispondere a qualcuno o a qualcosa di quel che si fa è il modo con cui la realtà diventa drammaticamente presente, altrimenti c’è solo quel che pensi, che senti, che va, che non va, e cancelli le cose che non vanno o che non senti, ma c’è anche quello che non senti, e c’è anche quello che non va.

Ma non era finita: è questa la cosa che ultimamente è ancora più chiara. Non era finita, perché da lì a un po’ è successo un episodio che mi ha chiarito il punto finale della questione, ed è che una di noi a cui ero molto affezionato (questo è un episodio difficilmente dimenticabile per me) era stata operata in un’altra sede e si era complicata. Giussani una domenica mattina mi telefona e mi dice: «Te la sentiresti di prendertela a cuore?». In quella sede c’erano i miei capi anche d’indirizzo chirurgico, perciò era un bel problema, tanto più che ero sotto concorso. Allora io non dico questo a Giussani, ma dico: «Insomma, se è necessario lo faccio». Si fa. Vado e dopo un po’, la faccio breve, mi chiede: «Te la senti di portarla da te a Bologna?». Dico: «Caspita, è un bel colpo», anche perché in tutti i colloqui avuti, i chirurghi, che io conoscevo benissimo, avevano già detto: «Guarda, non toccarla, non farlo, perché noi l’abbiamo operata: non è operabile. Non farlo, perché questa ti muore, capito? Tirala avanti, prenditela pure a cuore [anzi, erano contenti quasi di darmela], ma non toccarla perché muore, capito? Tirala avanti finché puoi con terapia medica e spera che si risolva da sola». Così l’ho portata giù e ho fatto letteralmente così, cercando in ogni modo di capire se c’era margine per portarla avanti senza impegnarmi in una cosa che mi avevano detto esplicitamente che non era possibile. E siccome questi non erano gli ultimi arrivati, era verosimile. Mi sono impegnato seriamente a capire che margine avevo di attesa, ma tutti i dati mi davano che non era possibile attendere. Così a un certo punto dovevo andare, dovevo farlo.

Dovevo farlo: i dati non mi permettevano un gioco, un giro di attesa. Il giorno che ho deciso l’intervento per il giorno dopo ho cercato Giussani per telefono. Perché, ecco quello che volevo dirvi: non basta dire che occorre una cosa più grande che sia presente; non si riesce a mettere il cuore in quel che si fa, non si resiste, perché dopo un po’ la realtà è dura e il cuore cede e dopo un po’ incomincia il lamento o incomincia l’autodifesa: bisogna non essere soli. Bisogna non essere soli. Così ho preso su il telefono e ho cercato Giussani. Ho avuto la fortuna di trovarlo e gli ho detto: «Scusami, Giussani, se ti telefono alla sera così. Non ti chiedo di risolvere i particolari tecnici o di dirmi che cosa devo fare, perché i dati mi portano lì. Però io se non avessi trovato te, avrei dovuto cercare qualcun altro perché, non so se è sbagliato o no, ma ho bisogno di un paragone, di un aiuto, di un conforto. Di un conforto, anche semplicemente di un conforto, perché ho paura, non sono tranquillo». Lui mi ha detto: «Non sbagli, è molto giusto. Perché tutta la certezza scientifica non può darti la sicurezza di tentare, come non può darti la sicurezza nella vita. C’è bisogno di una memoria di un rapporto vivente con te, altrimenti non si riesce ad andare oltre quello che misuri, quello che fai». Poi fa: «Senti, i dati dicono così: di fronte a Dio bisogna andare. Di fronte agli uomini non lo so, ma non m’importa: di fronte a Dio bisogna andare!».

Straordinario ragazzi! perché è una certezza che è dovuta al fatto che i dati sono le circostanze, capite? Non è solo il fatto delle quattro radiografie: sono le circostanze a cui devi rispondere, con cui ti guardi, perché quello è il volto con cui Dio si presenta nella tua vita. E così l’ho operata. È stato un intervento incredibile (mi ricordo ancora quante ore). Poi ho lasciato passare un po’ di giorni, perché non sapevo. In terza-quarta giornata ho capito che le cose andavano bene, e allora ho ritelefonato a Giussani: «Giussani, sta inaspettatamente andando bene». Silenzio. Poi fa: «Scusami, ma avevi dei dubbi?». «Se avevo dei dubbi? Ero pieno di dubbi: ne avevo fin sopra qui: c’era un disastro, ho perso dei chili». E lui fa: «Guarda, te l’avevo detto…». Era stato bellissimo quando mi aveva detto: «Guarda, noi preghiamo Dio e san Pampuri, e tu vai». E alla fine mi dice: «Grazie per essere stato strumento di un miracolo». Ecco, guardate ragazzi, questa è la posizione giusta nella vita, perché non potevo nemmeno insuperbirmi per tutto quello che avevo fatto. «Strumento di un miracolo» vuol dire che io non ho fatto niente. Se questa è la posizione nella vita, scusatemi, ma che paura si ha più? Che cosa ci può fermare?

L’ultima osservazione sulla mia professione (brevissima). Proprio due o tre mesi fa, è successo un fatto grave da me, e ho detto a Giussani: «Io non so più – delle volte mi vengono dei dubbi atroci – se quel che faccio e rischio, è l’ultimo dubbio che ho, se quello che faccio e rischio è frutto di un mio temperamento o è un’obbedienza seria alla realtà. C’è un modo per capirlo? A volte mi sembra di avere come temperamento di rischiare così. C’è un modo per capire se è il mio temperamento o è un’obbedienza alla realtà?». «Sì, ed è quell’offerta che ti ho detto, di fronte a qualcosa di presente, perché di fronte a qualcosa di presente è come il bambino che sta lì, sta facendo qualcosa che non va, arriva il padre e capisce lo sbaglio che sta facendo. Perché la presenza dà una drammaticità. Qualcuno o qualcosa a cui si risponde di quel che si fa dà una drammaticità della vita in cui le cose diventano più autenticamente presenti. Andare a lavorare così, puoi essere stanchissimo, puoi avere tutta la coscienza girata, ma alzi su la testa e rispondi a tono. E poi perché hai paura del tuo temperamento? [guardate, questa è stata una liberazione!] Perché hai paura del tuo temperamento? Se Dio ti ha fatto così, tu servi con quello che sei! Perché devi avere paura del tuo temperamento?». È stata un’altra liberazione, perché io mi penso sempre come sono, istintivo e violento.

Se questo è l’iter della mia questione professionale, l’altro punto che della mia vita è indimenticabile è quel che ho capito su cosa vuol dire voler bene. Eravamo in macchina insieme (accompagnavo Giussani da Cesena a Bologna) e si dialogava (gli facevo spesso da autista). Si dialogava e lui fa: «Come va? Come va la tua famiglia?», ed era un periodo in cui già da un po’ di tempo (ma molto tempo) sentivo spesso le osservazioni intorno a me: «Ma che vita fa quello lì, ma la sua famiglia, e sua moglie…»; erano cose che sentivo in giro: «Ma i suoi figli, sua moglie, ma che vita è». E io non ci ho mai fatto caso, perché sono cose che mi interessano relativamente: so io quello che sento come vero a cui non posso sottrarmi. Solo che dopo un po’ queste cose entrano dentro e quindi ho incominciato a chiedermi: «Ma che vita faccio?». Allora dico: «Giussani, ho un dubbio: mi è venuta dentro questa cosa che, a forza di sentirla, anch’io mi chiedo: ma che vita faccio? Ma gli voglio bene o no?». Lui fa: «Ma senti, tu vuoi bene alla tua famiglia?». Dico: «Sì». «Ai tuoi figli vuoi bene?». Dico: «Sì». «Fai un esempio!». Non so chi di voi sia mai riuscito a fare un esempio in merito. Non sapevo che cosa dire. Allora ho detto quello che succedeva: «Guarda, succede spesso che vado a casa alla sera tardi, o per la professione o per il movimento, e mia moglie (allora abitavamo in una casa piccola, adesso più grande, ma vuota perché i figli sono tutti via) lascia un po’ aperte le porte delle camere per sentire se i figli si lamentano, se si svegliano. Io arrivo e debbo accendere solo le luci di entrata, perché se accendo le altre i figli si svegliano e sono guai seri, perché mia moglie su queste cose… Accendo la luce di entrata, vado dentro pian piano, mi spoglio in corridoio senza far rumore; dalle porte socchiuse filtra questa luce che illumina i lettini in cui ci sono i figli. È difficile descrivere, ma mi prende una tenerezza infinita nel veder questi gomitoli lì sul letto. Allora io furtivamente vado dentro, ne prendo su uno e qualche volta si svegliano: “Papà!”. “Sssttt! Se no la mamma…”. Li stringo un po’, me li sbaciucchio…». Allora dico a Giussani: «Insomma, mi sembra di volergli bene». E Giussani fa: «Non è mica così che si vuol bene. Guarda, il modo vero di voler bene è che proprio quando questa tenerezza è intensa, vera e trascinante, umanamente trascinante, dovresti fare un passo indietro, guardarli e dire: “Che ne sarà di loro?”, perché voler bene è capire che hanno un destino, che non sono tuoi, sono tuoi e non sono tuoi, che hanno un destino e che è proprio guardando la drammaticità che il destino impone nel rapporto e nelle cose, nel futuro e nel presente, che tu li rispetterai, gli vorrai bene, sarai disposto a fare tutto per loro, non ti farai ricattare se ti obbediranno o no».

Era una cosa nuova, che capisco che è vera sempre. Pensate a quando ci si vuol bene tra uomo e donna: se non c’è questo giudizio, è come tra cani, è la stessa cosa; cosa c’è di diverso? È impressionante, perché quella cosa mi ha proprio sempre illuminato. Mi ricordo di un incontro a Chieti con Giussani, quando lui per la prima volta ha introdotto prepotentemente, pubblicamente la questione del «tu». Del «Tu», per cui l’altro è un «tu»; questo Mistero che lo fa consistere è un «Tu», è qualcosa con cui tu guardi, e ne nasce un rispetto improvviso, una familiarità e un rispetto improvviso, sconosciuto prima, mai così intenso.

Beh, aggiungo un particolare. I figli sono cresciuti, e sono andati via tutti: una è andata in Cina, che fra l’altro è il posto più brutto del mondo (mi scuso con i cinesi presenti, ma lo sanno anche loro, dai!). Comunque, è vero! Andare in Cina è come tornare indietro di duemila anni in un colpo. Infatti io non capisco mai perché i miei colleghi abbiano tutto questo amore per l’Oriente. Un altro che doveva fare, secondo me, il medico, è andato a fare Scienze della Comunicazione a Lugano: tra gli svizzeri di cui sopra. Per cui non c’è nessuno. Qualche volta riusciamo a trovarci tutti insieme, ma è raro. Così un giorno mi sono trovato con loro a pranzo e avevo questa cosa che pensavo da tempo, e dico: «Ma scusatemi, perché voi siete del movimento? Io non vi ho mai parlato del movimento: perché siete del movimento? È strano, non ve ne ho mai parlato». È vero, non avevo mai intavolato il problema del movimento in famiglia: abbiamo vissuto così, io ho vissuto secondo quello che dentro incominciava a prendermi con mia moglie e con tutto. Allora dopo un po’ mi ha risposto la grande, e dice: «Sai perché noi siamo del movimento? Primo, perché siamo sempre stati colpiti dalla totalità della tua dedizione al movimento [che strano: era esattamente il fattore per cui ero meno presente in casa, ed è stata la cosa che li aveva colpiti di più. È lì che ho capito che è inutile – ragazzi – salvare capra e cavoli: il gusto della vita, la bellezza della vita è proporzionale all’impegno con l’ideale! Che cosa volete calcolare ancora? A vent’anni, poi, figurati], e poi l’altra cosa che ci ha sempre colpito è che quando tu portavi i tuoi amici e vi vedevamo lì, era un tipo di amicizia che abbiamo sempre desiderato anche per noi».

Ragazzi, questo è il punto, perché l’autorevolezza della nostra vita è un’amicizia, ed è un’amicizia che colpisce perché è un’amicizia che è impossibile senza quello che ci diciamo e ci siamo detti oggi, ed è un tipo di amicizia che traspare in una modalità di rapporto, di dedizione, di totalità, di intensità, di servizio vicendevole. Ma dove lo trovate? Ma dove è possibile? E infatti Cristo è presente in una amicizia in cui l’unica ragione è Lui. Ed è questo che convince tutti: sono stato convinto io da questo. Insomma, io capisco che qui si gioca tutto, a questo livello si gioca tutto.

Allora, scusatemi, concludo. Due cose nella mia vita sono importanti. La prima è questa: che proprio per quel che vi ho detto, il gusto della vita non è negato a chi sbaglia, ma a chi non ha un senso dell’infinito, del destino, dell’ideale, del Mistero presente, perché allora il problema non è sbagliare o non sbagliare. Il gusto della vita non è negato a chi sbaglia: è negato a chi non ha un nesso con il Destino che fa le cose, con il Mistero presente. Per cui tutto è un’ipotesi positiva, il tempo che per tutti è sinonimo di decadenza, lavora in positivo. Se guardo la mia vita, che razza di roba è successa! Dico sempre: se è successo così fino adesso, immaginiamoci cosa succederà nel futuro! Ne vedremo delle belle. È interessante, no? È un’avventura.

Ed è esattamente qui il problema, perché la seconda cosa è che se dovessi paragonare la mia vita, come si è svolta (c’è una legge fisica che dice che l’orizzonte si muta mutando il punto di osservazione), userei questa metafora: la mia vita è come una mongolfiera, più vado, più m’innalzo, più mi impegno, più sono dentro a questa vita, più scopro degli aspetti dell’umano che erano impossibili prima: la capacità di fedeltà, di amicizia, di lealtà, di ripresa, di indomabilità, che non avevo mai pensato prima. Perciò, da ultimo, è una gratitudine. Come ho iniziato, così voglio finire: è una gratitudine che caratterizza la mia vita, perciò non ho paura di darla tutta.

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