Marina Corradi – Avvenire
Per cinque ore e 29 minuti è durata la battaglia allo Stade Philippe Chartier di Parigi. Per cinque interminabili ore il rimbalzo della pallina sulla terra rossa, veloce, a momenti incredibilmente veloce. Toc, toc, colpi rapidi e impossibili, il pubblico ora è attonito, ora esplode in boati di entusiasmo. I corpi di quei due ragazzi incredibilmente agili, i riflessi istantanei, le facce tese allo stremo dalla fatica e dal caldo. «Homo vivens est gloria Dei», viene in mente Gregorio di Nissa, Padre della Chiesa, nel guardare la danza epica di due grandi atleti ventenni. Non una partita di tennis, ma una battaglia; e i due così simili a certi eroi greci imbattibili, di cui i poemi epici ci hanno cantato le gesta.
Mai capito nulla di tennis. Mi sembrava un rincorrere una pallina e ribatterla, una sana attività fisica, niente di più. Ma quando sul web ho visto la finale del Roland Garros, ho dovuto rimanere a guardare. La pallina era soltanto un pretesto: quello era un duello, un incrociare di spade a misurare fino all’ultimo il valore proprio e dell’avversario. Se il calcio, come ha scritto lo psicoanalista Hillman, è metafora della guerra, a Parigi domenica questo tennis mi ha fatto pensare alla “singolar tenzone” dei cavalieri antichi. Nei primi piani di Sinner e Alcaraz si percepiva che quel match era ben più di un gioco: il sudore copioso sulle facce, le smorfie della tensione e della fatica a segnarne e indurirne i lineamenti. E io credevo che alla fine, come sempre, Sinner avrebbe vinto. Vince sempre: non è una notizia quando Sinner, di nuovo, vince. E invece domenica a Parigi, dopo 5 ore e 29 minuti stremanti, no: Sinner ha perso. Da campione, ma ha perso. Allora sono andata a guardare le immagini della sua faccia, appena finita la partita. I capelli fulvi scomposti, il sudore grondante, lo sguardo nel vuoto, solo con sé stesso nella folla dello stadio.
Ma c’era sul volto di quel ragazzo altoatesino, nella sua espressione, qualcosa di bello. Non rabbia, non i pugni chiusi di chi ha mancato per un attimo il traguardo. Nella delusione una pacatezza, quasi una serenità. Avere perso dopo una lotta estrema, e non manifestare rabbia. Come se nessuna sconfitta potesse annullare una radicata fiducia in sé; come se l’esito di una partita, o di un esame, insomma un giudizio esteriore su di te, per quanto grande sia la amarezza, non potesse farti perdere l’equilibrio interiore.
È il segno del non dipendere, del non fare dipendere la propria vita dall’esito, dal successo di ciò che si fa. Mettercela tutta, ma se poi perdi non crolli. Hai dentro una certezza più grande che ti sostiene. Giocherai di nuovo, di nuovo vincerai. È quello che del resto Carlos Alcaraz, da campione vero, ha detto subito a Sinner, deposti i fioretti: «Sono sicuro che sarai campione, non una volta, ma tante volte. È un privilegio giocare con te».
E nel mondo di sciocchezze e insulti dei social da cui siamo invasi, queste parole meravigliano, davvero. Quei due ci hanno meravigliato davvero. Un altro modo di vincere, e di perdere. Chissà se si sono accorti, i milioni di ragazzi che stavano a guardare, di questo altro modo di affrontare l’altro. E di incassare il “no” di una sconfitta: ciò che – sia il rifiuto di una donna, sia un obiettivo non raggiunto – fa perdere la testa a molti giovani di oggi. Come fossero, dentro, così fragili. Verrebbe voglia di andare dalla madre e dal padre di Sinner a domandare: come avete fatto. Non a farne un campione, ma un uomo che incassa una sconfitta così e non strepita. E resta saldo, sereno, in piedi.