don Vincent Nagle – Tempi
«L’angoscia di un’esistenza senza significato è insopportabile». È la prima cosa che don Vincent Nagle, prete della Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo, si sente di dire davanti alla terribile strage di Uvalde. Martedì nella città di 16 mila abitanti del Texas il giovane Salvador Ramos, appena 18 anni, ha fatto irruzione nella Robb Elementary School e ha massacrato 19 bambini e due maestre prima di essere ucciso dalla polizia.
«La causa di queste tragedie non sono le armi»
Don Vincent vive a Milano e lavora come cappellano presso la Fondazione Maddalena Grassi, ma è nato nel 1958 a San Francisco, in California, dove si è laureato in sociologia e materie classiche prima di essere ordinato prete a Roma nel 1992. Non è di armi innanzitutto che vuole parlare, centro nevralgico del dibattito dopo ogni strage negli Stati Uniti. Il suo discorso non prende le mosse neanche dalla sua laurea, ma dalla sua esperienza.
«Io sono cresciuto nelle campagne», racconta «e ricordo che non esisteva una famiglia senza armi in casa. Io ho iniziato a sparare a dieci anni, eppure queste stragi non avvenivano. Di più, nessuno poteva neanche solo immaginarle. Certamente possiamo parlare di regolamentare e vietare, ma non illudiamoci: la causa di queste tragedie non sono le armi. Questo è un discorso che viene fatto solo per evitare di parlare del vero problema: il dramma di giovani che vivono una vita senza significato, senza storia, senza appartenenza».
«Una vita senza senso è insopportabile»
Da giovane, continua don Vincent, «anch’io ero un ragazzo arrabbiato e violento, come mi ha ricordato mio fratello una quindicina d’anni fa. E il motivo della mia rabbia è che mi sentivo inutile, la mia esistenza non conduceva da nessuna parte e avrei fatto di tutto pur di essere protagonista di qualcosa. Ma non appartenevo a niente, la mia vita non aveva significato e di conseguenza mi sembrava che neanche le vite degli altri l’avessero. Mi chiedevo addirittura se fossero persone reali o soltanto dei robot».
Forse, prosegue, «io non avrei compiuto una strage come quella di Uvalde, ma non ci rendiamo conto che l’angoscia di un’esistenza senza significato è insopportabile. E una cosa è certa: chi compie un delitto così enorme, verrà ricordato per molto tempo. Non è un caso se alcuni siti di notizie negli Stati Uniti da qualche anno non pubblicano più i nomi e le foto delle persone che compiono le stragi, perché sanno che tanti le fanno per essere ricordati».
L’assenza dei padri e gli antidepressivi
Non è una divagazione, ma il tentativo di decifrare l’impossibile, cioè che cosa può aver spinto il giovane Salvador Ramos, e tantissimi altri prima di lui, a compiere un gesto tanto atroce. «Io non sono uno scienziato», premette ancora il missionario, «ma una cosa la vedo: tutte queste stragi sono compiute da giovani, maschi, senza una figura paterna di riferimento e sotto l’effetto di antidepressivi. Noi parliamo sempre di armi, ma che effetto hanno avuto su questi giovani l’assenza del padre e l’assunzione di tanti medicinali?».
Dopo aver lasciato l’America per insegnare inglese in Marocco e Arabia Saudita, don Vincent è tornato negli Usa come cappellano in un ospedale del New England tra il 1994 e il 2004. È allora, prosegue, che si è accorto di un altro enorme disagio dei giovani americani. «Parlando con loro mi sono reso conto che a scuola non imparano più la storia. A lezione le uniche cose che vengono insegnate sul loro paese e la loro gente sono i crimini e gli errori compiuti: il razzismo, il colonialismo, l’imperialismo».
La cancel culture non è iniziata ieri
Oggi la cancel culture è sulla bocca di tutti, ma «già trent’anni fa si insegnava ai giovani che il loro paese e il mondo che ereditavano non valeva nulla e doveva essere stravolto. Non si tramandava la grande storia di un popolo e un paese che hanno lottato, pur tra tanti errori, per affermare il bene della libertà e della vita. Non si trasmettevano un significato, una storia, un’appartenenza, un destino. Niente. Solo negazione. E questo non può non essere un fattore tra i tanti che spingono molti giovani a compiere stragi orribili».
Anche don Vincent è stato un giovane americano arrabbiato, deluso da una vita senza apparente significato, e ciò che l’ha cambiato, spiega, «è stata la grazia di Dio, che mi ha toccato e mi ha fatto capire che appartenevo a una storia significativa, che avevo un’identità, un destino, che la mia vita era voluta e non casuale, e che tutto ha misteriosamente un senso».
La trama di grazia di Dio
È quello che il sacerdote disse un giorno a un gruppo di maestre elementari americane, nel 1996, quando tutto il mondo inorridì leggendo del massacro di Dunblane, cittadina della Scozia, dove Thomas Hamilton massacrò 16 bambini e una maestra prima di suicidarsi. «Mi ricordo che tutti erano sgomenti, depressi, increduli. Come si poteva stare davanti a un fatto tanto terribile, orrendo, disumano, violento?». Reazioni che tutti hanno provato davanti alla strage di Uvalde.
«L’unica cosa che mi sono sentito di dire allora, e che mi sento di dire ora, è che, anche se in modo misterioso, Dio c’entra anche con questa tragedia. Non perché l’abbia voluta o sia cattivo, ma perché tutto, anche ciò che sembra definitivamente perso e senza senso, ha un significato e rientra in una trama di grazia composta da fili infiniti e che comprende anche le nostre vite. Se non affermiamo questo, se non capiamo che anche in queste tragedie Dio ci aspetta per darci il suo amore e il suo perdono, non rimane che la censura e la fuga della realtà».
Ed è proprio da questa trama che «un giovane come Salvador Ramos non si sente toccato, come tanti altri giovani americani, e allora niente esiste, nulla ti lega alla realtà e agli altri, le cui esistenze perdono di significato». Prima ancora di parlare di armi e regolamenti è questo vuoto che va affrontato e l’esistenza di questa trama che va fatta riscoprire.