Card. Carlo Caffarra
Il sacerdote vive dentro l’universo della fede, visibile solo agli occhi della fede. È come Mosè, che vedeva l’invisibile [cfr. Eb 11, 27].
Questo universo è abitato da tre abitanti: Dio, l’uomo, Satana. La trama della storia umana è tessuta dalle loro libertà.
La fede nella presenza di Dio, nella sua azione dentro la vicenda umana può oscurarsi ed indebolirsi anche nel sacerdote. Anch’egli vive dentro una cultura “senza Dio in questo mondo” [cfr. Ef 2,12], la quale può insidiare la sua fede.
È dunque assai importante durante l’Anno della Fede imparare più profondamente a riconoscere l’opera di Dio nelle vicende umane. “Col dono … dello Spirito Santo, l’uomo può arrivare nella fede a contemplare e gustare il mistero del piano divino” [Cost. Past. Gaudium et spes 15, 4; EV 1, 1368]
A tale scopo vorrei mostrarvi alcune caratteristiche proprie dell’agire di Dio, mostrarvi lo stile divino. I teologi medioevali parlavano della “regulae divinae sapientiae”. Ve ne propongo alcune.
1. Dio opera nel silenzio
La più grande opera divina, l’incarnazione del Verbo, è stata compiuta nel più grande silenzio, nel nascondimento di un’umile casa, nel più insignificante
paese del mondo allora conosciuto. Anche Gabriele, l’arcangelo, non vi assistette [“e l’angelo si partì da lei”, Lc 1, 38].
L’interlocutore privilegiato di Dio quando intende parlare all’uomo, è la coscienza morale di questi. È l’intimità della persona. “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria” [ibid. 16].
Non è facile per noi oggi custodire limpidi gli occhi della fede al riguardo. Viviamo in un mondo in cui si è nella misura in cui si appare: esse est videri! La comunicazione sociale ha assunto una tale importanza, che chi non vi partecipa è inesistente.
Lo stile di Dio è esattamente l’opposto. È per questa “regula divinae sapientiae” che ogni anima, anche del bambino, anche della persona più nascosta deve essere accolta dal sacerdote con un rispetto sommo. Dio può operare prodigi in essa, anche se si tratta di persone che agli occhi del mondo non valgono nulla.
2. Dio opera con poche persone
«Nell’Enciclica Spe salvi il Santo Padre Benedetto XVI cita le parole di san Bernardo di Chiaravalle: “Il genere umano vive grazie a pochi; se non ci fossero quelli, il mondo perirebbe” (n. 15). È un principio della storia della salvezza che Dio con poco opera grandi cose. Egli fa di singole persone strumenti di rinnovamento e canali di benedizione per molti altri.
Già nell’Antico Testamento Giuda Maccabeo ha confessato con devozione piena di fede: “Non è impossibile che molti cadano in mano a pochi e non c’è differenza per il Cielo tra il salvare per mezzo di molti e il salvare per mezzo di pochi; perché la vittoria in guerra non dipende dalla moltitudine delle forze, ma è dal Cielo che viene l’aiuto” (1 Mac 3, 18-19).
Anche Davide ha fatto quest’esperienza nel combattimento contro Golia, o Giuditta ed Ester, figure coraggiose di donne che hanno salvato il proprio popolo. Ciò che Dio vuole per il bene di molti è spesso compiuto da pochi.
La Chiesa ha la missione di andare verso tutti i popoli e di fare di tutti gli uomini dei discepoli di Cristo. Tuttavia è vero: la forza spirituale della Chiesa non dipende soltanto dal numero dei suoi membri. Per compiere le sue opere Dio non ha bisogno di molti, ma ha bisogno soprattutto di persone di fede. Di questo fu convinto anche il beato John Henry Newman. Disse che una caratteristica della provvidenza divina è “fare di pochi dei canali delle sue benedizioni per molti”.Altrove ribadì: “È chiaro che ogni grande cambiamento è fatto dai pochi e non dai molti; dai pochi, risoluti, intrepidi, zelanti”. Perciò il Signore “ha donato a pochi la sua attenzione, perché, se pochi vengono conquistati, molti poi seguono”.
Ma i pochi che hanno una responsabilità per il bene di molti, devono essere pronti a rinunciare al proprio “io” e a mettersi pienamente e senza esitazioni a disposizione della volontà di Dio».
La comprensione di questa regola divina ci libera dallo scoraggiamento. Non solo, ma chi agisce secondo essa si impegna allo stesso modo sia che abbia di fronte mille persone, o una sola.
3. Dio non opera secondo le nostre aspettative.
È questa una regola della sapienza divina che non finisce mai di commuovere e stupire. Dio improvvisa; non esegue programmi precostituiti.Faccio qualche esempio.
Il Concilio Lateranense IV [1215] emanò la seguente norma: “Perché l’eccessiva varietà degli ordini religiosi non sia causa di grave confusione nella Chiesa, proibiamo rigorosamente [firmiter prohibemus] che in futuro si formino nuovi ordini”. Qualche anno dopo lo Spirito Santo suscita nella Chiesa Francesco.
La Chiesa apostolica fu profondamente sorpresa dalla conversione di Paolo, suo acerrimo persecutore. E Paolo fece fatica ad essere accettato. Ricordate la prima reazione del vecchio Anania. Nessuno aspettava un tale evento.
Ma questa regola della sapienza divina è rinvenibile anche nella biografia dei singoli.
L’ordinazione presbiterale fu per Agostino una sorpresa del tutto imprevedibile. Egli anzi cercò in tutti i modi di sottrarvisi. Con questa “sorpresa” Dio ha donato alla Chiesa uno dei più grandi pastori e dottori della fede.
La constatazione di questo comportamento divino non ci deve certo impedire di programmare la nostra attività pastorale; non ci chiede di procedere “a caso”.
«Ma tutti i progetti umani devono restare aperti per la volontà di Dio e per il suo intervento, anche se diverso e imprevisto. I Pastori della Chiesa devono guidare e condurre, e allo stesso tempo devono confidare nell’inaspettato soccorso di Dio. Egli manda il suo aiuto quando noi non sappiamo più come fare, ci apre una strada quando non sappiamo più dove andare, e ci offre una soluzione quando noi non ne vediamo nessuna. Tutta la storia della Chiesa è anche una storia di sorprese di Dio».
4. Dio agisce se e quando l’uomo crede
Possiamo vedere in atto questa regola della divina sapienza riflettendo su due personaggi biblici: Abramo, il re Acaz.
Del primo la Lettera agli Ebrei dice: “per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, del quale era stato detto: in Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome. Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche i morti: per questo lo riebbe e fu come un simbolo” [11, 17-19].
L’offerta che Abramo fece del suo “unico figlio”, lo introduce in una condizione spirituale che dal punto di vista della ragione umana era assurda: priva di ogni senso. E ciò per due ragioni: Isacco era stato miracolosamente donato; egli era il solo per mezzo del quale le promesse potevano compiersi. Delle due l’una, dunque: o Dio non mantiene le sue promesse; o Dio agisce in modo del tutto assurdo.
Abramo non pensa né l’uno né l’altro. Egli rifletté [λογίσαμενος] che Dio può mantenere la promessa in Isacco perché è capace [δυνατός] di risuscitare i morti. Abramo semplicemente compie ciò che Dio gli chiedeva, semplicemente fidandosi di Lui; “per questo riebbe [il figlio] e fu come un simbolo”. L’archetipo di chi è certo che Dio arriva a metter in atto tutta la sua infinita potenza – risuscitare un morto – se si crede illimitatamente in Lui.
La nostra forza è dunque la nostra fede: “questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede” [1 Gv 5, 4].
La cosa è di un’importanza decisiva. Se si esclude la forza di Cristo dalla storia, siamo dei perdenti, sempre. Essa vi entra attraverso la nostra fede.
Comprendiamo ancora meglio confrontando – veritas per contrarium – ad Abramo un’altra figura biblica: il re Acaz [cfr. Is 7, 1-9].
Trovandosi in una situazione politica molto difficile, e nella quale il suo regno era in pericolo, Acaz pensa di ricorrere al mezzo umano più logico in questi frangenti: allearsi con un potente per essere liberato dai propri nemici. È la classica “fuga dalla fede” ritenuta da sola incapace di vincere il mondo, e quindi bisognosa di essere aiutata e completata da mezzi umani.
In realtà il progetto degli Aramei e degli Israeliti non potrà mai compiersi, perché contrario alla parola di Dio e alla sua promessa. Tale annuncio di salvezza deve essere accolto con fiducia. Se così non avviene, il nostro cuore sarà sempre “agitato come si agitano i rami del bosco per il vento”.
Che cosa dunque in qualsiasi condizione ci dà sicurezza, pace e gioia dello spirito? La risposta è uno dei testi, a mio giudizio, più importanti della Scrittura. Letteralmente dice: “se non accettate la sicurezza [che viene dal Signore, che è il Signore] non avrete nessuna sicurezza”[Trad. G. Odasso]. I LXX traducono: “ma se non crederete, non avrete stabilità”.
Non rifletteremo mai abbastanza su questa regola della divina sapienza: Dio agisce se e quando noi crediamo.
5. Dio agisce quando esiste fra noi l’unità
«Nella sua preghiera sacerdotale Gesù prega suo Padre “perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato”(Gv 17, 21). L’unità dei discepoli promuove la fede nel mondo. Quale fede? La fede che Gesù è il Figlio di Dio. Su questa verità si basano tutte le altre verità cristiane. Accettare questa verità è un dono, una grazia. Gesù promette che gli uomini giungeranno alla conoscenza di questa verità, se i suoi discepoli vivranno l’unità con Lui e tra di loro. Un mezzo decisamente missionario di guidare gli uomini alla fede cristiana è quindi vivere l’unità. Ci si può porre la domanda: siamo abbastanza consapevoli di ciò?».
Quando si parla di “pastorale integrata” non si parla di un metodo escogitato per sopperire … alla mancanza di personale. Non è una politica aziendale per salvare il salvabile.
È un’esigenza del nostro ministero, che di sua natura è collegiale; è la logica intima del nostro essere testimoni della redenzione.
L’unità edifica; la divisione distrugge. E Dio opera attraverso l’unità dei credenti. Siamo perciò molto vigilanti. Ogni parola, gesto, e attitudine che non favorisce l’unità nel nostro presbiterio, impedisce al Ristoro di agire attraverso esso.
6. Dove Dio agisce, Satana attacca e muove guerra
Non dobbiamo essere degli ingenui. Due testi biblici, fra i tanti che potremmo citare, ci liberano dalla nostra ingenuità. “Tutto il mondo giace sotto il potere del maligno” [1 Gv 5, 19]; “ora il Figlio di Dio è apparso per distruggere le opere del diavolo” [1 Gv 3, 8]. E Satana non si rassegna a vedere distrutte le sue opere; ad essere cacciato fuori dal suo regno. Cristo compie questa distruzione attraverso il nostro ministero. Quindi non è probabile che Satana ci attacchi e ci combatta. È certo.
I grandi maestri dello Spirito ci insegnano tutte le modalità con cui Satana agisce; ci offrono molti criteri per discernere la sua presenza ed opera. Non dobbiamo dunque stupirci se troviamo difficoltà di ogni genere fuori e dentro di noi, nel nostro ministero. Dovremmo stupirci del contrario. Brutto segno se il Satana ci lascia in pace! Vorrebbe dire che non stiamo distruggendo le sue opere.
“Tenete sempre in mano lo scudo della fede” ci dice l’Apostolo “con il quale potete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno”[Ef 6, 16].
7. Dio non [ci] chiede il successo, ma la fedeltà
Dobbiamo molto guardarci del desiderio dell’apparire. Uno dei “dogmi” dello spirito del tempo in cui viviamo è il dogma scientista. Esso dice: esiste ciò che è misurabile e verificabile. Se questo dogma venisse da noi condiviso, ci condurrebbe a pensare che la verità, la forza salvifica del nostro ministero è dimostrata dal suo successo verificabile. È un grave errore. Per varie ragioni.
L’efficacia del nostro ministero è per sua natura inverificabile, perché il suo interlocutore è lo spirito dell’uomo; sono le profondità spirituali dell’io.
San Giuseppe è stato proclamato non a caso Patrono della Chiesa. Di lui sappiamo pochissimo. La Scrittura non ci ha conservato nessuna parola detta da lui. Eppure la Chiesa ritiene che dopo la Madre di Dio sia il più grande santo. Egli è stato semplicemente fedele alla sua missione. È attraverso persone come S. Giuseppe che Dio opera dentro la storia.
Quando santa Teresa del Bambino Gesù morì era pressoché sconosciuta al di fuori del suo Carmelo. Oggi sappiamo che significato ha avuto, ed ha per la Chiesa la fedeltà alla sua vocazione carmelitana.
I martiri che agli occhi del potere sono degli sconfitti, diventano “seme di cristiani”.
Non lasciamoci mai prendere dallo scoraggiamento o dalla tristezza constatando i “pochi successi” del nostro ministero. Una sola cosa ci darebbe diritto alla tristezza: l’infedeltà alla nostra missione. Il resto non dipende da noi. Lasciamolo al governo della divina Provvidenza.
Conclusione.
La fede ci eleva alla conoscenza dell’agire di Dio nella storia; alla divina opera di edificazione della sua civitas, la civitas Dei. Di questa edificazione noi siamo – come insegna S. Paolo – i collaboratori di Dio.
Ogni sapiente architetto nella costruzione di un edificio segue delle regole: esiste una scienza delle costruzioni. Analogicamente Dio nell’edificare la sua città, la sua Chiesa, segue delle regole. Esiste una scienza divina delle costruzioni. La fede ce la fa scoprire, contemplare, e gustare nella sua bellezza.
Solo nella luce della fede il nostro ministero apostolico, qualunque sia il luogo e la modalità con cui la Chiesa ci chiede di esercitarlo, è trasfigurato. E possiamo avere una qualche visione dell’unica opera che resterà per sempre: l’edificazione del Corpo di Cristo che è la Chiesa. La fede “dà all’anima nostra un nuovo occhio, per dir meglio, le fa vedere la cose con l’occhio stesso di Dio e la rende in tal modo partecipe della conoscenza divina”[M. J. Scheeben, Le meraviglie della grazia divina, Lateran University Press, Roma 2008, 387].
Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai anzi è tenebra,
od ombra della carne, o suo veleno.
[Par. XIX, 64-66]