Don Luigi Maria Epicoco – Tratto da L’amore che decide; pp. 17-38
È il tre agosto nel 1492, sono le sei del mattino, il sole sta sorgendo. Ancora quell’arancio che dipinge il cielo e il mare dello stesso colore. Ci troviamo in un paesino, in un porto di una parte dell’Andalusia, della Spagna, con un nome che poi diventerà famoso: Palos de la Frontera. In questo paesino dell’Andalusia c’è un uomo italiano che si chiama Cristoforo Colombo e questo navigatore finalmente si trova nel mattino decisivo della sua vita. Dopo anni che ha sognato un viaggio, finalmente a quell’ora, a quell’albeggiare di quel giorno di quell’estate del 1492, vede realizzarsi il proprio sogno. Tre navi, tre caravelle la Nina, la Pinta e la Santa Maria, partono da questo porticciolo dell’Andalusia verso il mare aperto.
Secondo Cristoforo Colombo il loro viaggio servirà a trovare le Indie, a trovare una nuova strada che conduca alle Indie. Non lo sa Cristoforo Colombo in realtà quanto lontano quel viaggio lo condurrà e che cosa sarà di lui dopo quel viaggio. Diventerà uno scopritore di mondi nuovi, il primo che metterà i piedi su quello che verrà chiamato il nuovo mondo, quella che noi oggi chiamiamo America. Bene, pensate a quest’uomo, pensate a quel mattino, pensate al suo sogno, pensate a questa storia che è una storia vera, che è un fatto di cronaca e cerchiamo di rispondere a questa domanda: l’America, la meta di questo viaggio, è il mare? E’ l’oceano per caso? Questa è una domanda molto seria. La meta del viaggio che Cristoforo Colombo sta iniziando è nell’acqua? Quell’acqua è la meta? Non è piuttosto una strada quel mare? Non è una via quel mare? Non è un mezzo? Il mezzo che lo separa da una scoperta, il mezzo che lo separa dalla realizzazione di un sogno. Un sogno che ancora lui non conosce fino fondo. In realtà, l’errore più grosso che Cristoforo Colombo può fare, è quello di confondere il suo viaggio con quel mare e in quel momento pensare che la meta del suo viaggio è quel mare. Non è così. Quello è un mare da navigare, ma non è la meta.
Qualcosa del genere accade dentro di noi. I nostri sentimenti sono come un oceano, sono come un mare aperto, ma non sono mai la meta del nostro viaggio. È questo il nostro errore: pensare che noi siamo i nostri sentimenti, che la definizione della nostra vita la troviamo nel nostro sentire. Come se Cristoforo Colombo, toccando l’acqua, dicesse: questo è quello che io stavo cercando. Lui sta cercando dentro quell’acqua, ma quell’acqua non è la risposta. Noi possiamo prendere in mano la nostra interiorità, possiamo prendere in mano il nostro sentire, ma noi non siamo i nostri sentimenti.
Il nostro vero errore di oggi è questo. Siamo diventati esperti di questo mare, siamo diventati esperti di sentire e così, quando il mare è calmo, pensiamo di essere felici, e quando il mare è in tempesta, pensiamo di essere sfortunati, infelici, tristi, angosciati. Ma né la prima gioia, la gioia della serenità di un mare calmo che ci portiamo dentro, né invece la paura, l’insicurezza e la tempesta di alcuni mali che ci portiamo dentro dicono qualcosa di vero di noi. Non siamo solo quello che sentiamo, noi non siamo i nostri sentimenti. Noi stiamo cercando qualcosa al di là dei nostri sentimenti, qualcosa che forse è nascosta nel fondo dei nostri sentimenti, ma guai pensare che la nostra vita coincide con il nostro sentire, con la nostra pancia. Il grande errore del mondo contemporaneo è aver confuso la pancia con il cuore e il cuore con la pancia.
Se Cristoforo Colombo si fosse fermato a diventare solo esperto di acqua, se avesse trovato una formula per dire H2O, se avesse studiato tutto il paesaggio marino che c’è sotto quell’acqua, non avrebbe capito niente dei suoi sogni, dei suoi viaggi, di quello che stava cercando. Non è quando ci ripieghiamo su noi stessi o sui nostri sentimenti che riusciamo a capire qualcosa della nostra vita. La vita comincia a diventare bella quando comprendi che devi navigare quello che senti, devi saper mettere alla prova le cose che ti porti dentro. Che a volte la bonaccia o le tempeste che passano all’interno della tua interiorità sono cose che vanno affrontate, ma non sono cose che dicono fino in fondo il nostro destino. Noi non siamo quello che sentiamo, noi stiamo cercando qualcosa al di là di quello che sentiamo, qualcosa al fondo di quello che stiamo provando.
È proprio qui che la maggior parte di noi è bloccata perché in questa paranoia dei sentimenti ciascuno riesce a descrivere tutto quello che si porta dentro. Sa fare l’autopsia della propria angoscia o dei propri entusiasmi, ma alla fine, dopo che ha saputo anche formulare per bene la sua angoscia, la sua tristezza, il suo entusiasmo, la sua gioia e il fervore che si porta dentro, gli manca sempre qualcosa. È sempre insoddisfatto, come se la felicità gli sfuggisse, come se non fosse mai sazio. Sì, perché pensiamo di aver trovato la felicità perché proviamo qualcosa per una donna, per un uomo, per una strada o per un sogno, ma poi ci accorgiamo che non troviamo più questo, che ci sono dei momenti in cui guardando quella donna, quell’uomo, quella strada, quel sogno che ci portiamo dentro, avvertiamo paura e diciamo: l’amore è finito perché avverto paura. Oppure, peggio ancora, l’amore è finito perché “non sento” più nulla.
Avvertiamo l’abitudine e non riusciamo a vedere al di là di questo. Perché citiamo Cristoforo Colombo? Perché anche lui è partito un mattino del 3 agosto del 1492, alle sei del mattino, ma non è stata sempre un’alba. A volte si è trovato in situazioni difficilissime in quelle settimane di navigazione, ha dovuto affrontare persino l’equipaggio che a un certo punto si è messo contro di lui perché diceva: “Non stiamo andando da nessuna parte, dovremmo tornare indietro”. Ha cercato di convincere quest’equipaggio, ha cercato di accettare la bonaccia di un oceano che non conduceva da nessuna parte o di affrontare delle tempeste che hanno distrutto la maggior parte delle sue provviste, che hanno affondato una delle sue navi, che hanno fin dall’inizio messo a dura prova tutto. Insomma, non è stato un viaggio facile questo, però quando hai un viaggio, quando hai una meta, sei disposto ad affrontare anche tutte le difficoltà del mare, tutte le difficoltà che incontri in questo mare. Finché non capiamo che anche noi abbiamo un viaggio, non riusciamo a capire che dobbiamo trovare il coraggio di affrontare tutto quello che ci capita dentro, che dobbiamo affrontare i nostri sentimenti, che dobbiamo affrontare quello che sentiamo.
Se dovessimo dire che cos’è questo oceano, forse diremmo tre cose fondamentalmente. Questo oceano sono i nostri sentimenti. Ma sono anche le nostre emozioni, sono anche le nostre ferite. Sono tutto quello che la vita ci ha lasciato attaccato addosso, esattamente come capita quando l’acqua, sbattendo contro una nave, crea il muschio e rovina, lascia un segno. Il mare non è indolore, il mare lascia il segno. Anche la vita ci ha lasciato il segno, la nostra famiglia ci ha lasciato il segno, le persone che hanno popolato la nostra vita hanno lasciato il segno, quello che abbiamo vissuto ha lasciato il segno, quello che è accaduto quando avevamo un mese di vita o quello che è accaduto quando avevamo 10 anni o 20 anni o 100 anni. Non importa: la vita ha lasciato un segno, però non è nella autopsia dei licheni e dei muschi, dei segni che troviamo il significato della nostra vita. Dobbiamo saper affrontare tutto questo, dobbiamo accettare che questo esista, perché questo fa parte del viaggio. Ma non è il viaggio, non è la meta del nostro viaggio. Non è il motivo per cui ci siamo svegliati questa mattina. Non siamo stati chiamati a fare l’elenco di quello che c’è capitato, ma siamo chiamati ad attraversare quello che c’è capitato, ad arrivare da qualche parte.
Il nostro vero problema è che, proprio perché siamo ripiegati su noi stessi in questa paranoia dei sentimenti in cui la nostra competenza del sentire è diventata così grande, se qualcuno ci domanda “dove stai andando?”, noi non sappiamo rispondere. Sappiamo quello che sentiamo, ma non sappiamo dove andiamo. Ecco perché c’è una parola, una parola troppo segnata dal pregiudizio, che è la parola Vocazione. Dico pregiudizio perché solitamente una parola che è troppo clericalizzata. Quando si pensa alla Vocazione, si pensa ad un colletto, ad un velo. Si pensa semplicemente ad una scelta che ha a che fare con alcune persone. Non capiamo invece che la Vocazione è una parola universale, una parola che ha a che fare con ogni uomo. Ovunque sia nato un uomo di qualsiasi cultura, fede o religione, Vocazione è una parola che riguarda l’umano in quanto tale. Perché avere una Vocazione significa ricordarsi di avere un destino. E quando dico destino, sto parlando di una destinazione.
Ciascuno di noi ha un destino, cioè ciascuno di noi ha una destinazione, un motivo. La nostra Vocazione è ricordarsi di avere una meta, di avere una destinazione. Ricordarsi della Vocazione, significa smettere di guardare l’acqua, smettere di catalogare tutto quello che ci portiamo addosso sulle nostre navi, alzare lo sguardo e ricordarsi di che cosa suscitavano i nostri sogni. Dove stiamo andando? Perché la nostra vita dovrebbe valere la pena? Tutti noi abbiamo un destino, tutti ce l’abbiamo. Tutti noi abbiamo una destinazione verso cui stiamo andando fin da quando la nostra vita è iniziata con una manciata di cellule.
Bisogna però fare attenzione: noi pensiamo che avere un destino significhi avere una trama già scritta, la trama della nostra storia. Ma questo è sbagliato: avere un destino non significa avere il viaggio spiegato, sapere come andrà questo viaggio, quali saranno le scelte di questo viaggio, che cosa ci accadrà in questo viaggio. È così misterioso quello che accade tra noi e il nostro destino, perché riguarda la nostra libertà. Siamo noi a decidere come andrà il viaggio, siamo noi a fare le scelte. Noi siamo liberi, abbiamo un destino, abbiamo una destinazione, ma siamo liberi di decidere il nostro viaggio. Siamo così liberi che delle volte possiamo decidere contro il nostro destino, contro questa destinazione.
È bello pensare come nella Bibbia ci sia una storia simile. La storia di un uomo a cui viene rivelato il suo destino, la sua destinazione. E lui che cosa fa? Scappa nella direzione opposta. È la storia di Giona il profeta. Che cosa è la nostra libertà? La nostra libertà è la capacità di scegliere qualcosa in funzione del nostro destino, scegliere qualcosa in favore di questo destino o qualcosa contro di esso.
Avere una Vocazione significa innanzitutto non sapere quale sarà questa meta, ma sapere di averne una di cui sappiamo ben poco, ma che comunque crediamo che ci sia, che esista. Questo significa avere una vocazione, vivere credendo che esiste un motivo che fa noi esattamente noi, e se noi ci dimentichiamo di questo, se pensiamo che la nostra vita è abbandonata al caso o che la nostra vita è abbandonata a qualcosa che è già scritto da qualche parte, noi abbiamo buttato via l’unica cosa che ci rende davvero umani, cioè la nostra libertà.
Perché se siamo guidati dal caso, significa che non siamo liberi. Perché essere liberi significa che la vita non può deciderla il caso. La vita la decido io con le mie scelte, non semplicemente con quello che mi capitano, ma con quello che cerco.
Credere in questo destino non va mai confuso con l’idea che da qualche parte la nostra storia è già stabilita, scritta. Come se noi non potessimo venir fuori da quel segmento che qualcuno ha già scritto. Nessuno ha scritto la direzione del nostro viaggio, nessuno ha scritto come andrà il viaggio di Cristoforo Colombo, perché quel viaggio è consegnato a lui, alla sua creatività, alle sue scelte, al suo riuscire a parlare al suo equipaggio, ai suoi studi, alle sue riflessioni, alla sua speranza, alla sua ostinazione. Insomma, a lui. Al fatto che lui è libero.
Siamo liberi e la nostra vita non è abbandonata al caso o ad una storia già scritta. Siamo liberi! Ma noi abbiamo paura di dire che siamo liberi, perché ammettere che siamo liberi, significa ammettere che possiamo provare la vertigine di decidere qualcosa. Siamo atterriti dall’idea di dover decidere qualcosa: è sempre meglio prendersela con qualcuno, con gli eventi. Dire: “Eh, ma se io avessi avuto un altro padre, un’altra madre, un’altra città, un’altra opportunità forse sarei stato felice”. È sempre più comodo dare la colpa a qualcuno per qualcosa che è successo, o prendersela con Dio perché mi ha punito così, perché mi è successa questa cosa, perché ha stabilito che finisse così, perché mi ha fatto ammalare, perché è successo quell’incidente, quel dolore, quel terremoto.
Perché prendersela con qualcuno, è sempre più facile. Prendersela con qualcuno piuttosto che ammettere di essere liberi. Nessuno di noi può avere la dignità di portarsi addosso la parola Vocazione finché non accetta la vertigine di essere libero. Cioè accetta di essere infinitamente responsabile della sua vita al di là di quello che accade, e al di là di dove sta andando.
Ovviamente noi siamo liberi ma nessuno di noi può cominciare un viaggio se innanzitutto non sa da dove partire. E il punto di partenza per noi non è un posto. Il punto di partenza di ogni viaggio nella nostra vita è saperci di qualcuno. Se noi non ci sappiamo di qualcuno, se non sentiamo di appartenere a qualcuno, se non ci sentiamo le spalle coperte, non riusciamo a vedere la possibilità di quello che ci sta davanti. È soltanto quando sappiamo di essere di qualcuno che riusciamo ad andare anche avanti nella nostra vita. Quando è in dubbio di chi siamo, quando non avvertiamo un senso di appartenenza, andare avanti è angoscioso. Ci fa troppa paura, ci schiaccia, è terrificante. Non è un’avventura, è una tragedia. La nostra vita invece diventa un’avventura quando tu sai di essere di qualcuno. Ecco perché la buona novella del Vangelo, cioè quello che Gesù è venuto a dirci fondamentalmente non è come dovremmo vivere. Non ci ha fornito le istruzioni d’uso della nostra vita, non ha riscritto da capo quello che dovremmo fare praticamente in ogni singola situazione della nostra vita. Ci ha dato l’opportunità di poter vivere la nostra vita, ci ha detto che abbiamo un Padre. E poiché abbiamo un Padre, possiamo andare da qualche parte. Questa è la grande possibilità che Cristo ci dà. Dandoci un padre, ci dà qualcosa di certo sulle nostre spalle. E’ questo qualcosa di certo che ci aiuta a rischiare per quello che abbiamo davanti. Nessuno di noi trova il coraggio davvero di andare avanti, di fare qualcosa della propria vita, di rischiarla finché non si sente di Qualcuno, finché non si sente di un Padre, finché non sente un’appartenenza.
Questo è anche il motivo per cui la preghiera è importante. La preghiera non è sbiascicare qualcosa, non è citare formule a memoria, non è convincere Dio, ma l’opportunità che ci diamo di sentirci addosso lo sguardo di Qualcuno che ci dice: “tu sei mio, per questo puoi andare avanti.”
Bisogna pensare ad un bambino piccolo quando va a giocare in un posto che non conosce. Comincia a giocare vicino al padre o la madre e sta lì. Poi, ad un certo punto che cosa fa? Comincia ad esplorare, si allontana, va allo scivolo, comincia a saggiare come sono gli scalini di questo scivolo, a toccare la sabbia. Poi vede un albero, un cespuglio, vede un cane in lontananza. Questo bambino comincia ad esplora e ogni tanto, mentre si sta allontanando, si gira indietro e vede il padre o la madre e, se li vede, si sente sicuro. E per questo continua ad esplorare, ad andare avanti.
Questa è la preghiera: la preghiera è la capacità che abbiamo ogni tanto di girarci indietro, di sentirci addosso lo sguardo di Qualcuno. Questo ci permette di andare avanti. Per questo, se noi non preghiamo, non andiamo da nessuna parte. Non troveremo mai il coraggio necessario se non reimpariamo la preghiera, se non impariamo questo sguardo di Dio su di noi, questo saperci di Qualcuno, questo sentirci di Qualcuno, questo sentire le nostre spalle coperte. Non si può scoprire nessuna America, non si può scoprire nessuna via attraverso il mare finché non vi sia un’appartenenza, un punto di partenza. Il punto di partenza per noi è saperci di Qualcuno. Se state cercando di essere felici nella vostra vita, domandatevi non innanzitutto dove state andando. Domandatevi di chi vi sentite e chi siete, di chi siete. Perché se siete di nessuno è ovvio che sarà difficile vivere questo.
Se un giorno qualcuno venisse a dirci: “Questo ti renderà felice, fare questo ti renderà felice”, rimarrà sempre irrealizzabile tutto questo finché tu non senti di appartenere. Magari incontri una donna e dici: “Questa persona mi potrebbe rendere felice”, ma non riesci a rompere il ghiaccio perché in realtà non riesci ad andare verso di lei, fare un esodo nei suoi confronti, nei confronti di questo mistero, di questo rischio. È bello pensare che esista questa donna, che esista una via che conduca a lei. Ma questa via rimane un sogno finché non rischi un viaggio. E tu puoi rischiare di amare veramente qualcuno quando ti senti veramente amato da Qualcuno.
Questa è l’ebbrezza che ci dà la fede, questo è quel di più che dovrebbe darci la nostra vita spirituale. La vita spirituale non come dire delle cose, la vita spirituale non come un convincere Dio di qualcosa, ma la vita spirituale come quello spazio in cui, sentendoci di Qualcuno, troviamo il coraggio anche di vivere la nostra vita. Quando noi diciamo che Cristo c’è, essenzialmente stiamo dicendo questo. Non stiamo dicendo parole che possano riempire di complimenti Gesù, che non ha bisogno dei nostri complimenti. Dire che Cristo è Essenziale, significa dire che abbiamo bisogno di qualcuno che renda possibile la nostra vita e Lui l’ha resa possibile perché ci ha dato una partenza. E saperci suoi, ci rende capaci di attraversare anche le cose più difficili, anche l’oceano più aperto.
La seconda caratteristica del viaggio è quello che dicevamo all’inizio: non ci può essere nessun viaggio finché non c’è una meta. E avere una meta non significa per forza capire subito qual è il nome proprio di questa meta, ma svegliarsi la mattina facendo un atto di fede nel fatto che comunque esiste. Bisogna vivere sapendo che esiste questa meta, che esiste questo bene che è nascosto dentro la nostra vita.
Che cos’è che ci scoraggia? Cos’è che tante volte ci tormenta? Cosa ci pesa addosso? Cosa ci toglie tutto e ci fa mettere in dubbio che in realtà esiste davvero una terra? Che esista davvero una meta? Senza questa fiducia in questa meta, senza il fatto che noi crediamo che esista questa meta, la nostra vita non può realizzarsi, il nostro viaggio non può essere possibile. Se Cristoforo Colombo non avesse avuto la certezza che dall’altra parte del mare esistessero le Indie, non sarebbe mai accaduto nulla, ma era convinto. Questo lo ha spinto a mettersi in mare. Crediamo che esista il motivo per cui siamo nati o pensiamo che siamo semplicemente il frutto di una statistica? Se oggi ci siamo svegliati c’è un motivo. In ogni cosa della nostra vita c’è un motivo, c’è sempre un Senso a tutto, anche quando questo Senso tu non lo sai, anche quando questo Senso non riesci a dirlo, non riesci a capirlo. Ma tu senti che esisti perché esiste un motivo. Tu sei qui, in questa terra, in questo frangente della storia, perché esiste un motivo. Se tu non credi in questo motivo, in questa meta, non è possibile nemmeno fare un viaggio, non è possibile nemmeno vivere, dovrai accontentarti di sopravvivere.
Ma anche rispetto alla meta, rispetto al motivo, dobbiamo imparare una lezione fondamentale: dobbiamo lasciarci deludere in quello che ci immaginiamo, perché solo allora emergerà una novità che non riuscivamo a vedere. Per molta parte della nostra vita noi pensiamo che la nostra vocazione siano le Indie. E invece ad un tratto scopriamo l’America. Succede che pensavamo qualcosa e poi ne succede un’altra completamente nuova, completamente inaspettata. Hai vissuto tantissimi anni della tua vita a studiare perché accadesse qualcosa e poi ne è successa un’altra. Hai passato molti anni della tua vita a desiderare di essere madre e quando è accaduto che hai avuto un figlio, ti sei accorta che era così totalmente diverso dalle tue aspettative. Non è forse questa la radice del perché se qualcuno ci dice che nostro figlio ha una malattia, o una diversità, molte volte preferiamo sopprimerlo nel grembo per paura di quella delusione che ha investito le nostre aspettative? Non ci accorgiamo che in quella morte forse abbiamo messo a morte anche quella novità che da sempre ci aspettava. Non è mai misericordia togliere la vita a qualcuno semplicemente perché non è come noi lo immaginavamo. C’è qualcosa peggiore della sofferenza, è l’abbandono. Hai avuto una storia che non era la storia dei tuoi sogni, una storia con le sue caratteristiche, con le sue fatiche. Sognavi le Indie e ti ritrovi invece qualcosa che non avevi calcolato.
Trovi il nuovo mondo. Che cos’è il nuovo mondo? Quando tu prendi sul serio il viaggio della tua vita, inevitabilmente non arrivi alle Indie, ma arrivi in un mondo nuovo. In un modo nuovo di vivere la tua vita, in una vita che non avevi immaginato, in una vita che è molto di più di quello che avevi immaginato. Una vita che, mentre ti pesa addosso e ti fa faticare, ti spinge anche a benedirla, a dire quanto è stato faticoso tutto questo, ma che per una cosa così non rinunceresti mai. Quante volte mi è capitato di incontrare delle persone che hanno sognato qualcosa della loro vita e invece hanno fatto i conti con un mondo nuovo, con un mistero che non avevano calcolato. L’America, il nuovo mondo, è sempre molto di più di quello che tu immagini e vale di più di quello che tu immagini. È che ad un certo punto la nostra vita da fiaba diventa reale e noi, da incantati, cominciamo ad essere disincantati. Aveva ragione chi diceva che un uomo, per realizzare i propri sogni, deve innanzitutto svegliarsi. Perché se tu continui a dormire, il sogno rimane sogno. Però se ti svegli hai anche l’opportunità di realizzare quello che hai sognato. Questo è il nostro vero problema: non prendiamo delle decisioni perché abbiamo paura del mistero, abbiamo paura di quello che la vita può riservarci, abbiamo paura di quello che si può trovare dall’altra parte del mare. Abbiamo paura del nuovo mondo, abbiamo paura di una novità seppellita nel mistero che abbiamo davanti.
Non abbiate paura di questo mistero: è il motivo per cui siamo nati e il motivo per cui siamo nati non può non renderci felici. Deve per forza renderci felici, ma è una felicità che a volte è ha caro prezzo. Il prezzo di un viaggio non facile, il prezzo di cose che ti spingono a improvvisare, a cambiare i programmi, a rimescolare le carte, a rinunciare a quelle che tu pensavi essere delle certezze.
Sappiamo bene per quanti anni Colombo ha studiato le carte, pensando di avere ormai in mano la soluzione e poi, quando si è trovato in mezzo all’oceano, ha dovuto rinunciare alle sue convinzioni e si è reso conto invece che c’era una verità più grande che era un fatto davanti ai suoi occhi. Al suo equipaggio ha detto: “Guardate, se per altri 5 giorni non avvisteremo terra, torneremo indietro”. E invece dopo un paio di giorni hanno cominciato a trovare un pezzo di legno, un fiore e si sono domandati: “Ci deve essere della terra, altrimenti non avremmo potuto vedere questi segni”. La nostra vita è piena di segni e se ci sono questi segni ci sarà terra da qualche parte. E poi finalmente è successo che qualcuno si è svegliato e ha visto da lontano la terra. È arrivato il momento in cui tutto quello che uno ha sognato, sperato, per cui ha rischiato, è diventato un fatto. È diventato qualcosa su cui poggia i piedi.
È bello pensare questo: a che cosa serve una Vocazione? Ad avere una terra certa su cui poggiare i piedi. A volte è la persona che hai accanto, a volte sono i tuoi figli, a volte quello che stai facendo. È una terra che il Signore mette sotto i tuoi piedi, una terra che non avevi immaginato ma che ad un certo punto è accaduta.
E nulla di questo poteva succedere senza una decisione. Da che cosa ci accorgiamo se stiamo amando o meno? Non da quello che sentiamo, non da quello che ci sta accadendo, ma da quanto siamo capaci di decidere qualcosa. Se tu dici di amare qualcuno, è vero se sei capace di decidere qualcosa rispetto a quell’amore. Ad esempio, se sei così pazzo da guardare una persona negli occhi e dire: “Io voglio amarti per sempre, voglio decidere di amarti per sempre”, oppure pensi che la tua strada sia quella di dar la vita per gli altri, di dar la vita per quel Dio che si nasconde negli ultimi, non pensare che quella decisione ti metterà al sicuro. Quella decisione invece ti metterà nei guai. Ma è così che si diventa felici: mettendosi innanzitutto nei guai. Nei guai di chi prende delle decisioni. L’amore è un sentimento? No, l’amore è una decisione. È la decisione di andare da qualche parte. È la decisione di fare un viaggio. È la decisione di scegliere il nostro destino, scegliere la direzione.
Le cose diventano veramente nostre solo quando le scegliamo, non semplicemente quando accadono. A uno può accadere una malattia e restare sulla sedia rotelle. Ma quella malattia diventa pienamente sua e diventa veramente uno strumento che può anche renderti felice solo quando la scegli. Quando tu scegli ciò che non hai scelto. Quello che scegli diventa veramente tuo, quello che scegli ti porta sempre da qualche parte. Quello che scegli ti porta sempre in un nuovo mondo, ti porta sempre in una vita nuova, in una vita che ti sa raccontare che il motivo per cui sei nato è questo. Solo l’amore sceglie, tutte le altre cose sono fuffa.