Quando c’è la salute [non] c’è tutto

Pubblichiamo l’intervento di monsignor Corrado Sanguineti, vescovo di Pavia, all’incontro “Quando c’è la salute (non) c’è tutto!”, organizzato dall’Associazione Esserci martedì 19 gennaio 2021. 

Premessa: il senso del mio intervento è un tentativo di dire quale può essere l’apporto originale dei cristiani e della Chiesa, come comunità vivente nell’affronto di questa emergenza sanitaria, sociale, esistenziale, spirituale.

1. Basta la salute?

La salute è certamente un dono prezioso, di cui ci accorgiamo quando viene a mancare! Spesso la viviamo come un diritto o come un’ovvietà. L’orizzonte comunque, in cui ci poniamo, è la vita: ora c’è una positività nella vita, un naturale attaccamento alla vita, una voglia di vivere e ci accorgiamo della ricchezza e dell’assoluta gratuità dell’esserci che la pandemia ci sta facendo riscoprire. Il primo miracolo è la normalità!

C’è uno stupore, una promessa di bene e di bellezza nell’esistenza e nella realtà che dispone il cuore al senso del dono e del mistero: per questo l’ateismo, la negazione dell’apertura al mistero è profondamente disumana.

Tuttavia, senza negare il dono immenso che è la salute – lo stare bene, a livello psico-fisico – non basta essere sani per essere felici, per vivere con passione e gusto l’esistenza: occorre che ci sia qualcosa di grande, un ideale, un bene, che rendono la vita degna e piena, e paradossalmente per questo ideale riconosciuto, uno è disposto anche a dare la vita. Come afferma l’orante nel Salmo 62: «La tua grazia vale più della vita» (traduzione Cei 1974).

In una prospettiva ultimamente nichilistica e materialistica, la vita umana non ha senso, è un accidente, un “dato” che fluttua nel nulla, e allora l’unico “senso” è prolungare l’esistenza, renderla più confortevole possibile, consumarla nel modo “migliore”, al massimo realizzare opere che lascino una traccia di noi: è un vivere che rischia di diventare un sopravvivere, non c’è nulla per cui si sia disposti a morire perché non c’è nulla per cui si vive. In questa prospettiva, la malattia, il decadimento fisico del corpo e della mente, la morte sono il male assoluto da evitare, da posticipare, fino a sentire in modo panico e ossessivo la presenza di un virus come il Covid: per non contagiarsi, ci si chiude in casa, ci si spegne, si muore dentro. C’è una morte sociale e psichica che avanza e di cui sono vittime oggi soprattutto gli anziani, isolati e soli, e gli adolescenti e i giovani, ai quali vengono a mancare spazi vitali di rapporti e di espressività.

Da questo punto di vista trovo interessanti le riflessioni di Olivier Rey: mi riferisco, in modo particolare, al suo testo L’idolatria della vita, un saggio apparso in Francia nel luglio 2020 e ora ripubblicato da Società editrice fiorentina col contributo del Centro culturale di Milano (traduzione di Flora Crescini). L’autore è un ricercatore del Cnrs, membro dell’Istituto di storia della scienza e della tecnica, un matematico. Nel suo testo e nell’intervista che ha rilasciato al quotidiano Il Foglio, ci sono alcune provocazioni da raccogliere: «Quando non si può più donare la propria vita, non resta altro che conservarla». Rey mette a tema il “senso” di questa cosa che chiamiamo vita, perché vale la pena difenderla e – soprattutto – per cosa valga la pena spenderla: «Il problema non è negare il carattere tragico della morte, cercare di riassorbirla nell’ordine delle cose. È invece come abitare insieme questa tragedia». Da qui la domanda molto attuale: «Su quali libertà le popolazioni sono disposte a transigere e quali schiavitù sono disposte ad accettare, per fuggire da questo terrore, che nessun rito permette di comporre?».

Ora, non è questo il luogo dove riprendere il percorso che Rey svolge nel saggio, però vorrei trattenere due tratti della sua riflessione, che mettono in rilievo l’inadeguatezza di una concezione della vita, dove la salute diventa un bene assoluto, sempre più un diritto e un bene che lo Stato, attraverso il sistema sanitario, deve assicurare, e dove la morte è come espunta, cancellata, rimossa dall’esperienza umana.

Un primo aspetto: l’uomo contemporaneo non sa più fare i conti con la morte. In epoche passate, la morte apparteneva all’ordine naturale delle cose, era parte della vita: le “cose” hanno cominciato a cambiare quando gli uomini – migliorando le condizioni sanitarie ed economiche generali – hanno iniziato a trovare dei rimedi alle pandemie e alle carestie. E man mano che gli Stati aiutavano a far progredire le condizioni della popolazione – fatto in sé più che positivo – nella concezione delle persone si faceva strada l’idea che la causa della morte non fosse la malattia, ma lo Stato che non aveva fatto tutto ciò che era nelle sue facoltà per arginare la diffusione del male. Da qui discendono delle conseguenze, che ritroviamo nel modo diffuso con cui stiamo affrontando e vivendo la sfida del Covid, così come emerge nella comunicazione pubblica e nel sentire della gente. Le persone tendono ad affidarsi «per ogni aspetto dell’esistenza, a un sistema che li supera», un sistema composto da coloro che «aspirano a guidarli» con «un messaggio di onnipotenza»: pensiamo allo spazio massmediatico eccessivo occupato da virologi, infettivologi, e altri “esperti”.

Nota acutamente il nostro autore:

«Nella misura in cui il sistema aumenta in dimensione e potenza, ci si dispone verso di esso in attesa che divenga un guaritore universale. Detto in altri termini, anche in questo caso, più il sistema cresce, più delude – perché le attese si gonfiano all’infinito, mentre le capacità di colmarle, anche moltiplicate, restano limitate. Un tempo la morte era il termine necessario della vita terrestre, che la medicina poteva in certi casi ritardare. Oggi la morte è un fallimento del sistema sanitario».

Un secondo aspetto è da connettersi alla crescente diffusione di una visione sostanzialmente irreligiosa della vita, dove Dio è cancellato dall’orizzonte del pensiero e dell’esistenza e non si riconosce più una dimensione dell’uomo che vada oltre la finitezza della vita terrena.

È cambiata la nostra concezione di morte, perché è cambiata la nostra concezione di vita, è cambiato il “senso” della vita: l’esistenza non è più il tempo dato per la nostra libertà, per decidere di noi stessi, per meritarci la salvezza, ma è un tempo senza un fine, senza un traguardo. Dunque, l’unica cosa da fare è prolungarlo il più possibile: «Anticamente il sacro, in quanto esige un rispetto assoluto, si trovava posto al di sopra della vita – per questo poteva, eventualmente, richiederne il suo sacrificio. Come la vita è giunta a prendere proprio il posto del sacro?». Ma il senso religioso è qualcosa di strutturale all’uomo, e così «l’uscita della religione non ha abolito il religioso, ma ha lasciato dietro di sé una gran quantità di religiosità errante in cerca di punti fermi»: al posto di Dio, dominano gli idoli più o meno riconosciuti e venerati.

Qui nasce l’idolatria per la vita: dobbiamo salvare questa “vita” ridotta al solo aspetto biologico, che noi conosciamo sempre meglio, perché essa è un “valore”, a certe condizioni (non così nel caso dell’eutanasia o dell’aborto). Eliminato ogni riferimento al sacro, l’unica cosa che ci rimane è la vita intesa come hic et nunc. Solo che così finiamo per diventare tanti polli senza testa che scorrazzano per l’aia, come Rey spiega nel libro e al Foglio: 

«Cosa è successo? Il sacro non è scomparso, è stato trasferito dalla vita di cui parlava Cristo a quello che Walter Benjamin ha chiamato, in tedesco, “das bloße Leben”, il semplice fatto di essere in vita. È questo transfert che mi ha indotto a parlare di idolatria della vita: la vita che oggi viene sacralizzata non è quella che merita di esserlo. Da qui l’immagine che mi è sorta spontanea, per caratterizzare la nostra situazione: quella dei polli che possono continuare per un momento a correre, quando si è tagliata loro la testa».

2. Salute e/o salvezza?

Nel linguaggio religioso e cristiano, insieme al bene della salute, che può essere subordinato a qualcosa di più grande e non può essere idolatrato come un assoluto, si parla di “salvezza” per esprimere il bisogno e l’attesa di un bene totale, che sia esperienza di liberazione dal male, dalla miseria morale del peccato, dall’insensatezza della sofferenza e della morte, e inizio di un compimento pieno dell’umano, nelle sue esigenze fondamentali.

La stessa parola latina “salus” ha una duplice valenza: indica la salute e la salvezza (la salus animarum). Superando una visione parziale e spiritualista che si concentrava sulla “salvezza dell’anima”, spesso concepita in termini individualistici, perdendo il respiro pieno della speranza cristiana, si è compreso sempre più il nesso tra salute e salvezza: la salvezza è un’esperienza che può comprendere il dono e la cura della salute, eppure è di più, perché l’uomo non vive di sola salute, come non vive di solo pane.

Nell’agire di Gesù e della Chiesa, c’è uno sguardo totalizzante, olistico, a tutto l’umano, che abbraccia la salute del corpo e dell’anima, la guarigione e il perdono: Gesù è davvero il buon samaritano che è passato beneficando e liberando tutti coloro che stavano sotto il potere del male.

Se guardiamo alla testimonianza dei Vangeli, Gesù incarna la salvezza di Dio per il suo popolo, attraverso un cammino di vicinanza, di prossimità, di commossa compartecipazione al dolore umano, fino all’immedesimazione sulla croce: i miracoli e gli atti di guarigione di Cristo sono segni di una cura piena di tenerezza, e sono segni del Regno che viene, segni di qualcosa di più grande della semplice restituzione della salute. Tanto è vero che Gesù non guarisce tutti i malati e i suoi gesti non si limitano alla cura degli infermi, ma toccano la miseria dell’uomo, che ha anche il volto del peccato, dell’emarginazione, della misteriosa possessione del Maligno: a Cristo interessa tutto l’uomo, e l’essenziale è che attraverso la sua umanità piena di commozione e di bene, gli uomini scoprano il volto del Padre, il volto buono del Mistero che rende positivo il vivere.

C’è di più: nella sofferenza la grande domanda umana non è solo quella di guarire, ma di trovare un senso, un significato che renda umano anche il dolore e di non essere lasciati soli. Rispetto alla drammatica ed eterna domanda sulla ragione e sul fine dell’umana sofferenza, al di là delle risposte parziali che la medicina e la scienza offrono, Cristo non risponde con una teoria, con una sorta di “teodicea”, come gli amici di Giobbe: il Figlio di Dio fatto figlio dell’uomo risponde con una presenza, la sua presenza, che si fa prossima alla carne dolorante degli uomini, dei poveri, dei lebbrosi, dei malati, come all’anima appesantita dei peccatori e degli esclusi, e nel mistero della sua croce, diventa lui stesso «uomo dei dolori che ben conosce il patire», vive la sua passione come libera offerta di sé al Padre e prende su di sé i peccati, le ribellioni, le sofferenze, le disperazioni di tutti noi, di tutti gli uomini.

In questo modo, come appare evidente nella testimonianza dei santi e di tanti semplici cristiani, Cristo dà un senso nuovo alla sofferenza, la trasforma in una chiamata a seguirlo, a “impastarsi di lui”, a partecipare alla grande opera della redenzione. Ci sono pagine grandiose e commoventi di Emmanuel Mounier nelle sue Lettere sul dolore, nate guardando e accogliendo il mistero racchiuso nella sua piccola bimba cerebrolesa Françoise, e nella lettera apostolica di san Giovanni Paolo II sul significato cristiano della sofferenza umana Salvifici doloris, dove si percepisce come nel cristianesimo la sofferenza è davvero redenta, trasfigurata, risignificata:

«Ciascuno entra nella sofferenza con una protesta tipicamente umana e con la domanda del suo “perché”. Ciascuno si chiede il senso della sofferenza e cerca una risposta a questa domanda al suo livello umano. Certamente pone più volte questa domanda anche a Dio, come la pone a Cristo. Inoltre, egli non può non notare che colui al quale pone la sua domanda, soffre lui stesso e vuole rispondergli dalla Croce, dal centro della sua propria sofferenza. Tuttavia, a volte c’è bisogno di tempo, persino di un lungo tempo, perché questa risposta cominci ad essere internamente percepibile. Cristo, infatti, non risponde direttamente e non risponde in astratto a questo interrogativo umano circa il senso della sofferenza. L’uomo ode la sua risposta salvifica man mano che egli stesso diventa partecipe delle sofferenze di Cristo. La risposta che giunge mediante tale partecipazione, lungo la strada dell’incontro interiore col Maestro, è a sua volta qualcosa di più della sola risposta astratta all’interrogativo sul senso della sofferenza. Questa è, infatti, soprattutto una chiamata. È una vocazione. Cristo non spiega in astratto le ragioni della sofferenza, ma prima di tutto dice: “Seguimi!”. Vieni! prendi parte con la tua sofferenza a quest’opera di salvezza del mondo, che si compie per mezzo della mia sofferenza! Per mezzo della mia Croce. Man mano che l’uomo prende la sua croce, unendosi spiritualmente alla Croce di Cristo, si rivela davanti a lui il senso salvifico della sofferenza».

Dal di dentro di questa totale partecipazione alla nostra condizione umana, ferita dal peccato e dal male, Cristo fa esplodere la novità inimmaginabile, anche per i discepoli, della sua risurrezione, come un varco di luce che infrange e attraversa il muro impenetrabile della morte e offre una speranza radicale e affidabile alla sete di vita che, paradossalmente, si fa ancora più potente di fronte alla morte.

D’altronde, una posizione umana che non ha nulla da dire di fronte al dolore e alla morte, che interesse può avere per il cuore dell’uomo, per la sua inestinguibile domanda di senso e di vita? Come notava il cardinale Joseph Ratzinger nel suo intervento al Meeting di Rimini del 1990:

«Qui noi tocchiamo qualcosa di molto importante. Una visione del mondo che non può dare un senso anche al dolore e renderlo prezioso non serve a niente. Essa fallisce proprio là dove fa la sua comparsa la questione decisiva dell’esistenza. Coloro che sul dolore non hanno nient’altro da dire se non che si deve combatterlo, ci ingannano. Certamente bisogna fare di tutto per alleviare il dolore di tanti innocenti e per limitare la sofferenza. Ma una vita umana senza dolore non c’è, e chi non è capace di accettare il dolore, si sottrae a quelle purificazioni che sole ci fanno diventar maturi. Nella comunione con Cristo il dolore diventa pieno di significato, non solo per me stesso, come processo di ablatio, in cui Dio toglie da me le scorie che oscurano la sua immagine, ma anche al di là di me stesso esso è utile per il tutto, cosicché noi tutti possiamo dire con san Paolo: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo Corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). […] La vita va più in là della nostra esistenza biologica. Dove non c’è più motivo per cui vale la pena morire, là anche la vita non val più la pena».

3. Il compito dei cristiani

Se la Chiesa, come comunità vivente di persone afferrate da Cristo, è il suo corpo nella storia, è il segno visibile della presenza del Risorto, allora il compito della comunità cristiana è prolungare nel tempo lo sguardo e il tratto di Gesù verso gli uomini, in modo particolare di fronte all’esperienza drammatica del dolore, della malattia, della povertà, della morte.

Di fronte alla crisi che stiamo attraversando, la Chiesa ha un apporto originale da offrire, nella tensione a valorizzare tutto ciò che di bene e di vero nasce nella società, nelle sue differenti espressioni, anche di vario orientamento ideale. Certo non può limitarsi a dare consigli di buon comportamento, come una sorta di “comitato per la salute pubblica”, appiattendosi a ripetere e a osservare le disposizioni dello Stato; nemmeno può ridurre il suo messaggio solo alla promozione di un progetto sociale, con alcuni “slogan” ripetuti, che tutti, almeno teoricamente, condividono: «Siamo tutti sulla stessa barca, nessuno si salva da solo, non lasciamo indietro nessuno, niente sarà come prima …». Tutte notazioni vere, ma che rischiano di diventare uno stucchevole e infecondo moralismo!

Resta sempre valida l’osservazione che Don Luigi Giussani faceva in un suo intervento nel 1989:

«Un quotidiano ad alta diffusione nazionale ha riesumato di recente la figura di Andrea Emo come quella di un grande pensatore ignorato, pubblicandone un’antologia di pensieri, tra cui il seguente: “La Chiesa è stata per molti secoli la protagonista della storia, poi ha assunto la parte non meno gloriosa di antagonista della storia. Oggi è soltanto la cortigiana della storia”. Ecco: noi non vogliamo vivere la Chiesa come cortigiana della storia. Se Dio è entrato nel mondo non è per essere cortigiano, ma redentore, salvatore, punto affettivo totale, verità dell’uomo. È questa passione che ci tormenta e determina ogni nostra mossa. Nella contingenza d’una decisione si può, evidentemente, sbagliare, ma lo scopo per cui agiamo è solo questo: che la Chiesa non sia cortigiana, ma protagonista della storia. Questa immanenza della Chiesa alla storia incomincia da me, da te, dove sono, dove sei».

Noi cristiani, toccati e commossi dalla tenerezza di Gesù, che si rende presente nei suoi amici e testimoni come un’umanità diversa, più umana e più vera, che affascina e ci attira a sé, incontrando la sofferenza che ferisce il corpo e l’anima dei nostri fratelli, siamo come spinti a chinarci su chi soffre, a fare tutto il possibile per curare e lenire il dolore, per non lasciare solo nessuno, a condividere le necessità e i bisogni che ci fanno sentire “fratelli tutti”: in questo senso la prima testimonianza che possiamo dare, è la carità come dono commosso di sé, generando gesti e opere di solidarietà, di gratuità, di giustizia, di socialità buona. In questo davvero oggi c’è uno spettacolo di bene da guardare e da riconoscere, ed è un aspetto dove tutti possono lasciarsi coinvolgere, perché la natura umana ci porta a prenderci cura degli altri, c’è come un impeto di bene che permane nel cuore, pur ferito e confuso, e questa è la strada per la quale molti uomini nostri contemporanei, lontani dalla fede e dalla vita della Chiesa, senza saperlo, si ritrovano a toccare le piaghe di Cristo nella carne sofferente dei loro compagni in umanità.

La storia della Chiesa è una potente testimonianza: dalla fede nel Dio fatto uomo, crocifisso e risorto, è sgorgato un fiume di carità, che spesso ha generato opere nuove, come gli ospedali, gli orfanotrofi, le case per ragazze e donne abbandonate, le confraternite di carità, i monti di pietà, le prime forme di previdenza per i lavoratori più esposti e indifesi… Talvolta alcune di queste opere si sono poi istituzionalizzate come iniziative stabili dello Stato e di altre espressioni sociali.

Questo, tra l’altro, è uno dei significati della sofferenza, che esiste nel mondo per sprigionare l’amore, per aiutare e provocare gli uomini a essere più umani, meno cinici ed egoisti, come notava san Giovanni Paolo II, richiamando la parabola evangelica del buon samaritano (ripresa anche da papa Francesco nel secondo capitolo dell’enciclica Fratelli tutti, “Un estraneo sulla strada”):

«Seguendo la parabola evangelica, si potrebbe dire che la sofferenza, presente sotto tante forme diverse nel nostro mondo umano, vi sia presente anche per sprigionare nell’uomo l’amore, proprio quel dono disinteressato del proprio “io” in favore degli altri uomini, degli uomini sofferenti. Il mondo dell’umana sofferenza invoca, per così dire, senza sosta un altro mondo: quello dell’amore umano; e quell’amore disinteressato, che si desta nel suo cuore e nelle sue opere, l’uomo lo deve in un certo senso alla sofferenza. Non può l’uomo “prossimo” passare con indifferenza davanti alla sofferenza altrui in nome della fondamentale solidarietà umana, né tanto meno in nome dell’amore del prossimo. Egli deve “fermarsi”, “commuoversi”, agendo così come il samaritano della parabola evangelica».

Allo stesso tempo, occorre avere il coraggio di mettere a tema l’esperienza dell’umano soffrire, nella sua dimensione più propriamente esistenziale, e superare una concezione riduttiva della salute, che non tenga conto di certi beni relazionali e morali, essenziali per vivere:

«Il compito che la malattia propone alla coscienza cristiana – e alla coscienza di ogni uomo – non è semplicemente quello del come liberarsene, ma anche e prima del come viverla. […] Non solo per la fede cristiana, ma per la coscienza e la speranza di ogni uomo vivente, creda o non creda, la malattia è una prova; non è possibile vivere infatti se non credendo, e la consistenza della fede di ciascuno è messa alla prova dalla malattia» (Giuseppe Angelini, “La Chiesa e la città nel tempo della pandemia”, Teologia 3/2020).

Da questo punto di vista, non possiamo accettare acriticamente il fatto che l’affronto dell’attuale epidemia dipenda in modo sostanziale dalle indicazioni di un comitato “tecnico scientifico” nel quale sono rappresentati solo competenti in materia medica e sanitaria, con l’assoluta assenza di altre competenze che hanno un rilievo umano e sociale:

«Il prezzo di una tale esclusione è quello di ignorare del tutto, a livello di decisioni politiche, i costi delle decisioni in termini di qualità umana della vita comune. L’espressione più spesso denunciata di tale ignoranza sono le decisioni relative alla scuola» (Ibidem).

Così si cancella dall’orizzonte uno sguardo integrale all’esperienza della malattia e si finisce per promuovere una “cultura terapeutica” dove non c’è più spazio per le istanze tipicamente umane (istanze morali, religiose, di senso, di relazioni buone, di cultura …):

«L’istanza suprema è la salute, e non la vita buona. Il benessere ha sostituito il bene quale criterio supremo per valutare le forme dell’agire».

Su questo terreno, dobbiamo riconoscere che è mancata una parola della Chiesa, una riflessione che dovrebbe attivarsi, in un dialogo intelligente con uomini di vario sentire, attenti e pensosi dell’umano: qui c’è un compito da onorare, pena una testimonianza cristiana generosa, ma marginale, che non diventa un punto di giudizio e di paragone.

Infine, insieme alla testimonianza di una carità concreta e operosa, attenta a tutte le dimensioni dell’umano – pensiamo in questo momento, accanto alla sofferenza dei malati e dei loro familiari, alle difficoltà crescenti nel lavoro e nell’attività di moltissime aziende e imprese di varia natura, alle fatiche e alle lacune che stanno patendo gli adolescenti e i giovani, per l’eccessivo ricorso alla didattica a distanza, per la contrazione della normale vita aggregativa e sociale – e un contributo originale nel dialogo culturale odierno, noi cristiani siamo debitori al mondo e ai nostri fratelli uomini dello sguardo nuovo che Cristo rende possibile sul dolore, sulla malattia, sulla stessa morte e della speranza invincibile che la vita nuova del Risorto, già operante nel tempo presente, spalanca al nostro cuore: è radicalmente diverso vivere e affrontare il quotidiano con o senza Cristo, nella certezza che tutto va verso un destino di bene o nel timore che tutto vada a finire nel nulla!

Mi permetto di concludere il mio intervento riprendendo alcuni passaggi davvero illuminanti dell’omelia che l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, ha pronunciato in duomo per la solennità dell’Epifania, lo scorso 6 gennaio. Mi pare che indichino bene la direzione del cammino: 

«Gente del mio tempo, chi ti ha convinta che quando c’è la salute c’è tutto, se per l’ossessione di custodire la salute ti privi di tutto? Chi ti ha persuasa che la generosità sia un azzardo, che la compassione una debolezza, l’amore sia un pericolo, la promessa che si impegna per sempre una imprudenza? Gente del mio tempo, perché te ne stai a testa bassa a compiangere la tua situazione? Sembra che il virus, che stiamo combattendo e che cerchiamo con ogni mezzo di arginare, abbia seminato non solo malattia e morte, ma un male più oscuro, una paralisi dello spirito, una sospensione della vita, una confusione sul suo significato, uno scoraggiamento e un senso di impotenza. […] Riconosciamo che abbiamo bisogno non solo della salute, ma della salvezza! E Gesù è il Salvatore. Cerchiamo un significato alla vita, all’impegno, alla morte! E Gesù è la via, la verità, la vita che ci rivela che la vita è vocazione a rinnegare l’empietà, ad attendere la beata speranza. Cerchiamo un criterio per distinguere il bene dal male! E l’opera di Gesù è per riscattarci da ogni iniquità e formarci come un popolo puro che gli appartenga. Cerchiamo una ragione, che non sia solo reazione emotiva, per l’impegno, la solidarietà, l’opera per la pace. E Gesù ci rende pronti per ogni opera buona. Venite ad adorare il nostro Salvatore: non è una idea, non è una dottrina, è presente, vivo, ci parla, ci chiama».

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