Il grido e la consolazione

Fr. Mauro-Giuseppe Lepori – Abate generale OCist 

Carissimi tutti!

Anche questo anno così particolare e drammatico per il mondo, per la Chiesa e le nostre comunità giunge al tempo di Avvento e di Natale che rinnova in noi il desiderio che il Signore Gesù sia per tutti l’Emmanuele, il Dio-con-noi che fonda la nostra speranza e porta la consolazione della sua presenza. Mi sembra allora utile meditare con voi proprio sulla presenza di Cristo che consola ogni cuore. 

“Non piangere” 

“Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!».” (Lc 7,11-13) 

Mi colpisce sempre il modo con cui Gesù esprime la sua compassione verso questa donna. Mi colpisce che dica immediatamente “Non piangere!”, senza preamboli, senza girare intorno alla sofferenza di questa donna, alla tragedia che l’ha colpita. Non entra in dialogo con lei, non le chiede nulla. Vede solo la realtà presente di una donna sola che conduce alla tomba un giovinetto. Forse nessuno ha informato Gesù della situazione familiare di questa donna. Gesù vede che procede sola, senza un marito o altri figli accanto a lei a consolarla. È sola con il suo immenso dolore. Gesù vede questa realtà. Non ha bisogno di vedere altro, anche se sa leggere nei cuori, sa scrutare il passato e il futuro di ogni persona che incontra. Ma gli basta questo presente di dolore per abbracciare questa persona con la sua “grande compassione”. La compassione è vera se aderisce a un dolore presente, a un cuore che piange ora, che forse si dispera ora. Gesù non ha compassione di una storia dolorosa, ma di un cuore che soffre ora, anche se in quel cuore c’è iscritta tutta una storia di dolore, di solitudine, di speranze deluse, come l’ultima speranza che questa donna poteva riporre nel suo figlio unico dopo la morte del marito. A Gesù basta la realtà di un cuore che soffre davanti a Lui, in questo istante. È così che Cristo ha compassione eternamente del mondo intero, perché in ogni istante vede la sofferenza presente di ogni cuore. La compassione è l’adesione del cuore alla passione del cuore dell’altro. 

Ma la compassione non basta. Il cuore che soffre ha bisogno di consolazione. Nella compassione uno soffre con l’altro, ma questo potrebbe ridursi a un sentimento che ultimamente lascia l’altro solo con il suo dolore. La consolazione è una relazione; è, etimologicamente, un “essere con colui che è solo”, è una compagnia. “Io sono con te che soffri”: è questo che esprime la consolazione. 

Ora, Gesù, prima del miracolo, esprime la sua consolazione alla vedova di Nain in una parola apparentemente brusca e fredda, che sembra quasi un ordine, un tagliar corto con il dolore della donna: “Non piangere!”. Certamente l’ha detto con dolcezza, magari con le lacrime agli occhi, come quando pianse su Gerusalemme (Lc 19,41) o davanti alla tomba di Lazzaro (Gv 11,35). Ma questa parola così diretta, espressa con autorità (infatti, Luca qui non mette “Gesù”, ma “il Signore”), ci ricorda una cosa essenziale: solo Gesù Cristo può dire una parola così, solo Cristo può esprimere così la compassione e la consolazione. 

Due ore di pianto 

Circa un mese fa tornavo in treno dalla Germania. Un lungo viaggio di 12 ore. Fra Francoforte e Friburgo in Brisgovia, quando mi sono seduto al mio posto, ho sentito che dietro di me qualcuno gemeva in modo strano. Poi di colpo ho capito che era un giovane uomo che piangeva, a volte molto forte, tanto che nel vagone tutti erano sconcertati. Accanto a lui, sentivo che una giovane donna, anch’essa capitata accanto a lui per caso, cercava di consolarlo con molta delicatezza, ponendogli domande sulla ragione del suo dolore. Ho capito che questo giovane andava d’urgenza a casa sua dove suo fratello era morto, o almeno si trovava in una condizione disperata. Non potevo mettermi accanto a lui per consolarlo direttamente, anche perché la giovane donna lo faceva molto bene. Avrei voluto farlo, e quasi mi sentivo in dovere di farlo, ma a parte un rapido contatto in cui ci siamo stretti la mano e guardati negli occhi attraverso la fessura fra i due sedili, la situazione non me lo permise. Allora ho capito che mi era chiesto altro: la preghiera, una preghiera insistente e impotente, che non poteva contare che sulla tenerezza del Padre, sulla compassione del Figlio e la consolazione del Paraclito. 

Per due ore il pianto di quest’uomo e la mia povera preghiera hanno viaggiato insieme, in un legame molto più stretto che se avessi potuto abbracciarlo, consolarlo con gesti e parole. Non potevo fare altro, non potevo occuparmi d’altro che di questo. Il suo dolore era come messo nelle mie mani e io lo mettevo davanti al Signore. 

In quelle due ore ho capito cos’è la preghiera, e in particolare la vocazione monastica, come non lo avevo ancora capito in 61 anni di vita e 36 di monastero. Ci è dato e chiesto di consolare il mondo con la consolazione che solo Dio può darci, che solo Dio può offrirci. In quel treno, ero stato messo in un posto in cui ogni tentativo di una consolazione che venisse da me era mortificato, reso impotente. Ma nello stesso tempo era come se fossi responsabile io di trasmettere a quel cuore affranto la consolazione di Cristo. Certo, Gesù ci chiama ad esprimere anche in gesti e parole la sua consolazione al mondo. Ma ci ricorda che solo Lui sa e può consolare il cuore dell’uomo, Lui che ha formato il cuore umano e ne conosce tutta la gioia e tutto il dolore. Anche quando ci è chiesto e possiamo esprimerci in gesti e parole, la nostra consolazione ha senso e ha effetto solo se trasmette la compassione di Cristo. 

Lo esprime bene san Paolo scrivendo ai Corinzi: “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio.” (2Cor 1,3-4) 

La consolazione dell’umanità – e di quanta consolazione ha bisogno il mondo in questo anno di pandemia e di tante altre prove! – avviene par trasmissione, la trasmissione di un’esperienza di consolazione che ci è dato e chiesto di fare per primi, per poterla donare a tutti. 

Non ricordo quale padre ha scritto che la preghiera dei monaci, soprattutto nelle veglie notturne, è come l’alzarsi dal letto di una mamma che sente piangere il suo bambino nella notte e va a consolarlo. È forse soprattutto questo che siamo chiamati a recuperare per un profondo rinnovamento della nostra vocazione cristiana e monastica. Di fronte alle lacrime del mondo, Gesù ci chiama a diventare ministri umili e certi del “Non piangere!” che Lui solo può dire a chi soffre, a chi è solo, a chi ha perso tutto, anche la speranza. 

Di fronte ad ogni dolore, ci è allora chiesto di offrire una compagnia reale, un’amicizia reale, ma che abbia il soffio della fede che sa che solo Gesù può raggiungere i cuori spezzati e consolarli. Questo soffio è la preghiera, la mendicanza esplicita della consolazione di Cristo, la mendicanza dello Spirito Paraclito, che nella sequenza di Pentecoste invochiamo come “Padre dei poveri” e “ottimo Consolatore”. 

Quel giorno in treno ho ripensato ad una frase di Isacco il Siro che mi accompagna da anni: “Nella fatica della preghiera e l’attenzione del cuore, unisciti ai cuori afflitti, e si aprirà davanti a ciò che domandi una sorgente di compassione” (Discorsi ascetici, 30). 

Il vero rinnovamento 

A partire da questa esperienza sul treno fra Francoforte e Friburgo in Brisgovia, mi sono ritrovato a pregare in modo nuovo. Tutte le preghiere liturgiche, tutti i Salmi, hanno cominciato ad avere una risonanza diversa, e un diverso orizzonte. La preghiera cristiana ci fa sempre gridare a Dio per ottenere ciò che Lui solo può e vuole donarci. L’uomo, qualsiasi cosa domandi, in fondo chiede sempre la consolazione di Dio. Chiede sempre che Dio gli sia vicino, che non lo abbandoni, che sia con lui nel cammino della vita, che sia con lui nella prova, in ogni “valle oscura”, in ogni “ombra di morte” che deve attraversare e in cui si sente solo (cfr. Sal 22,4). 

Questa consapevolezza, che è una posizione di fronte a Dio, è il segreto di ogni rinnovamento. Chi affronta con fede la prova presente dell’umanità si accorge che non ha senso aspettarsi una novità che non sia legata alla consolazione che Dio offre al mondo in Cristo morto e risorto, in Cristo presente in mezzo a noi e che cammina con noi. La Chiesa, nonostante tutte le sue povertà umane, è il sacramento di questa consolazione, e non è fedele alla sua missione che nella misura in cui prega e opera per trasmettere all’umanità la consolazione di Dio in Cristo. Solo così il mondo si può rinnovare, a cominciare da noi stessi, dalle nostre comunità.

Non avevo mai fatto attenzione al fatto che nell’Apocalisse, Gesù dice “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5) immediatamente dopo la descrizione della nuova Gerusalemme in cui le lacrime sono asciugate e ogni dolore consolato dalla presenza e compagnia di Dio: 

“Ecco la tenda di Dio con gli uomini!

Egli abiterà con loro

ed essi saranno suoi popoli

ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.

E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi

e non vi sarà più la morte 

né lutto né lamento né affanno,

perché le cose di prima sono passate.

E Colui che sedeva sul trono disse:

Ecco, io faccio nuove tutte le cose.” (Ap 21,3-5a) 

È nella consolazione che Cristo rinnova tutte le cose. Lo farà totalmente alla fine dei tempi, ma questo rinnovamento escatologico inizia qui ed ora, ogni volta che le lacrime del dolore umano vengono asciugate. Ogni preghiera che mendica la consolazione del Signore e ogni gesto e parola che la trasmettono in tutte le situazioni in cui il dolore umano emerge di fronte a noi, anticipano e affrettano il rinnovamento totale del mondo in Cristo. 

Identificati a Gesù Cristo 

San Gregorio Nazianzeno, commentando il versetto del Salmo 8: “Che cos’è l’uomo perché te ne ricordi?” (8,5), si chiede: “Qual nuovo e grande mistero avvolge la mia esistenza? Perché sono piccolo e insieme grande, umile eppure eccelso, mortale e immortale, terreno ma insieme celeste?” E trova la risposta nell’incarnazione redentrice del Figlio di Dio: “Dio ha assunto in pieno la nostra umanità ed è stato povero per far risorgere la carne, salvarne l’immagine primitiva e restaurare così l’uomo perché diventiamo una cosa sola con Cristo. Egli si è comunicato interamente a noi. Tutto ciò che egli è, è diventato completamente nostro. Sotto ogni aspetto noi siamo Lui.” (Discorsi 7,23) 

Questo deve essere il grande stupore di fronte a noi stessi e ad ogni uomo: il fatto che l’incarnazione, la morte e la risurrezione di Cristo ci permettono di dire: “Sotto ogni aspetto noi siamo Lui”. Sotto ogni aspetto della nostra umanità, anche il più piccolo e fragile, noi siamo Lui e Lui è noi. Non possiamo capirlo, è un mistero, ma ci è dato di viverlo, di farne esperienza, e questa esperienza è una vita nuova, una moralità nuova, un modo nuovo di essere in relazione con Dio e con tutti. L’umanità nuova di Cristo, quell’umanità affascinante che il Vangelo e la vita dei santi ci illustrano, è possibile per noi perché Lui ci ha identificati a Sé, ed è come se mancasse solo la nostra disponibilità di aderire a Lui come verità totale e compiuta della nostra persona. Dio ci dona la vita per accogliere in noi l’identificazione con Cristo che compie la nostra umanità. È un cammino, perché la nostra libertà non procede a scatti, ma a passi. Però è importante sapere che il cammino è questo, e che il destino è già compiuto, come dice san Gregorio di Nazianzo, in Dio che “ha assunto in pieno la nostra umanità”. 

Ma se siamo attirati dal nostro destino di identificazione con Cristo, è importante che, con l’aiuto della Chiesa, guardiamo a come Cristo ha voluto essere presente in mezzo a noi. La Chiesa ci presenta Cristo, ci mette in presenza del Signore, in tutti gli aspetti della sua vita, e della nostra, perché siamo attirati e aiutati ad aderire all’identificazione con Lui. 

Basti pensare a come Papa Francesco ci chiede un cammino di conversione alla fraternità universale ponendoci, nell’Enciclica Fratelli tutti, di fronte all’immagine di Cristo buon Samaritano. È un’icona di umanità vera, di umanità piena, identificata sotto ogni aspetto a Cristo venuto a consolare ogni uomo. 

Per questo, anche quando manchiamo gravemente in questo, quando col peccato ci dissociamo dalla bellezza del modello che Gesù è per noi, – e lo facciamo mille volte al giorno! –, la vera correzione della Chiesa non consiste nello sprofondarci nel fango del nostro male, nella bruttezza del nostro venir meno a Cristo, ma nel rimetterci davanti agli occhi e al cuore la suprema bellezza del Signore che è la sua misericordia, la sua tenerezza paterna, totalmente trasparente alla bontà del Padre. 

“Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita” (Mt 11,25-29). 

Gesù, ci attira ad una pienezza di umanità che è una mitezza e umiltà di cuore che manifesta il Padre e trasmette tutto il bene che il Padre dona al mondo, cioè il Figlio stesso e lo Spirito Paraclito. 

La preghiera e la comunione fraterna non sono allora soltanto delle buone pratiche farisaiche per sentirci a posto, ma l’adesione all’umanità nuova che ci è donata nell’identificazione a Cristo, Figlio di Dio. Il rapporto con Dio e il rapporto con il prossimo sono le dimensioni essenziali e sostanziali in cui siamo chiamati a fare esperienza che “sotto ogni aspetto noi siamo Lui”. 

Il grido della domanda 

Alla morte di Lazzaro e di fronte al dolore delle sue sorelle, la consolazione di Cristo si è espressa nelle due dimensioni di una profonda preghiera al Padre e di una reale compagnia alle persone amiche che soffrivano. Per trasmettere la consolazione di Cristo, la Chiesa ci educa a vivere una preghiera autentica e una compagnia reale, incarnata, come quella di Gesù. La consolazione si trasmette come la donava Gesù durante la sua missione terrena: con una reale presenza alle persone, ma una presenza abitata da una totale mendicanza al Padre. In Lui queste due presenze, al Padre e agli altri, non erano mai dissociate, perché costituivano l’unità relazionale della sua persona. 

Gesù non dissociava la comunione con Dio dalla comunione con il prossimo. Erano in Lui espressione di un unico Cuore, di un unico amore. Anche la Chiesa è allora sempre chiamata a non dissociare l’impegno della preghiera dall’impegno della prossimità fraterna, e ad educarci a vivere questa unità che ci permette di aderire a Cristo, di diventare come Lui, di identificarci con Lui. 

Recentemente mi sono reso conto di quanto superficialmente e distrattamente recito la preghiera del Padre nostro. La preghiamo molte volte al giorno, perché è la preghiera che Gesù ci ha insegnato, il concentrato di tutta la preghiera cristiana, di tutta la preghiera biblica. 

Ma ho capito anche che la distrazione nel pregare il Padre nostro non è tanto nel non pensare a quello che dico, ma nel non domandarequello che dico. La distrazione, la superficialità nella preghiera, non sono una questione di concetti e parole a cui si pensa, e neppure di mancanza di sentimenti di fervore, ma è là dove le parole della preghiera non sono un grido di domanda, non supplicano, non mendicano. Mi sono allora messo a pregare il Padre nostro accentuando i verbi di domanda che questa preghiera ci fa dire: 

“Padre nostro che sei nei cieli sia santificato il Tuo nome, venga il Tuo Regno, sia fatta la Tua volontà come in cielo cosı̀ in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori e non abbandonarci alla tentazione ma liberaci dal male” 

E subito, era come se il Padre nostro ritornasse ad essere preghiera, la mia preghiera e la preghiera di tutta l’umanità che ha bisogno di Dio, del Padre. Quello che rende veramente nostro ciò che diciamo è essenzialmente la domanda, il grido che domanda, che mendica. Perché è come unire la parola che diciamo all’abisso del nostro vero bisogno, che può essere una ferita, un dolore, una mancanza, ma anche il bene che vogliamo per chi amiamo. Questo abisso è sempre però quello del nostro cuore che nella preghiera si esprime e si dilata. Più la preghiera esprime un bisogno acuto e grande, capace di dilatarsi a tutta l’umanità, e meno è superficiale, distratta. Il bisogno che ci fa gridare non è mai superficiale. Il nostro cuore e il cuore del mondo non sono mai superficiali. Superficiale è non pregare a partire da questo abisso. La preghiera diventa profonda se il grido che esprime risuona dal profondo di un bisogno che ci fa sentire abbandonati se un Altro non risponde. Per questo, la preghiera profonda, vera, umana, è sempre l’espressione di un bisogno di consolazione, di quella consolazione che solo un “Dio-con-noi” può donarci. 

Anche i Salmi, come diventano profondi quando ne sottolineiamo la domanda! I salmi sono scuola di preghiera perché ci insegnano a domandare veramente, a gridare veramente a Dio. “Dal profondo a te grido, Signore!” (Sal 129,1). Anche Gesù, quando cita un Salmo nel Vangelo, lo fa gridando: «Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: […] “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”» (Mt 27,46). 

Grida un abbandono, grida per chiedere la presenza del Padre, la consolazione del Padre alla sua solitudine abissale di “uomo dei dolori” caricato del peccato di tutta l’umanità. 

La libertà di domandare 

I Salmi, come tutta la preghiera della Chiesa, ci educano a capire che il grido attiva la nostra libertà. L’uomo può aver perso tutte le sue libertà, ma non perde mai quella di gridare, e quando si leva il grido, la libertà risorge, anche se impotente.

Noi non abbiamo la libertà come potere di avere e fare tutto, ma abbiamo sempre la libertà di domandare tutto, la libertà che riconosce che Dio può tutto, che dal Padre possiamo ottenere tutto, anche la grazia dopo il peccato, anche la comunione dopo la divisione, anche la vita dopo la morte. 

San Benedetto era molto cosciente del legame fra preghiera e libertà. Quando parla dell’oratorio del monastero, dà ad ogni monaco, che pure ha fatto voto di obbedienza totale e di non fare assolutamente nulla senza il permesso dell’abate, la libertà di sempre poter entrare in chiesa a pregare: “simpliciter intret et oret – che semplicemente entri e preghi” (RB 52,4). A nessuno può essere negata la libertà fondamentale di domandare semplicemente tutto a Dio. Perché è una libertà che Dio dà all’uomo creando la sua libertà ad immagine della Sua, in dialogo con la Sua. Di fronte alla preghiera di domanda semplice c’è lo spazio infinito della libertà di Dio che crea l’uomo al cospetto del suo infinito amore, della sua paternità amorosa. Il giardino in cui Dio pone Adamo ed Eva è uno spazio più spirituale che materiale in cui l’essere umano è in presenza di un Dio paterno e familiare, sempre aperto al rapporto con la sua creatura e al dialogo con lei. 

Da questo stare simpliciter di fronte a Dio, l’uomo si è sottratto con il peccato, ma Dio non gli ha tolto, e in Cristo ha totalmente restaurato, la possibilità senza condizioni di “entrare” liberamente in questo spazio. San Benedetto è cosciente che questo spazio è anzitutto interiore, anche se il luogo dell’oratorio ci educa a scoprirlo in noi e fra di noi. Infatti, dopo aver chiesto che il fratello che desidera pregare “semplicemente entri e preghi”, aggiunge: “non alzando la voce, ma con le lacrime e il desiderio del cuore – in lacrimis et intentione cordis” (52,4). Non è necessario enfatizzare artificialmente la natura profonda della nostra libertà, che è già grido fin dal profondo del nostro cuore, fin dal desiderio che il nostro cuore è, soprattutto quando prova la propria miseria, la tristezza profonda di essere solo e abbandonato perché ha abbandonato Dio. Le lacrime del cuore sono semplici e profonde come quelle di Adamo; meglio ancora: come le lacrime di un bambino a cui manca la mamma. 

Il salmo 101 dice che Dio dal Cielo si sporge “per ascoltare il gemito del prigioniero, per liberare i condannati a morte” (Sal 101,21). L’ascolto di Dio alla nostra preghiera, che è magari solo un gemito, un sospiro, è uno spazio di liberazione, una possibilità di essere liberi anche se prigionieri di qualsiasi limitazione della nostra libertà. Se fossimo veramente coscienti che la preghiera è uno spazio di vera libertà, in cui la nostra libertà si attiva, o magari rinasce, non “sbrigheremmo” così in fretta le nostre preghiere, come per liberarci da un dovere fastidioso. Vorremmo piuttosto pregare sempre, perché l’uomo per natura è fatto per essere sempre libero. Adamo non ha capito che Dio gli ha dato la libertà di domandare tutto, non quella di prendere tutto. Perché nella presa, la libertà si riduce al possesso, si chiude su ciò che si possiede, mentre che nella domanda la libertà si dilata e rimane aperta nell’accoglienza del dono, e quindi nella gratitudine, perché Dio non pone mai limiti ai doni della sua gratuità. 

Il corpo dello Spirito 

Se c’è quest’anima, se permettiamo a Cristo di liberare il nostro grido al Padre, allora anche la carne risuscita, allora anche il corpo riprende vita.

«Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto [il che implica che Gesù sempre domanda!], ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”. Detto questo, gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!”. Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: “Liberatelo e lasciatelo andare”.» (Gv 11,41-44) 

Il frutto della domanda che chiede al Padre lo Spirito è la vita del corpo, la carne che riprende vita, la carne liberata dalla morte, pur rimanendo legata dalla condizione terrena, “le bende”, che gli altri devono aiutarci a sciogliere. 

La vita della Chiesa, e la nostra vita nella Chiesa, è l’avvenimento sempre rinnovato dello Spirito di Dio che viene a dar vita alla carne umana, alla carne della nostra umanità, ferita e uccisa dal peccato e dalle sue conseguenze in noi e nel mondo intero. Cristo si è incarnato per mostrarci come la carne umana può diventare, per così dire, corpo dello Spirito Santo. Cos’è la Pentecoste se non l’animazione di un corpo ecclesiale in cui lo Spirito di Dio realizza la presenza di Cristo nel mondo? Ed è la nostra carne che lo Spirito prende e anima per renderla Corpo incarnato di Cristo. Come è avvenuto in Maria: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio” (Lc 1,35). 

È un mistero che non possiamo capire, ma che siamo chiamati a vivere, a lasciar avvenire in noi e fra noi come nella Vergine. Il mistero cristiano si capisce solo facendone esperienza, perché non è un’idea ma un avvenimento. Di fronte alla crisi umana generale, anzi: dentro di essa, come di fronte a quel ragazzo che piangeva sul treno, l’urgenza, assieme al grido della nostra libertà impotente al Padre onnipotente, è che avvenga una presenza rinnovata di Dio nella carne del mondo, che lo Spirito Santo torni ad animare il Corpo di Cristo per dire a Lazzaro di uscire dalla morte e per toccarela bara del figlio della vedova di Nain e farlo risorgere (cfr. Lc 7,14). 

Questa è la grazia e l’urgenza della e nella Chiesa, dalla Pentecoste in poi: diventare Corpo animato dallo Spirito Santo, come Gesù in Maria. Si tratta di dar corpo al Paraclito, cioè al Consolatore. Per questo, di fronte alle lacrime dell’umanità, la posizione più vera è la preghiera nel Cenacolo, ma anche l’uscire in piazza ad annunciare il Risorto, portando nel mondo, con la voce e le opere, il soffio dello Spirito che rende presente il Dio-con-noi. 

Incarnare l’incontro con Cristo 

Cosa incarna lo Spirito nella nostra umanità, fatta di persone, di vita quotidiana e sociale? Cosa incarna il Paraclito nel nostro corpo, nella nostra voce, nel nostro sguardo? Incarna l’incontro con Cristo, la presenza di Gesù che va incontro ad ogni uomo, che entra in relazione con l’umanità rispondendo a tutto il desiderio di ogni cuore. 

Gesù ha fatto miracoli di ogni genere, ma ogni tipo di guarigione o liberazione dal demonio soddisfaceva il cuore delle persone non tanto o non solo con la salute o il benessere ritrovati, o addirittura con la vita risuscitata, ma sempre e solo con l’incontro con Cristo stesso, con la luce del suo Volto. I nove lebbrosi che non sono tornati da Gesù, si sono accontentati della guarigione dalla lebbra. Solo uno ha capito che il suo cuore non cercava solo questa guarigione, ma il Volto di quell’Uomo che aveva incontrato (cfr. Lc 17,11-19). 

Quando lo Spirito Paraclito dà vita alla Chiesa, lo fa trasformando il gruppo di persone presenti nel Cenacolo in corpo che permette a tutti di incontrare Cristo. Lo Spirito trasfigura i nostri volti in Volto di Cristo, perché anche attraverso la nostra misera carne Gesù possa rispondere al desiderio di senso e di bellezza che brucia nel cuore di ogni essere umano, in ogni situazione personale, sociale e culturale si trovi; che brucia anche sotto la cenere della mondanità che oggi ci rende tanto distratti dal nostro vero desiderio. 

L’Avvento e il Natale ci aiutano a ricordare che l’Annunciazione non va mai dissociata dalla Visitazione, perché Dio si incarna in noi per diventare la sostanza e la gioia di ogni incontro umano. «Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!”» (Lc 1,41-42). 

Lo Spirito è donato per realizzare fra noi la comunione che Egli è nella Trinità. Il Corpo della Chiesa è formato dal Paraclito perché ogni uomo incontri e faccia incontrare agli altri Gesù Cristo, e in lui il Padre. La fraternità, a cui Papa Francesco ci richiama intensamente con il percorso di coscienza e conversione che illustra nell’enciclica Fratelli tutti, è il realizzarsi in noi e fra noi, e con tutti, di questo mistero. Se la nostra vita cristiana e la vita delle nostre comunità non serve a questo, non forma a questo, vuol dire che non sono animate dallo Spirito di Cristo, ma dallo spirito del mondo, che è sempre orgoglioso e chiuso su di sé, anche quando pensa di essere generoso e utile a tutti. 

Senza incontro con Gesù non c’è consolazione, perché senza di Lui il cuore rimane solo, privo di senso e di amore. Per questo è importante che in questo tempo della storia, così confuso e pieno di ansie, viviamo l’Avvento e il Natale ascoltando, anche per il bene di tutta l’umanità, l’invito che Gesù stesso ci rivolge ad accogliere con certezza di fede la sua venuta: “Risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina!” (Lc 21,28) 

Che la gioia natalizia di poter sempre incontrare Gesù illumini il nostro sguardo su tutti e su tutto e ci renda sempre più uniti attorno a Lui! Buon Santo Natale a tutti! 

1 Commento

  1. L’esperienza più grande di consolazione l’ho vissuta ultimamente durante due confessioni. E’ incredibile quanto questo Sacramento sia in grado di consolarci e di ristorarci.
    Personalmente ero portata ad accostarmi alla confessione solamente per i peccati più gravi. Ma la potenza che ha, quando abbiamo il cuore in subbuglio, quando non stiamo in pace con noi stessi, per un qualsiasi motivo, è incredibile. Sono incredibili le parole che si ricevono, e la consolazione che scende dentro il cuore. E una situazione che si pensava impossibile da cambiare, e che ledeva in qualche modo la nostra serenità nel quotidiano, assume tutto un altro aspetto. E’ un abbraccio fortissimo, pieno di amore, unico e irripetibile, ed è impossibile non uscirne cambiati, ristorati, consolati.

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