L’idolatria della vita

Emanuele Boffi – Tempi

Per chi come noi si senta un po’ “costretto” nelle litanie dei numeri del virus e abbia abbastanza a noia i battibecchi tra scienziati e politici, esiste un libro che aiuta a sollevare un po’ lo sguardo. Il Covid-19 pone grandi domande all’uomo contemporaneo, eppure è così raro trovare qualcuno che sappia metterle in luce: ci si perde nella frenesia di trovare soluzioni immediate e definitive per qualcosa di cui, ancora oggi, si sa ben poco. Tutto comprensibile, certo: vi è in ballo la vita di molti, l’economia, la scuola e tutto quel che si vuole. Ma come spesso capita – almeno questa è la nostra impressione di imbrattacarte e studenti fuori corso – ci si concentra spesso sui dettagli, formulando ipotesi di intervento che non vanno alla radice del problema.

Forse è solo una nostra reazione epidermica, ma per noi – da inizio pandemia – c’è da sempre qualcosa che non torna nel modo con cui si parla del coronavirus. Solo che, fino a ieri, nemmeno noi riuscivamo bene a inquadrare la questione, avvertendo solo sommariamente un disagio, fino a quando ci è capitato di leggere L’idolatria della vita di Olivier Rey. Il nostro è un ricercatore del Cnrs, membro dell’Istituto di storia della scienza e della tecnica, un matematico che ha scritto diversi e interessanti saggi a cavallo tra il pensiero filosofico e quello scientifico. Il nostro Rodolfo Casadei lo ha già intervistato per Tempi e sul Foglio Giulio Meotti ne ha proposto un colloquio ricchissimo di spunti.

Idee forti e radicali

L’idolatria della vita è un saggio apparso in Francia nel luglio 2020 e ora è stato ripubblicato da Società Editrice Fiorentina col contributo del Centro culturale di Milano (traduzione di Flora Crescini). È un testo con idee forti e radicali, ben argomentate, mai banali e ci piacerebbe che tutti i lettori di Tempi spendessero un po’ del loro tempo a leggerlo e poi, se vogliono, a farci sapere cosa ne pensano. Se osiamo dare questo consiglio è solo perché ci pare che ponga le questioni che agitano il nostro tempo presente secondo una prospettiva ignorata da tutti o comunque solo lambita da molti. Invece Rey è molto netto nel suo giudizio e questo ci piace: «Quando non si può più donare la propria vita, non resta altro che conservarla», scrive a un certo punto.

Quindi il tema è il coronavirus, ma non solo. Il tema vero del saggio di Rey è il “senso” di questa cosa che chiamiamo vita, cioè perché vale la pena difenderla e – soprattutto – per cosa valga la pena spenderla. Capite anche voi, si vola un po’ più alto rispetto ai battibecchi tra Bassetti e Galli o le polemiche sui colori delle regioni. Si parla di vita e di morte e di quale sia il loro significato, oggi. Come scrive Rey, «il problema non è negare il carattere tragico della morte, cercare di riassorbirla nell’ordine delle cose. È invece come abitare insieme questa tragedia». In altre parole, cercare di capire «su quali libertà le popolazioni sono disposte a transigere e quali schiavitù sono disposte ad accettare, per fuggire da questo terrore, che nessun rito permette di comporre».

Non saper fare più i conti con la morte

Il primo punto del ragionamento di Rey è che l’uomo contemporaneo non sa più fare i conti con la morte. Fino a un certo punto della sua storia l’umanità concepiva la morte all’interno dell’ordine naturale delle cose. Poi le “cose” cambiarono e cambiarono quando gli uomini – migliorando le condizioni sanitarie ed economiche generali – riuscirono a trovare dei rimedi alle pandemie e alle carestie. E man mano che gli Stati aiutavano a far progredire le condizioni della popolazione, avveniva anche un’altra mutazione: nella concezione delle persone si iniziava a far strada l’idea che la causa della morte non fosse la malattia, ma lo Stato che non aveva fatto tutto ciò che era nelle sue facoltà per arginare la diffusione del male.

Scrive Rey: 

«Mentre la terribile carestia del 1693-94, o anche quella del 1709, decimò per davvero la popolazione senza provocare rivolte, per la fame di cui veniva a soffrire il popolo nel 1789, ne fu reso responsabile il cattivo governo».

Nella sua intervista al Foglio, fa un altro esempio:

«Nel corso del XIX secolo fu promulgata una legge secondo la quale un decesso doveva essere constatato da un medico che, sul certificato che compilava, doveva indicare la causa della morte. Tra quelle elencate figurava la vecchiaia per le persone che avevano superato una certa età. Nel corso del XX secolo la speranza di vita è aumentata sensibilmente, ma la morte per vecchiaia è scomparsa dalle nomenclature mediche. In altre parole, nel momento in cui uomini e donne non hanno mai vissuto così a lungo, nessuno più muore di vecchiaia. La morte deve sempre avere una causa precisa, il non funzionamento dell’uno o dell’altro organo – il che lascia intendere che essa non è una manifestazione del nostro carattere mortale, bensì la conseguenza di una disfunzione specifica, che si sarebbe potuta prevenire o che in futuro si saprà trattare. Ciò fa sì che la morte appaia sempre meno come il termine necessario della vita terrestre e sempre più come un fallimento del “sistema sanitario”, che non ha saputo fare quel che occorreva per prolungare la vita».

È tutta colpa del sistema

Il problema dunque è solo e soltanto il miglioramento del sistema: «L’orfico “conosci te stesso” si traduce ormai: “Verifica come il tuo sistema riesce a farcela”», scrive a un certo punto l’autore.

Semplificando: da un lato, vi sono i cittadini che si attendono dal sistema – lo Stato, i suoi governanti, i medici e gli ospedali, a seconda del caso – la soluzione ai loro problemi; dall’altro, questi stessi rappresentanti del sistema che promettono ai cittadini di essere in grado di esaudire le loro richieste. In mezzo, nota Rey, monta la delusione perché, prima o poi, ci si accorge che le promesse saranno inevitabilmente non esaudite. Di qui la rabbia, la frustrazione, l’indignazione. Che è esattamente ciò di cui non abbiamo bisogno («il nostro mondo ha bisogno di tutto, tranne che di un aumento dell’indignazione», i continui appelli a indignarsi per cambiare le cose hanno lo stesso effetto di chi «raccomanda il whiskey a un alcolista»).

Qui ci sono già molti temi che poi ritornano nel saggio del matematico francese, in particolare l’idea che oggi le persone tendano ad affidarsi «per ogni aspetto dell’esistenza, a un sistema che li supera»; un sistema che è composto da coloro che «aspirano a guidarli» con «un messaggio di onnipotenza».

«Parlare di salute, là dove in verità è essenzialmente questione di malattia, è significativo per lo slittamento di riferimenti che si è operato: nella misura in cui il sistema aumenta in dimensione e potenza, ci si dispone verso di esso in attesa che divenga un guaritore universale. Detto in altri termini, anche in questo caso, più il sistema cresce, più delude – perché le attese si gonfiano all’infinito, mentre le capacità di colmarle, anche moltiplicate, restano limitate. Un tempo la morte era il termine necessario della vita terrestre, che la medicina poteva in certi casi ritardare. Oggi la morte è un fallimento del sistema sanitario».

Dizionari e definizione di vita

Perché è cambiata la nostra concezione di morte? Perché è cambiata la nostra concezione di vita, dice il nostro autore. O meglio ancora: perché è cambiato il “senso” della vita. Che non è più il tempo che ci è dato per meritarci la salvezza, ma un tempo senza un fine, senza una prospettiva, un traguardo. Dunque, l’unica cosa da fare è prolungarlo il più possibile:

«Anticamente il sacro, in quanto esige un rispetto assoluto, si trovava posto al di sopra della vita – per questo poteva, eventualmente, richiederne il suo sacrificio. Come la vita è giunta a prendere proprio il posto del sacro?».

Rey fa numerosi esempi tratti dalle definizioni che, nel corso degli anni, si trovano sui vocabolari a proposito della parola “vita”:

«Nelle sue prime quattro edizioni (1694, 1718, 1740, 1762), il dizionario dell’Accademia francese dava come primo significato della parola vita: “L’unione dell’anima col corpo”, o “lo stato in cui si trova l’uomo quando la sua anima è unita al corpo”. Con la quinta edizione, nel 1798, le cose cambiarono: la vita divenne “lo stato degli esseri animati finché hanno in sé il principio delle sensazioni e del movimento”. Nell’ottava e ultima edizione del 1935, la vita è definita come “l’attività spontanea propria degli esseri organizzati” – o “l’insieme dei fenomeni e delle funzioni essenziali che si manifestano dalla nascita alla morte e che caratterizzano gli esseri viventi”».

Il passaggio da un significato all’altro è lampante, ma, fa notare Rey, è rimasto un certo fattore d’ambiguità perché «l’uscita della religione non ha abolito il religioso, ma ha lasciato dietro di sé una gran quantità di religiosità errante in cerca di punti fermi».

Polli senza testa

Qui nasce l’idolatria per la vita. Dobbiamo salvare questa “vita” di cui conosciamo e ri-conosciamo solo l’aspetto biologico, perché per un retaggio sempre più oscuro con il passato, essa è un “valore” (ma, appunto, dipende: si pensi all’eutanasia o all’aborto). Eliminato ogni riferimento al sacro, l’unica cosa che ci rimane è la vita intesa come hic et nunc. Solo che così sembriamo tanti polli senza testa che scorrazzano per l’aia, come spiega nel libro e ribadisce al Foglio:

«Cosa è successo? Il sacro non è scomparso, è stato trasferito dalla vita di cui parlava Cristo a quello che Walter Benjamin ha chiamato, in tedesco, “das bloße Leben”, il semplice fatto di essere in vita. È questo transfert che mi ha indotto a parlare di idolatria della vita: la vita che oggi viene sacralizzata non è quella che merita di esserlo. Da qui l’immagine che mi è sorta spontanea, per caratterizzare la nostra situazione: quella dei polli che possono continuare per un momento a correre, quando si è tagliata loro la testa».

La vita è diventata dunque oggetto di idolatria e questo deriva in parte, ma solo in parte, «da un transfert che ha poste in gioco di carattere religioso. In parte soltanto, però: il fenomeno è, ugualmente, il rovescio di un panico – il panico di fronte alla sofferenza e alla morte. Per proteggerci da questo spavento, occorre a tutti i costi non uscire dall’idea che, qualsiasi siano le circostanze, si può ancora e sempre fare qualcosa, che un rimedio sia disponibile… Non c’è morte, ci sono cause di morte, e ognuna è suscettibile di essere combattuta con le unghie e con i denti. In questo ci troviamo sempre più dipendenti dal “sistema sanitario”, come il drogato dipende dalla sua droga. E perciò l’Organizzazione generale, in quanto dispensatrice del detto sistema, ci tiene in pugno».

Prima della battaglia

L’uomo moderno è una mosca in una ragnatela. Eliminato o soffocato il riferimento trascendente, ha cercato di sostituirlo con altri dèi minori, cui non ha chiesto risposte alle sue domande ancestrali, ma solo di garantire funzionalità biologica al guscio corporale. Il risultato, nota Rey, è che ci troviamo, paradossalmente, nella situazione descritta da Hobbes, «nella quale l’individuo accetta di sottomettersi al potere assoluto del Leviatano in cambio della protezione che dovrebbe assicurargli contro la morte».

E poiché tale protezione non può essergli garantita fino al punto di soddisfare le sue più profonde ansie esistenziali, l’uomo moderno si trova solo con i propri crucci irrisolti. Situazione vertiginosa persino più problematica della condizione in cui si trovavano i suoi avi quando erano pagani, che, almeno, non idolatravano il dato biologico fine a se stesso.

Meglio che nel libro, Rey lo spiega al Foglio con quest’ultimo esempio:

Nell’Iliade, Sarpedonte confida a un compagno, prima della battaglia: “Caro mio, se scampati che fossimo a questa guerra dovessimo vivere sempre, senza vecchiaia e senza morte, io stesso non sarei tra i primi a combattere né te spingerei, tanto meno, alla battaglia gloriosa; ma siccome in realtà ci sovrastano casi di morte innumerevoli, che un uomo non può evitare o fuggire, andiamo all’assalto, daremo a qualcuno o qualcuno a noi darà gloria!”. Questo passaggio mostra che il sapere, ancorato al corpo della nostra finitudine terrestre, ci rende coraggiosi: è perché sappiamo che in ogni caso si muore (san Francesco parlava di “nostra sorella morte corporale”), che si diventa capaci, quando le circostanze lo esigono, di dare la propria vita. E viceversa, l’idea che con le giuste misure la morte potrebbe essere differita indefinitamente renderebbe infinitamente codardi».

Per approfondire qui trovi l’intervista a Olivier Rey apparsa sul quotidiano Il Foglio del 11-11-2020

6 Commenti

  1. Questo articolo dice alcune cose vere per questo ci mettiamo alla difensiva…

  2. Mamma mia quante citazioni, parole, parole, quando basterebbe solo vivere la propria vita senza concepirsi soli al mondo ed immortali. Vivere con semplicità quanto ci è dato in ogni istante già da ora grazie ad una certezza che ci ha raggiunto e che sconfigge la paura facendosi compagnia. Riconoscere che tutto ci è dato, dalla famiglia alla salute, al lavoro, alle amicizie, allo sconosciuto che incontriamo. La cosa più difficile (anche se è quella più alla portata di tutti) è comunicare con la propria vita a tutti la gioia che ci ha raggiunto. Non è facile, non è legata al Covid o ad altre circostanze ma al cuore di ognuno, per questo è più vera,  comprensibile ed immediata di tanti bei discorsi e citazioni, perfetti sotto tutti i punti di vista, ma che, a mio modesto parere, non comunicano e condividono nulla di sé.

  3. Mi colpisce molto il punto in cui si dice che cerchiamo di prolungare il più possibile la nostra vita terrena ma paradossalmente spesso e volentieri non si vive affatto ; penso al nostro amico sandro e mi rendo conto che la sua è stata una vita vissuta in pienezza, … abbiamo dimenticato che la vita stessa non ci appartiene ed è un dono enorme e più che cercare di allungarla dovremmo viverla in pienezza con o senza coronavirus . E in pienezza si può vivere con le mascherine indossate , sotto un casco per respirare , con un ago attaccato ad un braccio, senza capelli a causa di terapie chemioterapiche: amare la vita è molto diverso di idolatrarla .
    E ancora mi trovo a riflettere sul fatto che il coronavirus debba essere il percorso stesso e non un incidente di percorso , come del resto tutto ciò che ci accade .
    Poi per carità’… tra il dire e il fare c’è tanto da fare … ma non si può spiegare il mare a chi vede solo acqua… c’è molto molto di più , è proprio un cambio di paradigma.. almeno credo .
    Simona .

  4. Dopo aver letto e riletto questo scritto e la complessa analisi che espone e la conclusione che in sostanza sintetizzerei con il vecchio detto che è preferibile vivere un giorno da leone piuttosto che cento da pecora, sento il bisogno di un’osservazione. Scorrendo il testo ne resto perplessa perché al di là dello scritto io cerco sempre uno sguardo e lo sguardo qui manca, o meglio è uno sguardo fin troppo distaccato, teorico ecco, oso dire privo di amore, uno sguardo che negli altri non coglie una moltitudine di persone (creature del Padre), ma una massa informe.
    In teoria sono osservazioni verr per carità, ma manca una carnalita’ un’affettività che è invece quello che mi conquista e che rende capaci di accompagnare chi è prossimo al trapasso tenendolo per mano fin quando la Mano di Dio prende la sua… come meravigliosamente dice “Favola” la canzone di Claudio Chieffo ).

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