Intervista a don Vincent Nagle – La Nuova Bussola quotidiana
Tiene banco il caso di “Mario”, nome di fantasia di un paziente tetraplegico di 43 anni. Tanti i resoconti, ma nei media mainstream che esultano per il fatto “storico” – cioè perché una persona si potrà, forse, presto suicidare con l’aiuto dello Stato (vedi qui per approfondire) – mai si accenna al valore infinito che quella vita ha. E continua ad avere.
La Nuova Bussola ha contattato don Vincent Nagle, raggiungendolo telefonicamente dopo un intenso pomeriggio passato dal sacerdote, come d’abitudine, con gli ammalati della Fondazione Maddalena Grassi.
Don Vincent, “Mario” è da una decina d’anni tetraplegico e ha detto che si sente torturato, umiliato e ritiene che la propria vita non sia più dignitosa. Cosa ne pensa?
Penso che ogni psicologo sappia, e tutti sappiano, che il senso della dignità che ha una persona nasca innanzitutto dallo sguardo della mamma, da come ti guarda la mamma fin dall’alba della vita. Questo è il primo fondamento della nostra esistenza: come siamo guardati. Se lo sguardo che incontriamo, anzi, gli sguardi ci comunicano questo senso di dignità, allora i dolori eventuali – grandi e piccoli, a lungo e breve termine – tutti i dolori dell’esistenza trovano un posto dentro una strada dignitosa, dentro una promessa positiva. La prima verifica che la promessa dell’esistenza è vera avviene attraverso gli sguardi che incontriamo. Detto questo, è importante chiarire una cosa.
Prego…
Io ovviamente non critico e non accuso nessuno di coloro che stanno vicino a Mario, sia perché tutti facciamo fatica a guardare con positività i dolori, i limiti, le contraddizioni della vita, sia perché, soprattutto, non so assolutamente che storia vivano quelli che stanno vicino a lui. Ma so una cosa per esperienza.
Quale?
Che se attorno hai persone che ti guardano con il senso pieno della dignità per quello che stai passando, con il senso della meraviglia e gratitudine che hai per quella vita che è inserita in un progetto eterno, tutto diventa più semplice. Faccio un esempio. Una volta, una persona che doveva morire a breve mi chiese: “Ma in Paradiso ci sarà il mio cane che è morto?”. E io le dissi: “So che mi chiedi questa cosa perché nessuno ti guardava come quel cane. Tu eri la felicità per quel cane, e lui era la felicità per te, che adesso non puoi andare in nessun posto senza quello sguardo”. Ma poi le chiesi: “Se tu potessi andare in un luogo in cui, per ognuno che incontri, tu sei l’immagine e la somiglianza della felicità perfetta, della vita, dell’amore, cioè di Dio, e dove tutti ti guardano con il più completo stupore per chi sei tu, a te mancherebbe questo cane?”. Mi rispose di no. Allora dobbiamo curarci di questo sguardo.
Se potessi essere con lui, cosa diresti a Mario?
Non so cosa gli direi. Ma questo lo posso dire: se Mario, e chi si trova in uno stato simile di sofferenza, non incontra questo sguardo, è colpa nostra, è perché noi non ci siamo preoccupati per chi – nel nostro palazzo, nella nostra parrocchia, nel nostro paese – è addolorato, per chi soffre per mancanza di significato. Siamo noi che abbiamo avuto paura, noi che non abbiamo voluto avvicinarci, noi che abbiamo dubitato della dignità della nostra esistenza e quindi anche della dignità della sua, siamo anche noi che professiamo la salvezza di Gesù Cristo a non averne voluto sapere nulla.
A proposito. La risposta che il cristianesimo può dare, allora, è restituire senso alla sofferenza di queste persone e di tutti quanti? Indicando che la Croce non è una sofferenza inutile, ma che Gesù ti aiuta a portarla e che essa redime il mondo?
Questa è la risposta, però aggiungo: non è una risposta che si basa solo sulle parole, ma è un incontro. Le parole servono per spiegare quello che hai incontrato, ma – da sole – non te lo fanno incontrare.
Certo. Potrebbe fare la differenza se lui, tornando a Mario, capisse che la sua sofferenza può avere un valore enorme…
Non è solo questo. Se lui capisse quanto la sua vita, solo per il fatto di esistere, ha un valore infinito ed è stata pensata per un compimento eterno: allora il dolore sarebbe una condizione quasi “abbracciata”, potremmo dire, come un atleta che “abbraccia” i dolori strazianti alle gambe, alla schiena, alle mani, che abbraccia la fatica e la stanchezza, perché sa che tutto questo lo porterà a una vittoria. Non è il dolore in sé, è la sua vita che ha valore. Se lui sospettasse questo, allora verrebbe fuori anche l’ipotesi che questo dolore, abbracciato e accolto, è un passo verso la vittoria. Fino ad averne gusto. Quindi anche i passi dolorosi della sua esistenza sono una sfida per arrivare in fondo, fino all’Amore che lo sostiene e per cui lui esiste.