Non siamo come i funghi!

Pier Paolo Bellini -Tempi

«L’umanità è fatta più di morti che di vivi»: quando Auguste Comte ha coniato questo paradosso voleva farci riflettere sul fatto che la nostra vita quotidiana è fatta di abitudini, prassi, universi di significati costruiti non da noi, ma da coloro che ci hanno preceduti: il nostro quotidiano è “fatto di tradizione”.

L’acqua calda, le strade, la casa, il treno, il caffè, lo smartphone, il “senso” sono una dote con la quale nasciamo, grazie a chi ci ha preceduto: ce ne accorgiamo normalmente solo quando questi “doni” vengono meno. Oppure quando ci viene chiesto il conto: noi italiani non facciamo a tempo a nascere che abbiamo già 45.000 euro di debito pubblico pro-capite.

Anche per la tradizione (lo sentiamo dire ovunque), la modernità ha segnato uno spartiacque.

Gli storici segnalano che il rapporto tra il passato e il futuro si è trasformato: con la Rivoluzione francese si è stabilito un futuro “aperto”, un futuro “senza esempio”. Il presente diventa l’unica dimensione degna di attenzione: gli altri tempi scivolano in secondo piano, perdono progressivamente capacità di incidenza. Il taglio con il passato, aveva notato Alexis de Tocqueville, ha come effetto paradossale l’avvento delle tenebre sull’avvenire: la diffusa incapacità di “progetto a largo raggio” delle giovani generazioni, in fondo, pesca qui.

Oggi viviamo una mutazione delle dimensioni temporali classiche, tutte schiacciate al centro: “cultura dell’immediatezza”, “presente esteso”, “presente continuo”. La vita quotidiana diventa una sequenza di episodi, separati da quelli precedenti e da quelli successivi che passano senza lasciare traccia, diceva Zygmunt Bauman: il tempo non è più un fiume, ma un insieme di pozzanghere e piscine in cui la preoccupazione non è quella di costruire la propria identità, ma di evitare che “si appiccichi”.

I giovani si percepiscono come un io nato non ieri e neanche oggi: un io che nasce adesso, ripetutamente, sempre vergine. Fenomeni recenti come la cancel culture o l’identità di genere pescano in fondo in una grande e radicale ebbrezza cronologica. Nei giovani questo taglio dell’ombelico temporale è gentile concessione degli adulti (d’altra parte l’adolescenza è una invenzione sociale molto recente). Gli adulti, invece, possono praticarlo per ingiustificabile infantilismo, o, più spesso, per quella malafede tipica di chi maschera la propria totale irresponsabilità, di chi è disposto a cancellare genitori o figli per cogliere l’attimo.

Sappiamo tutti che il sentimento di autonomia di chi rinasce ogni istante è totalmente illusorio: è un utile parco giochi per i gestori.

«Lungi dal proprio ramo, povera foglia frale, dove vai tu? Dal faggio, là dov’io nacqui, mi divise il vento». Leopardi sapeva bene che questa violenta cesura ha un’unica possibile destinazione: «Vo dove ogni altra cosa», cioè nel nulla.

Hannah Arendt aveva osservato che i genitori umani (a differenza di quelli animali) non si limitano a chiamare i figli alla vita, facendoli nascere, ma allo stesso tempo li introducono in un mondo del quale devono dichiararsi responsabili anche se non l’hanno fatto loro e anche se lo desiderano diverso: la tradizione, l’educazione è un processo vitale, una passione e una lotta mosse da un amore per il senso, cioè per la vita. «Bisogna strappare ai tradizionalisti il monopolio della tradizione», diceva Pasolini: «Per amare questa tradizione occorre un grande amore per la vita».

«Senza tradizione vuol dire che tutto nasce adesso come un fungo, senza ieri, senza l’oggi e senza domani. Stamattina mi va, oggi no, vediamo… cioè funghi, piove veniamo su, c’è il sole e ci secchiamo. Funghi senza ieri, senza oggi» (Enzo Piccinini).