Padre Mauro Lepori →
Il salmo 41 è un canto di gioia e di dolore, perché è un canto di desiderio. Nel desiderio c’è sempre un misto di gioia e di dolore, di felicità e di tristezza, a volte intermittenti, a volte fusi in una strana coincidenza degli opposti, come lo testimoniano spesso i mistici cristiani. Perché il desiderio dell’anima è il confronto con la presenza e l’assenza del compimento, del fine del nostro cuore.
Quando facciamo qualsiasi esperienza di vera bellezza, sia della creazione, della natura, sia della cultura, come nell’arte, nella musica, nella poesia, ci prende sempre una nostalgia, perché quello che stiamo sperimentando con gioia, quello che ci sta dando soddisfazione, nello stesso tempo ci dice: “Addio!”. Quando ammiriamo un bel paesaggio naturale, in montagna o presso il mare, quello che stiamo osservando sta anche scomparendo. Certo, ci saranno sempre nuove albe dorate e nuovi tramonti infuocati, ma quell’alba lì, quel tramonto lì, non ci sarà più. Non sarà più lo stesso, e anche noi non ci troveremo lì, non avremo gli stessi sentimenti, magari saremo più distratti o superficiali e non vedremo con la stessa intensità quella bellezza.
Ogni esperienza bella ci dice “Addio!”, e questa è una consolazione, perché tutto ciò che passa, è come se ci desse appuntamento presso Dio, in Dio. Ci dice “A Dio!”. In Dio ritroviamo e ritroveremo tutta la bellezza che passa, che su questa terra non sperimenteremo più così come in questa precisa esperienza. Soprattutto l’esperienza, la più bella fra tutte, dell’amicizia, la bellezza dell’amicizia, dell’amore di e per un’altra persona. Anche fra marito e moglie ogni esperienza di amore dice “Addio!”, rimanda ad una pienezza in Dio della nostra vita, dei nostri rapporti, dei nostri sentimenti, che in questa vita sono sempre minacciati di scomparire, di corrompersi, di finire. E più si è coscienti di questo, e più si gode della bellezza che passa, del momento di amicizia che si vive ora, perché questa coscienza permette di vivere tutto senza voler trattenere nulla, lasciando esistere le cose, le esperienze, senza voler sempre collezionare o archiviare la bellezza artificialmente. Gesù infatti ci chiede di “accumulare tesori in cielo” (cfr. Mt 6,20), cioè di dire “Addio!” con serenità ad ogni esperienza, ad ogni istante della vita, ad ogni momento di bellezza, ad ogni esperienza di amore, di affetto, di fraternità, proprio per poter conservare tutto questo per sempre. Il possesso verginale delle cose e delle persone è possibile proprio nel vivere in tutto la dimensione dell’“Addio!”.
E Gesù sottolinea che facendo questo ritroveremo anche noi stessi il nostro cuore: “Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore.” (Mt 6,19-21)
Anche il nostro cuore ha bisogno di dire “A Dio!” a tutti e a tutto se vuole ritrovare sé stesso eternamente in Dio. Quando non diciamo “A Dio!” a ciò che è fuori di noi, è come se ciò che è fuori di noi ci trascinasse con sé nel suo venir meno, nel suo passare. Invece è il contrario che deve avvenire: che rimandando al Signore tutte le nostre esperienze, i nostri affetti, i momenti di bellezza e di verità che viviamo, tutto lo “accumuliamo” in Cielo, in Dio, per noi stessi e per gli altri, anche per la creazione che “geme e soffre” (Rm 8,22), perché la sua “ardente aspettativa (…) è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio” (Rm 8,19). È come se il nostro cuore avesse il potere di far tornare a Dio tutto il tempo, tutta la creazione, tutti gli incontri, tutte le persone, nella misura in cui vive ogni cosa nella verginità che non trattiene per sé, ma rimanda tutto alla pienezza nella comunione con Dio.
Christian de Chergé, il Priore della comunità di Trappisti martiri di Tibhirine, termina il suo testamento, che è ormai da considerare come una delle pagine cristiane più intense e significative, dicendo “À Dieu”, “A Dio”, anche all’“amico” mussulmano che potrebbe un giorno togliergli la vita, come infatti è avvenuto: “E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo GRAZIE e questo A-DIO previsto da te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due.”
Il martire cristiano desidera che anche l’ultimo incontro con il proprio “nemico” possa essere trasformato in un appuntamento eterno con il Padre dei Cieli. Gesù per primo ha detto “a Dio” a coloro che lo crocifiggevano chiedendo per loro il perdono del Padre (cfr. Lc 23,34), e al ladrone pentito ha detto un “Addio!” che era un “Arrivederci fra poco in Paradiso!” (cfr. Lc 23,43).
Tutto quello che viviamo dicendogli veramente “A Dio!”, lo viviamo con vera intensità, con vero rispetto, con vero amore, e ce ne assicuriamo un possesso eterno, ci assicuriamo che non lo perderemo mai, che eternamente potremo goderlo. Siamo chiamati, in quanto cristiani e particolarmente in quanto monaci, a donare al mondo, all’umanità intera, questa esperienza casta, povera, obbediente e lieta della vita, per permettere a Cristo di realizzare la salvezza di tutto ciò che è umano.
La percezione della coscienza del fine, dello scopo di tutto, cioè la sete di Dio, rende l’istante teso, e questo dà pienezza al tempo, al qui ed ora della vita, e quindi a tutta la vita. Padre Christian de Chergé rende eterno anche l’ultimo minuto della sua vita, e l’ultimo incontro con il fratello che lo ucciderà, che chiama “amico dell’ultimo minuto”, perché è già pronto a vivere quell’istante donandolo a Dio, offrendolo a Dio. La tensione allo scopo ultimo della vita raccoglie gli istanti dissipati dalla cronologia del tempo, e li unifica, unifica la vita, la rende integra, “monastica” nel senso letterale del termine. Per questo abbiamo bisogno di momenti e tempi di raccoglimento della dissipazione della vita, riordinando il tutto. Non si tratta di “fare ordine”, ma di riabbandonarsi ad una tensione al fine, ad una sete di compimento, alla sete del Dio vivente. Altrimenti, se facciamo solo ordine, non appena ci rimetteremo in moto, tutto si disordinerà come, e magari peggio di prima.
Questa consapevolezza struggente della fugacità del tempo e della vita, è espressa in particolare nel canto, credo portoghese, “No te vajas todavia”.
E’ un canto che, pur piacendomi immensamente, per anni non ho potuto nemmeno provare a cantare, perché proprio mi si rompeva la voce. Poi, pian piano con il passare del tempo attraverso lo stare davanti prima di tutto alla malattia di mia madre, al modo paziente e lieto con il quale lei lo ha vissuto fino all’ultimo giorno, è scattato il desiderio, il bisogno di perseguire una crescita della Fede, non come modo per edulcorare il dolore, ma per cercare il senso stesso della vita e della morte, della gioia e del dolore. Grazie per questa meditazione …..