Come nasce la comunione

F. Nembrini – Miguel Manara pp. 137-140

A questo proposito permettetemi un’osservazione. Ho già fatto qualche battuta sulla questione del rapporto, questa terza entità misteriosa: ci siamo io, la morosa e il “rapporto”. Che cosa faccia questo terzo incomodo non si capisce. Però deve essere importante, perché ci si chiede anche come sta, «come va il rapporto»… Io chiedo sempre: «Di che cosa state parlando? Fatemi capire, è interessante, chi è questo signore?» In realtà è un’illusione ottica.

A scuola facevo sempre un disegnino alla lavagna, disegnavo un ragazzo qui e una ragazza li, e c’è il problema del rapporto, di mettersi insieme. In più se i due si sposano il tempo tende a infilare altre ragioni di distanza, ragioni di divisione e scandalo, e quella distanza aumenta. Dopo due o tre anni ci si scopre sempre più distanti, bisogna recuperare; e allora via, a tappe forzate a cercare di incontrarsi, di rimettersi insieme e superare la distanza. Non funziona mai! Perché l’unità non la puoi fare.

È una situazione che riguarda uomo e donna, genitori e figli, amici, la vita della comunità, la vita della Chiesa, ortodossi e cattolici, tutti. L’unità non nasce perché con uno sforzo di volontà cerchi di avvicinarti all’altro, a tappe forzate, lasciando brandelli della tua umanità per la strada, per trovare un compromesso: è politica, ha il sapore di un tragico compromesso politico. Non funziona. L’unità è un’altra cosa.

L’unità si fa se si parte entrambi preoccupati di stabilire non l’unità ma la verità, cioè incamminandosi verso l’unica radice che è Cristo, cioè occupandosi della propria santità. Qui disegnavo sulla lavagna un altro punto, esterno alla linea che univa i due, più in basso, come il vertice di un triangolo, e dicevo: «se i due si mettono seriamente in cammino verso questo altro punto, guardate che cosa succede: la distanza si riduce da sola. Ci si ritrova insieme all’origine, alla fonte, alla sorgente». È così che si costruisce l’unità, non occupandosene. È così che si costruisce il rapporto, non parlandone. È il cammino che ciascuno fa verso la verità della vita che costruisce anche il rapporto.

Recentemente facevo questa osservazione a un amico, che mi ha replicato: “Fai presto a parlare, tu. Io questo cammino l’ho fatto, sono arrivato in fondo, ma lei era ancora in cima». Io gli ho risposto: «Non devi essere arrivato proprio in fondo, perché là in fondo c’è la croce, la morte e la Resurrezione». È il cammino della vita arrivato alla sua pienezza: là in fondo tua moglie c’è. Se non la vedi è perché non sei ancora arrivato in fondo tu. Perché se arrivi fino in fondo, se arrivi fino a Gesù, lì c’è una possibilità di perdono, di abbraccio di qualunque diversità. «Beati quelli che perdonano per lo Tuo amore», diceva S. Francesco; e non intendeva dire «beati loro… » nel senso un po’ fatalistico in cui lo intendiamo noi, «beato te che ce la fai»… No, proprio beati: quelli che perdonano per l’esperienza del perdono di Cristo sono beati, sono contenti.

Come documenta, fra l’altro, il racconto di un’amica. Lei atea, mangiacristiani, lui di CL. Si innamorano, si sposano, pur sapendo della fatica che verrà; tra i testimoni di nozze chiamano amici di CL, con i quali lei ha legato negli anni del fidanzamento. Col tempo lui cambia, perde la fede e diventa un ateo convinto; finché lui la tradisce, il matrimonio va in crisi e a lei va in pezzi la vita. Non sa più a che santo attaccarsi, e allora cerca quei testimoni, che ricorda come amici veri, compagni al Destino, gli unici che fossero stati veramente partecipi della sua felicità, del bene che aveva goduto. E nell’amicizia con loro ritrova la fede, si converte e aspetta che il marito ritorni. Alla fine lui, distrutto, ritorna; e lei lo perdona e lo accoglie. Ogni tanto si domanda: «Ma come diamine avrò fatto a sposare quest’uomo?», ma lo accoglie come il sacramento di Cristo nella sua vita.

Dovreste vedere che donna, che letizia vive. Non è che suo marito sia cambiato tanto; è tornato, ma è quello che è. Eppure questa donna vi spiegherebbe che ha ritrovato la pienezza del suo matrimonio in Cristo, nella fede, nell’amicizia con Gesù, cercata, mendicata. Ha sofferto terribilmente, fino ad avere il coraggio di chiamare quei vecchi testimoni vent’anni dopo. Ma li lei ha ritrovato il suo sacramento, la sua vocazione e suo marito. Non la soluzione dei problemi, il marito è rimasto quel che è; ma lei è santa, e dunque lieta.

Per far così bisogna che dentro l’affetto che si prova per l’uomo o per la donna nasca la grande domanda, come ha scritto ai suoi genitori un ragazzo giovanissimo. Aveva una morosa ma la vedeva poco (su questo la pensava un po’ come me…), i genitori sentivano ogni tanto parlare di questa ragazza ma non la vedevano mai, né lo vedevano uscire con lei, tanto che a un certo punto gli chiedono se questa morosa c’è o no. Loro intanto sono in grave difficoltà matrimoniale, e il figlio scrive loro più o meno così: «Vedete, bisognerà che ne parliamo bene una volta, perché vi vedo in difficoltà, vi vedo far fatica e vorrei tanto potervi aiutare, ma non so come fare. Però una cosa da dirvi forse ce l’ho: ho da raccontarvi quel che sto vivendo con la mia fidanzata. C’è, è una, non sto facendo il cretino. È che da un po’ di tempo la domanda che mi accompagna quando sto con lei e penso a lei non è più quella di una volta, “che cosa c’entra Cristo con il mio rapporto con lei?” Finalmente ho cominciato a farmi la domanda giusta, e ve la consegno: “che cosa c’entra lei con il mio rapporto con Cristo. […]

Ecco, questa è la rivoluzione della fede, il giudizio della fede, cioè il fatto che uno sente il rapporto con Cristo definitivo, definitorio della sua persona. Si sente definito come vocazione dal rapporto con Cristo, dalla chiamata di Cristo alla santità, e si chiede come tutta l’affettività che vive, tutto l’entusiasmo che vive, tutta l’attrattiva che subisce, possa servire questa vocazione. E quindi si chiede in che senso Dio può aver scelto quella donna per aiutarlo a camminare verso il Destino.

Perché se uno fa il contrario, se il centro affettivo è lei, dopo hai voglia tu di appiccicare Gesù a destra e a manca, non ci sta mai, tutt’al più ci sta appiccicato come un’etichetta. E le etichette si cambiano, si usurano e si cambiano. Ma se il centro affettivo della vita è Gesù, è la scoperta della grande chiamata, allora la domanda giusta è: perché questo interesse, perché questa preferenza? E così si verifica si lavora per capire se quella preferenza è proprio quella che Gesù ha messo sulla tua strada perché sia più facile il cammino verso di Lui. Non si confonde più la strada con la meta. Ma per questo occorre un lavoro.