Francois-Xavier Bellamy – Diseredati
Quello di Rousseau è il progetto di un’educazione senza mediazioni, di una relazione immediata tra il bambino e le cose […] non si tratta di farlo uscire dalla sua condizione iniziale, di educarlo nel senso etimologico della parola (ex-ducere: “fare uscire da”, “portare fuori”). […] Non bisogna far crescere il bambino bensì mantenerlo nell’infanzia, farlo rimanere nel suo stato naturale […] Sarà dunque necessario proteggerlo dai libri: “non abbia altro libro che il mondo, né altra fonte di istruzione che i fatti. […] Eviteremo quindi al bambino il pericolo della lettura […] L’autorità, quella parola che Rousseau vuole eliminare, non è forse, in senso letterale, l’attributo proprio dell’autore?
C’è un fraintendimento della natura stessa della cultura. Può la cultura davvero essere descritta come una conquista, classificata tra i “capitali” che “possediamo”, designata con il verbo avere? Non è piuttosto dalla parte dell’essere? Cosa saremmo noi senza la cultura che abbiamo ricevuto – senza questo insieme di segni, di rappresentazioni, di testi, di saperi che ci sono stati trasmessi e che ogni giorno continuano a crescere in noi? Definire la cultura come un bagaglio significa affermare l’esistenza autonoma del proprietario di questo bagaglio, la sua personalità indipendente e autosufficiente; per quanto utile il bagaglio rimane sempre una proprietà contingente e separabile dal viaggiatore. Ma la cultura non va descritta così: anzi, è il passaggio necessario tramite il quale la nostra personalità si realizza. Non accresce quello che abbiamo, ma quello che siamo. E, per questo, non è accessoria ma essenziale.
Il ragazzo selvaggio
Nel 1797 fu avvistato un ragazzo di circa 10 anni – allo stato selvaggio – nel dipartimento di Tarn, nel sud della Francia. […] Lo si vede ogni tanto, d’inverno, aggirarsi nelle vicinanze dei villaggi. Nel 1800 viene inseguito da cacciatori, che lo spingono verso il borgo di Saint-Germain-sur-Rance, dove viene arrestato e ricoverato in manicomio. La scoperta del “selvaggio dell’Aveyron” desta grande scalpore: dopo le speculazioni degli illuministi sul buon selvaggio, si era finalmente trovato un esempio perfetto dell’uomo allo stato di natura, preservato da tutta la cultura corruttrice? […] Qualche decina di anni dopo il dottor Bourneville descriverà l’eccitazione suscitata dall’arrivo del ragazzo: “Che illusione e che delusione!”. Si sperava di scoprire la perfezione di un’umanità rimasta pura e intatta, ma “invece di quell’essere straordinario che ci si aspettava, si vide un bambino di una sporcizia disgustosa, che si agitava instancabilmente e senza scopo, mordendo e graffiando tutti coloro che lo contrariavano, non testimoniando alcuna specie di gratitudine per coloro che lo accudivano, indifferente a tutto, e a nulla prestando attenzione. Aveva dei sensi ma non sapeva usarli; i suoi occhi non sapevano guardare; le sue orecchie non sapevano ascoltare; l’odorato era così rozzo che riceveva con altrettanta indifferenza i profumi più soavi e gli odori più ributtanti; insomma tutti i suoi sensi, o distratti, o insensibili, vagavano incessantemente da un oggetto all’altro senza sosta”. Un famoso medico, il dottor Pinel, visitando il ragazzo, diede un giudizio senza appello: “Pensò di riconoscere non un selvaggio, non il bambino della natura, ma un essere degradato, un uomo diseredato dei più nobili attributi della sua specie, un essere asociale, un vero e proprio idiota”. […] A 25 anni, allora studente di medicina, Jean Itard, al contrario di tutti gli intellettuali di Parigi, azzarda un’altra ipotesi: “Il solitario di Aveyron è rimasto così imperfetto, in uno stadio così vicino all’animalità, proprio perché’ è stato abbandonato. Non è stato educato!” Itard si ribella all’idea che si possa ormai chiudere il ragazzo in un manicomio, come se egli dovesse “espiare la disgrazia di avere deluso la pubblica curiosita’”. Nel 1801 ottiene che il giovane selvaggio, ormai chiamato Victor, gli venga affidato e comincia a provare tutte le cure e tutti i metodi possibili per consentirgli di svilupparsi. Ci lavorerà per cinque anni con una infinita pazienza e perseveranza. Lanciandosi in questa impresa Itard si pone due obiettivi: accompagnare la crescita di Victor per fargli ritrovare una vita normale tra gli altri esseri umani, e così dimostrare la sua ipotesi: “Senza civiltà, l’uomo sarebbe uno degli animali più deboli e meno intelligenti”. Senza educazione ogni bambino rimarrebbe in una condizione di immensa povertà. … Victor sembra quasi sordo, non presta la minima attenzione ai suoni più vicini e distinti: Itard cerca di renderlo sensibile ai rumori, alle parole, ai segni. Il ragazzo è totalmente apatico, anche davanti ai tentativi di fargli esprimere le proprie emozioni, i propri piaceri, le proprie pene. Al termine di questi anni, Itard fa un onesto bilancio della sua iniziativa: Victor non ritroverà mai una vita completamente normale. Rimane segnato per sempre da un’infanzia vissuta in assoluta solitudine. Eppure questo incontro l’ha trasformato: il giovane selvaggio che non sapeva neppure riconoscere se’ stesso, ha imparato a distinguere le proprie sensazioni, le emozioni e ad esprimerle agli altri uomini, tra i quali è vissuto tranquillamente fino alla morte. Anche se questo lavoro pedagogico è arrivato troppo tardi per giungere a compimento, è ormai provato che la frequentazione con l’adulto, come l’esperienza dell’educazione, hanno dato al ragazzo l’opportunità di prendere coscienza di se’ stesso, di entrare in relazione con l’altro, di provare a condividere dei sentimenti… in poche parole Victor ha potuto esprimere l’umanità dalla quale sembrava quasi escluso e che era invece latente in lui.”
Necessità della mediazione
La figura del ragazzo selvaggio testimonia in modo singolare, nel cuore stesso della natura umana, la necessità essenziale della cultura. Il giovane Victor era più autenticamente se’ stesso sottratto a ogni influenza esterna? Era più libero, più spontaneo, più naturale e più umano? Ovviamente no! L’essere umano è per natura un essere di cultura: la sua umanità si realizza nell’incontro con ciò che gli altri gli trasmettono. […] L’uomo senza cultura sembra estraneo alla propria umanità. […] Ovviamente, tutto ciò sembra paradossale. Come è possibile che un uomo che rimane allo stato di natura sia in realtà snaturato? […] Per capirlo, occorre soffermarsi su questa caratteristica così singolare della natura umana, che potremmo chiamare il mistero della mediazione: fra tutti gli esseri viventi l’uomo si distingue perchè ha bisogno dell’altro per realizzare la propria natura.In altri termini, non siamo immediatamente noi stessi, immediatamente umani. […] questo mistero legato all’esperienza umana, questa debolezza che segna le nostre vite: noi uomini abbiamo bisogno di ricevere da un altro ciò che realizza a fondo le nostre facoltà.
Solo non sono ancora niente di quello che potrei essere; senza gli altri, non diventerò mai me stesso.Come dimostra l’esempio di Victor, all’uomo abbandonato manca addirittura la coscienza di sé stesso. Questa miseria radicale è la prerogativa della nostra natura. La condizione dell’uomo gettato nel mondo è la nudità di cui siamo gli unici tra gli esseri viventi ad essere consapevoli […] non siamo nati autosufficienti. […] forse basterebbe ammetterlo e accettarlo […] l’uomo è per natura un essere bisognoso, e il primo dei suoi bisogni è la cultura (la cultura designa tutto quello che è aggiunto alla natura) l’uomo è per natura un essere di mediazione. […] La trasmissione della cultura ha infatti una portata essenziale: ciò che fa crescere e sviluppa non sono le cose acquisite, … ma il suo stesso essere. Offrendo al bambino la cultura attraverso la trasmissione, l’educatore gli apre la strada che lo porterà verso se’ stesso. […] La cultura non è un capitale di cui usufruire al bisogno. Acquista tutto il suo valore quando viene trasmessa, nutrendo così che la riceve. Avere imparato a memoria una poesia e saperla trovare su internet non è la stessa cosa: i versi memorizzati abitano la mia mente e, facendo eco alle situazioni che vivo, mi rendono più vicino alla mia stessa vita interiore. […] La cultura ci trasforma se accettiamo di non lasciarla fuori di noi. La cultura ci trasforma, dunque, non per farci diventare altri, ma per condurci a noi stessi. Non c’è niente di più bello dell’imparare a memoria: significa ricevere dentro di se’ pienamente una particella di quell’immensa eredità che non si finisce mai di scoprire. La stessa espressione francese per “imparare a memoria”, “apprendre par coeur”, dice chiaramente l’unità dell’intelligenza e della sensibilità, accresciute entrambe da quello che ci è trasmesso. Imparare a memoria significa lasciare che un testo, una musica, un sapere vengano dentro di noi, ci trasformino, ci elevino e amplino la nostra mente e il nostro cuore fino alla loro altezza. Il nostro stesso essere ha bisogno di questa maturazione. A ben guardare, predicare la necessità di questa mediazione ci rimanda al tempo stesso alla nostra esperienza più ordinaria e al mistero più grande. Ciò significa, infatti, che […] essere sé stessi non è immediato. Coincidere davvero con la propria personalità, essere semplici, spontanei, naturali è estremamente difficile e richiede una mediazione. Questo mistero è illustrato in modo brillante da famoso motto di Pindaro: “Diventa ciò che sei”.Provare a diventare se’ stesso, che strano scopo…. Nelle parole del poeta possiamo vedere ciò che costituisce l’avventura di ogni esistenza. […] Solo la cultura offre questa possibilità: la strada tra me e me stesso passa inevitabilmente dalla mediazione di un altro, dalla mediazione di quella eredità che ci viene trasmessa da un’umanità che […] anch’essa tenta di essere sempre un po’ più umana.”
Il libro
In realtà niente è più fecondo, per far crescere una libertà nuova, del confronto con il libro. L’omonimia della parola liber, che in latino significa sia “libero” che “libro”, non è per niente irrilevante. In quell’oggetto così semplice, troviamo infatti concentrata l’essenza stessa della mediazione. Il libro è un cammino che ci costringe a uscire da noi stessi, come dimostra lo sforzo richiesto da parte nostra. Ma se veniamo condotti fuori di noi stessi è per meglio ritrovarci. Essere se’ stessi non è immediato, e lo sforzo da fare verso di sé per formare il proprio pensiero e raggiungere la propria singolarità è appunto il lavoro della cultura. […] Con la sua opera, l’autore non mi offre solo un divertimento, ma fa crescere in me la libertà, fa crescere me stesso. Qui si trova il principio stesso della sua autorità: l’auctor è quello che auget, “accresce”. […] La lettura è il viaggio più decisivo, la strada più adatta a chi vuole muoversi verso la propria libertà, e l’occasione di vivere l’unica vera avventura dell’esistenza: quella che consiste nel diventare sé stessi.