Aiutiamoli a vivere!

Mons. Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla.

Lettera di monsignor Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, ai sacerdoti della sua diocesi.

Cari fratelli,

assistiamo tutti, durante questi giorni, ad una crescita di allarme e di incertezza, favorita anche dai mass-media e dalle insicurezze della politica. Il nostro popolo, già provato dalla pandemia nei mesi del lockdown, può correre il rischio di entrare in una visione paranoica della realtà, distaccata cioè dalle vere dimensioni del pericolo.

Tutti quanti noi, assieme agli altri responsabili della vita sociale e civile, abbiamo un compito importante: aiutare la nostra gente a vivere con prudenza, ma anche con serenità, fiducia in Dio e capacità di relazioni e aiuto reciproco. Non dobbiamo assolutamente favorire il diffondersi di timori esagerati che possono portare a una corrosione profonda della salute mentale ed emotiva.

Mai come in questo momento è chiaro che le ragioni della fede sono le ragioni della vita: Dio non ci abbandona, ci prende per mano, e lo fa anche chiedendoci di soccorrere a suo nome chi è bisognoso. Non possiamo permetterci che, di giorno in giorno, l’unico criterio sia chiudersi in casa. 

Senza demordere da tutte le attenzioni dovute, come la mascherina, l’igiene delle mani e il distanziamento, dobbiamo continuare a vivere.

Le nostre chiese, proprio in ragione di tutto il lavoro che abbiamo svolto, sono luoghi sicuri sia per la preghiera liturgica, sia per eventuali incontri.

Sosteniamo dunque la fede, la speranza e la carità del nostro popolo.

Con la mia benedizione,
† Massimo Camisasca

Reggio Emilia, 19 ottobre 2020


Pietro Piccini intervista Mons Camisasca – Tempi

Nella sua semplicità, la lettera [leggi sopra] inviata lunedì da monsignor Massimo Camisasca ai sacerdoti della sua diocesi, Reggio Emilia-Guastalla, non poteva passare inosservata. E infatti ha fatto notizia. Nei giorni del coronavirus, mentre tutto è emergenza e allarme e risuonano parole marziali come “coprifuoco”, appare sorprendente perfino il fatto che un uomo di Chiesa si preoccupi della vita del popolo e non solo della sua salute.

Il testo trasmette perfettamente la preoccupazione di un pastore che vede il suo gregge «correre il rischio di entrare in una visione paranoica della realtà» e finire per convincersi che «l’unico criterio sia chiudersi in casa». Invece, ha scritto Camisasca ai suoi preti, «senza demordere da tutte le attenzioni dovute, dobbiamo continuare a vivere». È questo – aiutare a vivere pur in mezzo alle difficoltà – il compito della Chiesa e il guadagno del cristianesimo: «Mai come in questo momento è chiaro che le ragioni della fede sono le ragioni della vita», scrive il vescovo. Vale la pena di leggere la lettera integralmente. E di chiedere al suo autore un approfondimento.

Monsignor Camisasca, perché ha avvertito la necessità di scrivere questa lettera?

Questa lettera nasce dalla percezione che ho ricevuto negli incontri continui con le persone: la percezione di un diffuso stato di ansia e di agitazione superiori a quanto sarebbe ragionevole. Si sta creando nel popolo un clima di vera e propria paura, che invece di aiutare l’affronto delle difficoltà, finisce per paralizzare. 

Si riferisce quindi agli incontri con i fedeli.

Certamente. E ho scritto ai sacerdoti perché sono i primi tramiti per i fedeli di questa educazione dello spirito a una ragionevole prudenza.

Nel testo c’è un accenno alle «insicurezze della politica» oltre che a quelle delle persone comuni. Si riferisce al governo?

Io ho la percezione che i giornali e i politici – i politici in generale e specialmente coloro che governano – oltre ad avere il merito di affrontare questa situazione, stiano contribuendo a generare tra le persone un clima di paura. Si ascoltano gli interventi dei politici come un tempo i bollettini di guerra. Questo mi sembra avere nella gente un effetto depressivo. Dopo il lockdown ho visto persone molto segnate dal disagio psicologico, più ancora che dalla malattia e dalla povertà. Così in qualche caso si sono ingigantiti anche problemi relazionali, magari già presenti, perché non sono stati affrontati con la dovuta pacatezza e razionalità. Ma nella lettera c’è un ulteriore messaggio rivolto a tutti i credenti.

Quale messaggio?

Un invito a che la nostra fede non sia astratta. Se la nostra fede è vera, essa è sempre una luce e una forza dentro le difficoltà del momento. Non dobbiamo mai dimenticare che Dio non lascia la nostra mano. Dio permette le difficoltà perché noi abbiamo a riscoprire la concretezza della Sua presenza e la necessità della nostra conversione.

Non ha paura delle critiche? Di passare per “negazionista”?

Ma io non sono negazionista! Nella lettera ho scritto chiaramente che non dobbiamo demordere da attenzioni come la mascherina, l’igiene delle mani e il distanziamento.

Sì ma basta poco ormai per essere accusati di negazionismo.

Ecco, io voglio assolutamente uscire dalla logica delle contrapposizioni, per cui se uno dice che una cosa è nera allora è accusato di negare che esista il bianco. No: dobbiamo aiutare le persone a essere comprensive verso tutti i fattori che sono in gioco nella realtà.

A fine febbraio, in un’altra intervista, ha detto a Tempi che le persone avevano più paura dell’indeterminatezza e della propria impotenza che del coronavirus. Anche adesso è così?

Sì, ancora adesso è così.

Diceva inoltre: ne usciremo, anche se ci vorrà del tempo.

Certo, ne usciremo in misura della nostra fede. Cioè nella misura in cui non ci ripiegheremo su noi stessi, nella misura in cui non penseremo che sia soltanto la fiducia nelle nostre forze a risolvere le situazioni, nella misura in cui manterremo rapporti di comunione vera con Dio e con le altre persone.

Quindi quando dice “ne usciremo”, non parla sul piano sanitario.

Noi non sappiamo se questo virus sarà debellato o se resterà tra noi. Il dato di realtà è che, escluso il vaiolo, tutti i virus sono rimasti in qualche forma. Però sappiamo che ne usciremo: dal punto di vista medico troveremo anche vaccini e strumenti per tutelarci, però ne usciremo soprattutto se non ci lasceremo schiacciare nello sguardo sulla vita.

Sempre nell’intervista di febbraio invitava a guardare alla pandemia come a un’occasione per «riscoprire il peso della preghiera e della parola di Dio nelle nostre vite», poiché in questa emergenza «il Signore ci sta richiamando a una vita meno superficiale, ci invita a trovare ciò che è eterno dentro ciò che passa, a una considerazione più pacata dell’esistenza». Pensa che l’invito sia stato colto?

È stato colto da qualcuno. Perché sia colto più in profondità occorre un lavoro molto lungo, che coincide sostanzialmente con la ripresa della vita delle nostre comunità. Oggi le nostre comunità sono minate dall’individualismo, ma la persona deve trovare un contesto comunitario per poter risorgere. Altrimenti, se crede di poter confidare soltanto sulle proprie energie psichiche, morali o spirituali, non ci riuscirà.

E finirà per «chiudersi in casa», come ha scritto nella lettera.

Esatto. Dobbiamo invece riscoprire l’oggettività del sacramento della Chiesa.

Sfida ambiziosa.

Sì.

Nella lettera accenna poi alla sicurezza delle chiese della diocesi. Perché?

Dico una battuta: se non vuoi prendere il Covid, vieni in chiesa. È una battuta, appunto, ma davvero abbiamo costituito una tale rete di sicurezze che realmente non c’è luogo più protetto dal virus delle nostre chiese.

Eppure la frequentazione si è ridotta. Lo si è visto anche dopo la riapertura delle chiese.

Vero, la frequentazione si è molto ridotta, e secondo me per due ragioni: la prima è che per alcuni la Messa era solo un rito e in quanto tale, nel momento in cui è stato contestato da una difficoltà, è decaduto; la seconda è proprio la paura del virus, che invece non esiste nelle nostre chiese, non c’è ragione di temere.

Sottolinea tutto questo anche perché teme che nelle prossime settimane il governo possa vietare di nuovo le Messe coram populo?

Non so dire che cosa accadrà. Finora però niente induce a prevedere questo scenario.