Davide Prosperi – clonline.org
«La gloria di Dio è l’uomo vivente» (sant’Ireneo). Ma quale uomo? Anche quello miserabile, perduto, indegno? Ho riletto Il potere e la gloria, forse il romanzo più grande di Graham Greene, indicato tra i libri dell’estate, e sono rimasto davvero colpito da come l’autore ci accompagna dentro questo scandalo: la salvezza cristiana accade nel cuore dell’umana contraddizione. Non in un’idea, non in una coerenza etica, non in una perfezione dei costumi, come sarebbe da aspettarsi da un protagonista indicato come figura da imitare: ma in un uomo debole, incoerente, peccatore, che proprio per questo diventa strumento della misericordia di Dio.
Il potere e la gloria, scritto da Greene nel 1940 in seguito ad un viaggio in Messico nel 1938, inizialmente suscitò sconcerto e scandalo in certi ambiti della Chiesa cattolica; fu negli anni cinquanta che l’allora pro-segretario di Stato Giovanni Battista Montini, divenuto poi papa Paolo VI, con una lettera indirizzata al Sant’Uffizio – l’attuale Congregazione per la dottrina della fede – riabilitò il romanzo. Divenuto papa, volle incontrare lo stesso Greene nel 1965, quasi a testimoniare la ventata di aria nuova che il Concilio Vaticano secondo in chiusura stava portando nella vita della Chiesa.
Il protagonista del romanzo è un prete in fuga, nel Messico degli anni Trenta, durante la feroce persecuzione anticattolica. Questo prete non ha un nome: viene indicato solo come «il prete» (the priest) o, in alcuni momenti, in modo dispregiativo come «il prete spugna» (the whisky priest), a causa del suo alcolismo. Questa scelta di Greene è molto significativa: il fatto che non abbia nome sottolinea la sua universalità. Non è un “personaggio” ideale, ma un uomo come tanti, un prete pieno di limiti – chiunque può avvertire un sentimento di fiducia e trovare forse pace alle proprie miserie osservando da vicino questa figura profondamente umiliata nella sua meschinità e fragilità morale – in cui tuttavia si manifesta misteriosamente ma potentemente la Grazia.
È l’ultimo sacerdote rimasto in uno Stato in cui celebrare messa è diventato un crimine. Ma questo prete non è un eroe: è un uomo spaventato, alcolizzato, ha avuto una figlia. È uno che non riesce neanche più a credere davvero nel valore del proprio ministero. Eppure, è lui che Dio sceglie per continuare a raggiungere le anime. Questo prete non è degno, ma è mendicante, e proprio per questo diventa, senza saperlo, sacramento vivente.
Nel momento culminante del romanzo, quando tutto sembrerebbe ormai crollato, e il prete ha quasi raggiunto il confine e quindi la salvezza, decide di tornare indietro per confessare un uomo morente – oltretutto si tratta di un delinquente assassino – pur sapendo che potrebbe essere una trappola. Non lo fa per eroismo, ma per fedeltà a qualcosa di più grande di lui, che lo trascina. È l’esperienza del «mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre» (Ger 20,7).
Greene ci dice qualcosa di tremendo e sconcertante, eppure lo si riconosce immediatamente come vero: Dio non ha bisogno per forza dei puri per salvare. Ha bisogno dei disponibili. Anche se fragili. Anche se miserabili. Perfino se incapaci di eroica virtù. Ma il lettore non deve farsi ingannare: nel profondo realismo di questo romanzo appare evidente che non si dà alcuna giustificazione dei propri limiti, ancor meno del male e del peccato. Al contrario, il «prete spugna» attraversa le sue vicende umane nel tormentato dolore del proprio male e della propria meschinità. Un tormento che è vinto solo alla fine dal riconoscimento umile dell’abbraccio definitivo della misericordia di Dio («Rex tremendae majestatis, Qui salvandos salvas gratis»). La gloria, dunque, non è l’esito dell’impegno morale, e nemmeno coincide con il potere del mondo, ma, paradossalmente, è l’umiltà inconcepibile di Dio che scende nel fango per non lasciarci soli. In fondo, il titolo stesso del romanzo, Il potere e la gloria, riecheggia proprio questo paradosso: il potere di Dio si manifesta nella debolezza dell’uomo, e la sua gloria passa attraverso le crepe della miseria umana. Come direbbe don Giussani: non è la coerenza etica a far scattare la presenza di Dio nella vita dell’uomo, ma la sua apertura – spesso dolorosa – al bisogno di salvezza.
Cristo «arriva proprio qui, al mio atteggiamento di uomo, di uno cioè che aspetta qualcosa perché si sente tutto mancante; si è messo insieme a me, si è proposto al mio bisogno originale» (L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006, p. 84). E questo romanzo ci mostra che Dio non delude quell’attesa, anche quando si presenta in forma di fallimento.
Il potere e la gloria è, in questo senso, uno dei romanzi più cattolici del Novecento, proprio perché rifiuta ogni idealizzazione. Ci dice che Cristo non è venuto per premiare i buoni, ma per salvare i perduti. È una storia che ci educa a non temere la nostra miseria, perché proprio lì la grazia può operare, a patto di domandarla come chi sa di non potersela produrre da se stesso. Come ebbe a dire Giussani, «il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo».
È un romanzo da leggere in silenzio, lasciandosi contagiare dal realismo dei colori, delle temperature afose, dello scoppiettio degli scarafaggi e del sudore dei derelitti rinchiusi in una squallida cella sovraffollata, perfino degli odori di un Paese devastato dalla disumanità di un’ideologia che pretende di essere umana senza l’uomo reale; un romanzo da offrire come compagno di cammino a chi si sente “sbagliato”. Perché la gloria di Dio è davvero l’uomo vivente, anche – e forse soprattutto – quando la sua vita è un grido di bisogno.
Mi si conceda ancora qualche parola sulla figura del suo aguzzino. Il tenente è una figura tragica: muove da un bisogno reale di giustizia, di verità, di ordine, e tuttavia, in nome di questo, ha perseguitato fino alla morte l’ultimo prete in circolazione, senza riuscire a soffocare, dentro di sé, la nostalgia di qualcosa di più umano, di più profondamente vero. Ricorda un po’ Javert de I miserabili di Victor Hugo.
Quando, verso la fine del romanzo, decide di andare a cercare un altro prete (che ha abiurato e si è sposato per non essere giustiziato) per il condannato a morte, non si tratta semplicemente di un gesto di pietà. È il segno che lui stesso è stato toccato, rivela una fessura profonda nella corazza ideologica che lo teneva rigido e senza volto. Non basta la legge, non bastano i propri principi. Serve un uomo, un testimone credibile, una presenza che incarni quel perdono che lui, paradossalmente, non riesce a concepire. Acciuffando la sua preda dopo tanti sforzi e al costo del sacrificio di vite innocenti, in realtà si accorge di aver incontrato un uomo che non si è difeso, che ha testimoniato – pur nella sua miseria – una Presenza più grande, un significato capace di abbracciare il dolore, la colpa, perfino la morte. Il tenente voleva giustizia, ma nel volto del prete ha intravisto un’altra giustizia: quella che salva, non quella che punisce. E in quel momento, come in ogni vero incontro cristiano, non ha potuto fare altro che intravedere che la misericordia è più grande della legge.
Ma ancora più struggente è ciò che accade nel cuore dello stesso «prete spugna». Mentre va incontro alla morte, il suo pensiero corre a sua figlia, la creatura nata da una relazione “peccaminosa”, ma che per lui è il volto concreto dell’amore. E sente di amarla più degli altri, e questo lo ferisce, lo fa sentire indegno, ingiusto. Ma è proprio in quell’amore, così umano e parziale, che nasce in lui un desiderio più grande, un amore più largo, per tutti, fino alla donazione totale di sé.
Greene non ha paura di mostrare che la carnalità, anche quella che nasce dal peccato, non è estranea al cammino verso la verità, se viene attraversata dalla grazia. Non è dal moralismo che nasce la santità del prete, ma dal suo aderire fino in fondo alla missione che gli è stata affidata, da cui, misteriosamente, scaturisce una possibilità di bene per tutti. È dalla carne – da quell’amore per la figlia che non riesce a negare – che si genera una compassione universale.
Così il peccato, riconosciuto e offerto, diventa la ferita che lascia passare una luce nuova. E questo è ciò che più colpisce di questo romanzo: la verità non appare come un’idea, ma come una carne trafitta che ama. E quando la si incontra, anche il persecutore più feroce si commuove, anche il peccatore più incoerente si fa santo.
In fondo, Il potere e la gloria è un lungo cammino dentro il cuore dell’uomo, in cui la grazia lavora silenziosamente finché un gesto, un volto, un amore, rompe le difese e rende possibile la redenzione. È un romanzo cristiano non perché parla della Chiesa, ma perché mostra, con realismo e tenerezza, che Cristo vince dentro la carne ferita dell’uomo, là dove tutto sembrava perduto.
Il finale del romanzo è solo apparentemente tragico. Nella desolazione disperata in cui Cristo sembra essere sconfitto definitivamente, la scena conclusiva annuncia un messaggio di speranza e paradossale trionfo: anche quando il Nemico sembra aver vinto e l’odio del mondo aver estirpato Cristo dalla terra dei viventi, la Chiesa, inarrestabile come una pioggia dissetante irriga il terreno seccato dall’arsura estiva, arriva indistruttibile, incancellabile, raggiunge nuovamente gli abbandonati della disperazione per riportare la luce del Risorto. Perché nessun uomo, in nessuna parte del mondo, sarà mai dimenticato dall’amore del Padre.