Il ciclo del lavoro nelle formelle del Campanile di Giotto a Firenze

Mariella Carlotti

Se un extraterrestre sbarcasse sulla Terra – dico spesso ai miei alunni quando comincio una lezione di storia – sarebbe molto stupito se noi gli dicessimo che i continenti sulla terra sono cinque. Perché lui quando è arrivato con la sua astronave ne ha contati quattro: ha visto l’Asia, ha visto l’America, ha visto l’Oceania, ha visto l’Africa. Ci domanderebbe sicuramente qual è il quinto continente.

Perché il quinto continente non si vede geograficamente. E noi dovremmo rispondergli che noi consideriamo un continente una penisola dell’Asia che noi chiamiamo Europa. E dovremmo anche dirgli che questa penisola dell’Asia per noi non solo è il quinto continente della terra, ma in qualche modo è il continente che al nostro pianeta ha dato il contributo più grande. Certamente l’extraterrestre ci domanderebbe come mai noi consideriamo una penisola un continente e noi dovremmo dirgli che se non è per ragioni geografiche è per ragioni storiche, perché in questa penisola è nata una certa idea di uomo, una certa idea di amore, di rapporto con l’altro, una certa idea di lavoro e una certa idea di politica che in qualche modo hanno influenzato tutta la vita della terra. Questa sera parliamo dell’idea di lavoro che è alla base della nostra civiltà. E lo facciamo aiutandoci col più grande ciclo di storia del lavoro della storia dell’arte che Giotto disegnò negli anni 30 del Trecento alla base del campanile di Firenze. Poi Giotto morì e questo ciclo di storie fu scolpito da Andrea Pisano e dalla sua bottega.

Perché a Firenze troviamo un ciclo così importante sul lavoro? Perché Firenze è una città che ha una storia strana. Ha come un segreto che è difficilmente spiegabile. Perché se voi prendete una cartina dell’Italia e io vi domandassi perché Venezia e Genova sono due città importanti, nella geografia c’è scritto che Venezia e Genova sono al centro dei due grandi golfi dell’Italia, in una posizione assolutamente eccezionale. Perché Milano è una città importante? Anche questo c’è scritto nella geografia: Milano è al centro dell’unica grande pianura fertile dell’Europa meridionale. Ma perché Firenze, che non è sul mare, che non è su un fiume navigabile, che non ha materie prime significative, che non è al centro di una pianura fertile, è diventata una città importante, questo nella geografia non c’è scritto. Firenze è diventata una città importante grazie al lavoro, al lavoro che i suoi abitanti si sono letteralmente a un certo punto della storia, inventati.

Per 1000 anni Firenze, che è stata fondata nel I secolo a.C., è stata poco più di un villaggio. D’improvviso, dopo il 1000, questa città esplode ed esplode proprio grazie al lavoro. Inizialmente grazie all’arte della lana. I fiorentini andarono in giro in tutto il mondo allora esistente a comprar lana, la portavano a Firenze, la lavoravano e poi la esportavano.

Con questo gioco divennero ricchi e a un certo punto si resero conto che mancava a questo loro commercio un elemento molto facilitante i commerci, cioè una moneta che avesse corso ovunque. La coniarono a Firenze alla metà del Duecento. Fu il fiorino, tant’è che – voi non ve lo ricordate perché siete troppo giovani – fino a pochi anni fa, relativamente pochi anni fa, ancora molti paesi d’Europa avevano una moneta che si chiamava Fiorino, perché il fiorino, la moneta di Firenze, divenne il dollaro del Medioevo.

E così dietro al fiorino nacquero le banche e questo gioco di banche e di manifatture e di commerci fece la grandezza di Firenze. Tanto che quando Bonifacio VIII all’inizio del Trecento dice con una battuta “Finora il mondo è stato fatto di quattro elementi terra, aria, acqua, fuoco. Adesso è fatto di cinque elementi terra, aria, acqua, fuoco e fiorentini”, è perché erano ovunque, in ogni angolo del mondo allora conosciuto.

Faceva una battuta, ma una battuta che leggeva in profondità quello che stava accadendo. Così è alla fine del duecento che il cuore di Firenze assume l’aspetto che adesso conosciamo. Il Battistero c’era già, viene cominciata la costruzione della grande cattedrale a cui Giotto, nel 1334, diventato capomastro dell’opera del Duomo, darà il campanile e alla base del campanile Giotto disegnerà questo ciclo di formelle sul lavoro che poi verranno realizzate negli anni immediatamente successivi alla sua morte.

I cicli del lavoro sono tipici di tutta la civiltà medievale. Li troviamo a Ferrara e a Modena, li troviamo a Chartres o a Perugia, sulla Fontana Maggiore, perché nel Medioevo erano consapevoli di una cosa che noi abbiamo dimenticato: che l’idea di lavoro che ha fatto grande l’Europa è un’idea che noi dobbiamo alla tradizione giudaico-cristiana. Il mondo antico, che era un mondo eccezionale per tanti versi, era un mondo che aveva un’idea di lavoro per cui il lavoro manuale era l’attività degli schiavi.

L’uomo libero era chi non lavorava manualmente. Pensate al grande Seneca (siamo alle soglie dell’era cristiana) che scrive “L’ozio è l’amico dell’anima”. Pensate a San Benedetto da Norcia che qualche secolo dopo, nella sua Regola scrive “L’ozio è il nemico dell’anima”. Perciò il monaco prosegue la preghiera lavorando: “ora et labora”, prega e lavora. Sentendo che solo questi due verbi, il pregare, il lavorare, salvano la statura intera dell’uomo.

Gli uomini del Medioevo, consapevoli di questo, come un grido di vittoria stampavano questi cicli sul lavoro sugli edifici delle loro città.

A Firenze questo ciclo sul lavoro decora la base del campanile e decora la base del campanile per una ragione. I cicli medievali sul lavoro precedenti (quelli che ho citato sono tutti precedenti a quello di Firenze), normalmente in questi cicli il tema del lavoro è legato al tema dei mesi: giugno la mietitura, a settembre la vendemmia, a dicembre l’uccisione del maiale; perché erano civiltà contadine.

Firenze ha un ciclo del lavoro assolutamente nuovo e che nasceva da una città la cui ricchezza non era più fondata sul lavoro, ma su attività imprenditoriali, finanziarie, cittadine. Ma anche nel ciclo fiorentino sul lavoro non si perde il nesso tra lavoro e tempo, che è adombrato dal nesso lavoro- mesi. Infatti questo ciclo sul lavoro è alla base del campanile.

Il campanile in una città medievale era l’orologio della città, era la torre che dava il tempo alla città. Allora mettere alla base del campanile un ciclo sul lavoro era come dire a chi arrivava in questa piazza: “Cari signori, il tempo umano nasce dal lavoro. Come si chiama il tempo umano che nasce dal lavoro? Si chiama storia. Se non c’è il lavoro, se non ci fosse il lavoro, ci sarebbe il tempo, ma non sarebbe storia”. Perché è la creatività dell’uomo che trasforma il tempo in storia. Questo ciclo abbraccia tutti e quattro i lati del campanile e fa fare a chi visita il centro di Firenze, fa fare girando intorno al campanile come un giro virtuale intorno alla storia. Perciò noi adesso gireremo intorno al campanile, ma in realtà gireremo intorno alla storia umana per capire come l’uomo nella storia ha scoperto il lavoro.

Le formelle, come vedete, che decorano tutti e quattro i lati del campanile, sono esagoni nel primo ordine, rombi nel secondo ordine. Anche la scelta delle forme non è casuale. Per un uomo del Medioevo l’esagono, cioè il numero sei, immediatamente richiama ai sei giorni della creazione. Il grande lavoro di Dio, il lavoro che permette il nostro lavoro. Se Dio in questo istante non ci creasse, noi non potremmo lavorare.

Il nostro lavoro è un lavoro sul lavoro di Dio. Per questo Dante nella Commedia dice “L’arte, il lavoro che a Dio è nepote”. Il lavoro è il nipote di Dio. La figlia di Dio è la realtà, il lavoro è il nipote. Perciò l’esagono immediatamente richiamava ai sei giorni della creazione, l’unico vero grande lavoro che c’è nel mondo. E al fatto che al sesto giorno Dio ha creato l’uomo.

Dio poteva fare un universo tutto incosciente, invece nell’universo ha voluto porre un uomo, l’uomo, perché collaborasse alla sua creazione. Noi siamo i collaboratori della creazione perché siamo il punto in cui il cosmo prende coscienza di sé.

I rombi invece, che troviamo nel livello superiore, la figura del rombo, cioè la figura del quadrato, è la figura che immediatamente richiamava a un uomo del Medioevo l’uomo.

La figura che richiamava la vita terrena dell’uomo è il quadrato, come il cerchio richiamava a Dio. Dio è una linea continua, l’uomo è una linea spezzata e non solo dalla morte.

Perciò adesso noi facciamo questo giro virtuale intorno al campanile, ma in realtà, girando intorno al campanile, comincia il nostro viaggio intorno alla storia dell’uomo. Il primo lato è quello che guarda verso il Battistero e perciò il lato che è complanare alla facciata della cattedrale.

In questo lato vedete da dove comincia Giotto. È chiaro che dietro a Giotto c’è un grande teologo, un grande filosofo, che ha pensato queste formelle che hanno un contenuto anche teoretico profondissimo. Si fanno molti nomi, io penso che dietro questo ciclo ci sia un grande teologo domenicano, Remigio De Girolami, che era stato allievo di San Tommaso d’Aquino a Parigi e a Napoli e che fu uno dei maestri di Dante, il maestro che è il nesso tra Dante e il tomismo, tra Dante e la filosofia di San Tommaso.

E bene, guardiamo da dove comincia Giotto nel raccontarci l’avventura umana del lavoro. Comincia dalla creazione, da Adamo e dalla creazione di Eva. Tutto comincia dal lavoro di Dio. Nella terza formella noi dovremmo trovare, come di solito avviene nei cicli medievali sul lavoro, il peccato originale che a Firenze non c’è. Io dico sempre che non c’è perché noi fiorentini il peccato originale non lo abbiamo, ma in realtà non è perché non abbiamo il peccato originale, ma perché il campanile è parte del complesso di Santa Maria del Fiore, per cui non potevano mettere il peccato originale sul corpo di Maria, perché lei veramente non ce l’ha.

Però nella terza formella, il lavoro dei progenitori, vedremo la conseguenza del peccato originale. Negli altri quattro esagoni ci sono i quattro lavori primordiali dell’uomo secondo il libro biblico della Genesi, capitoli 2-4: la pastorizia, la musica, la metallurgia, la viticoltura. Nei rombi trovano invece posto le allegorie dei pianeti dei corpi celesti allora conosciuti. Sono i sette cieli della Divina Commedia di Dante, del Paradiso e posti esattamente come li pone Dante: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno. Come vedete qui non ho letto nel senso della scrittura da sinistra a destra, ma – unico caso in tutto il ciclo del campanile – ho letto da destra a sinistra. Questo è legato alla conformazione di Firenze: dalla parte della luna c’è piazza della Signoria, c’è il centro politico della città. Allora la Luna, il pianeta più imperfetto, guarda verso il centro politico della città, mentre Saturno, che è il pianeta che nell’universo tolemaico è il più prossimo all’Empireo, qui confina con la cattedrale.

Si dice anche in italiano come formula idiomatica per dire “sono quasi in Paradiso” (sono molto felice), “sono al settimo cielo”. No, sono su Saturno, sono quasi in Paradiso.

Allora vediamo le formelle di questo lato. Si comincia con la creazione di Adamo. Guardate Dio che si curva sulla terra e ne plasma l’uomo, che fa – dice la Bibbia – a sua immagine e somiglianza.

E così comincia l’avventura umana del lavoro dal gesto libero di Dio che lo crea e lo chiama a collaborare alla creazione, lo fa così simile a sé che lo fa mistero d’amore uomo-donna: la creazione di Eva.

Mi ha sempre impressionato leggere il salmo 8.º della Bibbia, quello che dice “Se guardo il tuo cielo, opera delle tue mani, la luna e le stelle che tu hai create, che cos’è l’uomo perché te ne ricordi il Figlio dell’uomo?”.

Perché te ne curi? L’uomo è niente, è polvere. E ognuno di noi sa come l’uomo è niente. Ognuno di noi potrebbe morire tra un secondo. Eppure, dice il salmo, l’hai fatto poco meno di te. L’uomo è piccolo come il niente, è grande come Dio.

Nel Medioevo queste due dimensioni – della piccolezza dell’uomo prossimo al nulla, della grandezza dell’uomo prossimo a Dio – si sono sposate senza elidersi.

Nelle epoche successive l’uomo prima ha detto “Sono Dio”, dimenticando che è niente. Oggi dice “sono niente”, dimenticando che è anche Dio. E ognuno di noi sa in ogni giornata che basta un niente per sentirsi niente, e basta un niente per sentirsi Dio, che in noi c’è questa continua oscillazione tra il nulla e questa strana signoria che noi abbiamo sul mondo.

Nella terza formella si vede, come vi dicevo, la conseguenza del peccato originale. Infatti vedete che c’è Adamo curvo al suolo che sta faticando per strappare dalla terra l’alimento, il cibo. Accanto c’è Eva che tiene il fuso per filare.

Mangiare e coprirsi sono i due bisogni primordiali dell’uomo, da cui l’agricoltura e la filatura. Perché in questa formella si vede la conseguenza del peccato originale? Come forse vi ricorderete dal catechismo, quando Dio caccia l’uomo dal Paradiso dopo il peccato, dice “Tu uomo, lavorerai col sudore della fronte, tu donna, partorirai nelle lacrime”. La conseguenza del peccato originale non è lavorare e partorire, che sono i due verbi con cui l’uomo imita Dio (perché Dio, nella tradizione giudaico-cristiana è creatore e Padre) perciò l’uomo lo imita lavorando e generando, ma nell’uomo lavorare e generare avvengono dolorosamente. Questa è la conseguenza del peccato originale: la fatica che uno fa a lavorare. Pensate alla fatica che voi fate a studiare. La fatica che un uomo o una donna fanno per generare un figlio e per farlo diventare grande.

Così che l’uomo è tentato di sentire contro di sé ciò che lo realizza. Quando vedo i miei alunni che odiano studiare, io vedo la conseguenza del peccato originale. L’uomo che odia ciò che lo realizza.

Questa conseguenza del peccato originale si vede bene in Adamo che soffre per lavorare.

Ma guardate le altre formelle. Qui cominciano gli altri quattro lavori primordiali, oltre ai due che abbiamo già visto che la Bibbia descrive. Il primo è la pastorizia. C’è un pastore che sul far della sera è sotto la sua tenda, vicino alle pecore e al cane. La Bibbia, al capitolo due, chiama questo nostro progenitore Abele, padre di coloro, dice la Bibbia, che sono nelle tende vicino al bestiame.

Quest’uomo sta facendo il lavoro più umile che esiste. Non so se riuscite a concepire un lavoro più umile del fare il pastore. Ma quest’uomo, come vedete, ha la solennità di un re, la dignità di un re. Perché l’uomo che accetta questa fatica e lavora ridiventa come il Dio che lo ha creato. Tanto che se potessimo vedere molto da vicino questa formella e quella della creazione, ci accorgeremmo che questo pastore ha la faccia del Dio che lo ha creato.

L’uomo nel lavoro ritrova il suo volto originale.

La musica con Yuval, “il padre di coloro che suonano la cetra e i flauti”, dice la Genesi. Forse per degli adulti che la musica sia un lavoro primordiale, sia un’esigenza primordiale non è così chiaro. Forse degli adulti non ce l’avrebbero messa. Ma voi ragazzi lo capite benissimo che la musica è un’esigenza primordiale, che la bellezza è un’esigenza primordiale, perché l’uomo è quell’animale che non ha solo bisogno di mangiare, coprirsi, riprodursi, dormire.

Ha bisogno di tutte queste cose e ha bisogno del bello come del pane. Perciò il pastore, la prima cosa che fa quando è accanto al gregge, prende un pezzo di legno e fa un flauto e suona.

La metallurgia con Tubal Cain, “padre di coloro che lavorano il rame e gli altri metalli”, dice la Genesi. Nel mondo antico, con la lavorazione dei metalli comincia l’età più triste della storia dell’uomo. Finisce l’età dell’oro e comincia l’età della violenza della guerra. Non c’è traccia di questa negatività in questa formella che invece esalta un altro passo del grande cammino dell’uomo.

Ultimo esagono di questo lato, la viticoltura con Noè ubriaco sotto la vite, accanto alla botte, perché ha inventato il vino. La formella non sottolinea tanto il peccato d’ebbrezza di Noè, quanto l’invenzione positiva di Noè, tant’è che 2/3 della formella sono occupati dalla vite e dalla botte. Anche perché questa formella, che è l’ultima di questo lato – quella perciò più prossima al Centro politico economico di Firenze – celebra nel vino una delle grandi attività produttive che erano e sono ancora parte della ricchezza della Toscana e di Firenze, ma anche perché il vino sarà l’elemento con cui il Dio cristiano sceglierà, insieme al pane, di rimanere nella storia.

Infatti la liturgia della Chiesa nomina la parola lavoro quando all’offertorio il prete dice “Ti offriamo il pane e il vino, frutto della terra e del lavoro dell’uomo”. Il Dio cristiano non si identifica col grano e con l’uva, ma col pane e col vino, che sono frutti della terra, ma anche del lavoro dell’uomo. Senza lavoro, dell’uomo non c’è neanche il sacramento.

Dei rombi ve ne faccio vedere due. Questa è l’allegoria della luna, che è rappresentata come una fanciulla che siede sulle acque e tiene in mano una fontana per l’influsso della luna sulle maree, sulle acque.

E questo è Saturno rappresentato come un vecchio che tiene nella mano destra la ruota del tempo e nella sinistra suo figlio Crono, il tempo. E così finisce questo primo lato.

In questo primo lato si parla dell’uomo prima di Cristo, dell’uomo così come esce dalle mani di Dio, dell’uomo che è dominato dai pianeti, cioè dalle forze naturali della necessità, noi diremmo dall’istinto e che sente il lavoro come risposta a propri bisogni primordiali. Ma adesso noi svoltiamo e andiamo a vedere che cosa Giotto ha disegnato nel secondo lato e nel secondo lato.

Voi dovete immaginare che lo spigolo tra il primo e il secondo lato sia l’anno 0 della storia umana, sia il momento in cui Dio entra nella storia e diventa un uomo. Un uomo che per trent’anni lavora col suo padre putativo nella bottega di Nazareth facendo il carpentiere. Era il figlio del carpentiere.

E guardate che razza di novità Cristo porta nella concezione del lavoro. Guardate questo schema dove prima nei rombi, avevamo trovato le allegorie dei pianeti, adesso noi troviamo le virtù teologali (fede, carità, speranza, cioè le virtù della conoscenza di Dio) e le virtù cardinali (cioè cardine della vita morale: prudenza, giustizia, temperanza e fortezza).

L’uomo non è più dominato dai pianeti, l’uomo è dominato dal fatto che conosce Cristo e sente moralmente la vita. Sotto i lavori infatti cambiano totalmente di segno rispetto all’anno precedente.

Ve lo dico subito: il lavoro, così come il cristianesimo lo porta nella storia, non è più la risposta dell’uomo, la risposta faticosa e dolorosa dell’uomo a propri bisogni primordiali, ma è il modo con cui l’uomo realizza se stesso, con cui l’uomo avvera se stesso.

Alcuni anni fa, facendo una mostra su queste formelle, venne a visitarla un notissimo imprenditore (ricchissimo) e vedendo queste formelle, quando arrivammo qui, lui mi domandò “Guardi, mi spieghi bene con un esempio che cosa significa questa novità che il cristianesimo porta nel lavoro”. Allora io gli dissi “Guardi, quest’anno io avevo una classe di 31 ragazzi, 16 extracomunitari, 15 italiani comunitari. Erano marocchini, algerini e latinoamericani, pachistani, cinesi, rumeni, albanesi. Gli italiani metà toscani metà immigranti del sud, di famiglie migranti del sud, perciò praticamente io insegnavo all’ONU perché avevo di fronte tutto lo spettro dell’umanità.

Alla fine dell’anno io domando ai miei alunni: “ragazzi, adesso siete grandi” – facevano l’ultimo anno – “andrete a lavorare. Che cos’è il lavoro?”. E io dico a questo imprenditore: “vede? 31 ragazzi che vengono dai quattro angoli della terra mi hanno dato la stessa identica risposta”.

Il pakistano e il napoletano, il cinese e il pratese. La stessa risposta. Allora lui incuriosito, dice “quale?”. E io dico gliela dico come l’ha detta il napoletano, ma tutti hanno applaudito. “Il lavoro è quella cosa che purtroppo bisogna fare per portare a casa la pagnotta”.

Allora io ho detto ai miei alunni: Se io vi domandarsi che cos’è lo studio, mi direste “Lo studio è quella cosa che purtroppo bisogna fare per prendere un diploma che purtroppo bisogna prendere per trovare un lavoro che purtroppo bisogna fare per portare a casa la pagnotta”. Tre “purtroppo”, ma soprattutto in questa formula non ci sei tu. Infatti in questa formula il lavoro è quella cosa che purtroppo bisogna fare per portare a casa la pagnotta, è la formula del lavoro schiavo.

Questa è la definizione del lavoro che dà uno schiavo.

E io dico a questo imprenditore “Vede, se lei avesse la stessa idea di lavoro dei miei alunni potrebbe non lavorare” – questo qui era ricchissimo, la pagnotta ce l’aveva per 50 vite –

“Ma se lei cedesse a questa tentazione e smettesse di lavorare, lei arriverebbe alla fine della vita anzi, alla fine di ogni giornata, con tre piccoli problemi: lei non saprebbe nulla di sé, non scoprirebbe nulla di sé (perché l’uomo scopre sé nel rapporto con la realtà), non saprebbe nulla della realtà e soprattutto non eviterebbe tutte le sere l’angoscia di una vita inutile. Perché l’uomo è felice quando è utile.

E allora l’uomo lavora per realizzare sé, di cui mangiare è un aspetto. Ma se così non fosse, non vi spiegherebbe come mai  – guardate nello schema – sotto la fede, cioè sotto la virtù della conoscenza di Cristo, c’è l’astronomia. Se il problema fosse mangiare, l’astronomia non avrebbe alcun senso. Ma l’uomo non lavora solo per mangiare, lavora per compiersi. Qual è il primo aspetto del compiersi? È il desiderio di conoscere tutto, tutto il grande disegno dentro cui ognuno porta la sua pietra.

Sotto la carità la muratura, sotto la speranza la medicina. Ci sono degli accoppiamenti molto interessanti. Guardate la legislazione, l’arte di fare le leggi. Noi l’avremmo messa sotto la giustizia, invece è sotto la temperanza, perché nel Medioevo sapevano una cosa, che le leggi degli uomini non sono giuste, non lo saranno mai, ma non devono neanche esserlo. Le leggi che gli uomini si danno sono un compromesso di interessi valido in un certo momento storico, perciò governate dalla virtù della temperanza, non dalla giustizia che invece è sopra la tessitura.

Perché sopra la tessitura? Certamente c’è anche un omaggio a Firenze che doveva la tessitura la sua grandezza. Ma c’è una ragione più profonda, e Remigio de Girolami nel suo trattato sul lavoro dice una cosa che dicevano i Padri della Chiesa: Gesù è Dio fatto uomo, nella sua vita terrena era il figlio del carpentiere, ha fatto il carpentiere, ma dopo che è risorto ha cambiato mestiere. Adesso non fa più il carpentiere, adesso fa il tessitore, tesse nella storia la sua tunica che è la Chiesa, perché gli uomini, toccando la sua veste, possano conoscere la sua persona.

Perciò sotto la giustizia c’è il lavoro giusto per eccellenza, cioè la tessitura.

Guardiamo le formelle di questo lato. Vi faccio vedere tre rombi.

Questa è la fede, rappresentata come una ragazza che tiene nelle mani una croce e un calice, perché la fede è credere in Cristo morto e risorto, presente nell’Eucarestia.

La carità è una donna che ha in mano un cuore nella mano destra e nella sinistra. Tiene una cornucopia piena di fiori e di frutta, perché la carità è la fecondità della fede.

La speranza è rappresentata come un angelo che a mani giunte tende a una corona, come tensione al compimento.

Gli esagoni cominciano con l’astronomia. Guardate questo astronomo è bellissimo, sta nel suo studio e con l’astrolabio sta osservando le stelle. Si vedono anche le costellazioni.

Ma il suo studio qual è? Vedete che la sua stanza ha una forma circolare perché il suo studio l’universo e quest’uomo nel desiderio che ha di conoscere è grande come l’universo. E mentre guarda le stelle oltre il cerchio, vede affacciarsi i volti degli angeli e di Dio Padre, perché l’uomo guardando le stelle intuisce il mistero, capisce Dio.

Se la prima caratteristica di questo compimento di sé, che è il lavoro, è il conoscere il disegno totale, la seconda caratteristica si vede molto bene in questa formella – la muratura – che è sotto la carità, perché la carità detta all’uomo questo impeto di costruzione. Vedete che qui nella formella si vede un capomastro che sta edificando un grande edificio, aiutato da due uomini più piccini. Che cosa ci dice questa formella? Che l’uomo per lavorare per prima cosa -l’abbiamo visto nella formella precedente – ha bisogno di questa apertura alla conoscenza della totalità. Ma non basta. L’uomo per lavorare ha bisogno di un maestro, di una autorità, come dicevano nel Medioevo, cioè di qualcuno che lo faccia crescere.

Chi è l’autorità? Chi è il maestro? Non chi dice di esserlo. L’Autorità è un uomo più grande che ognuno di noi può riconoscere, tanto che qui le dimensioni fisiche dei personaggi traducono quelle morali. Il capomastro è più grande degli uomini piccoli e gli uomini piccoli diventeranno grandi se seguiranno l’uomo più grande.

Nella terza formella, la medicina, c’è un medico che, seduto a scranno, sta guardando controluce un vaso d’urina che i suoi pazienti gli portano in contenitori di corda.

Lui mette l’orina nel vetro, la guarda controluce, vede se ci sono impurità, la presenza del sangue e fa la diagnosi della malattia. Questo medico è seduto, in maniera speculare rispetto all’astronomo, quasi nella stessa posizione rovesciata. Perché? Che cosa ci dice questo? Uno guarda le stelle, uno maneggia le stelle, l’altro maneggia l’orina. Sono entrambi grandi, sono entrambi dignitosi perché il valore del lavoro non è in quello che fai.

Questa è una cosa che oggi abbiamo perso totalmente. Il valore del lavoro è nel lavoro che fai? No, il valore del lavoro è in te che lo fai, così che maneggiare l’orina o maneggiare le stelle ha la stessa dignità.

L’arte di dominare le bestie, asservendo al proprio scopo.

La tessitura che, come vi dicevo, era l’arte che aveva fatto grande Firenze, è qui rappresentata in maniera molto dettagliata. E’ ricostruito questo telaio. E’ qui rappresentata con una bottega tessile della Firenze del Trecento e fa molta impressione vedere che l’azienda che rappresenta la prima ricchezza della città, è un’azienda mandata avanti da donne. Ci sono solo donne in questa formella.

L’arte di fare le leggi con Foroneo, il mitico fondatore del diritto, che consegna le leggi agli uomini.

E l’ultima formella di questo lato è Dedalo, padre della meccanica. Dedalo non è Icaro, è il padre che, essendo più umile, riesce a volare.

L’uomo che guarda il cielo – l’astronomo – apre questo lato, l’uomo che lo conquista lo chiude. Questo è l’uomo europeo che conosce per possedere.

E così giriamo nel terzo lato e facciamo un altro salto nella storia. Un salto di 1000 anni perché ci son voluti 1000 anni perché quell’amicizia di quei dodici intorno a Gesù, quello sguardo di Giovanni, Andrea, Gesù, diventasse una comprensione del reale, una cultura nuova – che ebbe, nell’Università, nella creazione dell’università (la prima università nacque a Bologna nell’undicesimo secolo), che ebbe nell’università la sua istituzione più grande – 1000 anni perché quello sguardo di Giovanni e Andrea a Gesù (che aveva già dentro tutta la storia, tutto il mondo, tutta la cultura) diventasse una creazione come l’università.

Perché l’idea di università è l’idea che il mondo è un universo, non è appena un cosmo, non è appena un ordine, è voltato ad uno, è rivolto ad un’unità. E l’università è l’idea che tutto il sapere non è fatto – questa è la cosa per cui odiate la scuola – non è fatto di tante materie spezzettate, ma il sapere assomiglia di più a un diamante con tante facce (la chimica, la fisica, la letteratura, la storia, la filosofia) e da ogni faccia si vede tutto il diamante. Questa è l’idea di università. L’Università, in cui il Medioevo celebrava quell’unità tra la fede e la ragione, che permette alla ragione di essere se stessa. Infatti nei rombi dove prima abbiamo trovato i pianeti, poi le virtù teologali e cardinali, adesso troviamo le arti del trivio e del quadrivio.

Erano le materie su cui si fondavano le università del Medioevo. Sotto, negli esagoni troviamo i lavori più complessi i lavori dell’ultimo incivilimento umano, i lavori che arrivano alla perfezione, alla trasparenza del gesto artistico. Infatti, come vedete, gli ultimi sono scultura, pittura e architettura. Voglio farvi notare, prima di farvi vedere le formelle, voglio farvi notare nello schema una cosa: guardate che i primi due rombi sono astronomia e musica. Noi l’avevamo già trovati, però erano esagoni, adesso son rombi. Che cosa vuol dire questo? Se ve lo spiego ci metto 20 minuti, se dico un verso di Dante ci metto 20 secondi: “perché l’uomo da sensato apprende ciò che fa poscia di intelletto degno”. L’uomo impara tutto negli esagoni, cioè nell’esperienza. Ma quello che l’uomo impara nell’esperienza, cioè nell’esagono, diventa rombo, cioè diventa cultura. Quando diventa cultura permette un altro rombo e così l’umanità va avanti.

Infatti se conosco le stelle – l’astronomia – posso navigare in mare aperto e sotto l’astronomia c’è la navigazione e se conosco il secondo rombo, la musica, se conosco che la natura dell’essere è armonia, voglio farla nei rapporti umani: si chiama politica. Si dovrebbe chiamare politica perché la politica è la musica tra gli uomini, la musica che avviene come giustizia.

Vediamo le formelle di questo lato dei rombi.

Ve ne faccio vedere uno che mi auto dedico perché in questo rombo che è la grammatica, c’è una donna che sta insegnando, una donna, anche prosperosa, che sta insegnando a dei bambini. E in questa formella è ben detto che cos’è l’educazione, perché questa donna sta sorridendo, con la mano sinistra sta facendo un gesto benevolo, nella destra ha la frusta.

Per educare bisogna un po’ sorridere, un po’ frustare. La dolcezza e il rigore sono le due dimensioni dell’educazione. E la prima, il primo esagono, è la navigazione.

Questa formella forse è la più celebre delle formelle scolpite da Andrea Pisano. Guardate questi uomini su questa barca con i corpi e gli sguardi protesi verso la meta. Sembra di sentire il XXVI canto dell’Inferno, Ulisse che va verso le colonne d’Ercole.

“Considerate la vostra semenza, fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Ma io devo a questa formella così bella la scoperta di questo ciclo, e questo voglio raccontarvelo: insegnavo diversi anni fa in un Istituto tecnico agrario toscano. Avevo una classe terza, bellissima, di ragazzi intelligenti e studiosi. L’incrocio non è facilissimo che avvenga perché spesso gli intelligenti sono vagabondi e magari gli studiosi son meno intelligenti.

Invece quella classe lì era una classe particolarmente viva. Io dovevo quell’anno insegnare loro la letteratura e la storia medievale e insegnare il Medioevo a dei ragazzi che oggi hanno 16 anni è come parlare del freddo a uno che ha sempre vissuto all’equatore. Gli manca l’esperienza per capire qual è la cultura medievale, non hanno nella loro esperienza i tratti fondamentali che permettono di capire la cultura medievale, tanto che avevo un mio alunno che mi diceva sempre “Professoressa, ma io non capisco perché Dante va in Paradiso seguendo Virgilio, cioè il poeta che ama di più e Beatrice la donna di cui è innamorata. Perché io se seguo la Silvia e seguo Michael Jackson” – erano il suo poeta e la sua donna – “vado dovunque meno che in Paradiso”. E questo era un problema serio. E io avevo tentato tante volte di rispondere a questa sua obiezione senza riuscirci. Finché un giorno mi venne un’idea. Forse con l’arte è più facile che capiscano. Allora andai a scuola con un caricatore di diapositive di arte medievale. Casualmente, la prima diapositiva era questa. Proiettai questa diapositiva e dissi alla classe “Ragazzi, questa è una scultura medievale. Secondo voi che cosa rappresenta?” Tutta la classe in coro disse “è Gesù in barca con due discepoli” e io dissi “bravissimi”. Normalmente è interpretata così però Andrea Pisano, lo scultore che l’ha fatta, l’ha intitolata “L’arte del navigare”, cioè un lavoro.

Allora il solito ragazzo dice “professoressa, allora perché ci ha detto bravissimi, noi abbiamo detto una scemenza, abbiamo detto che era Gesù in barca con due discepoli, una cosa religiosa”. E io dico “guarda! E’ tutte e due! è Gesù in barca con due discepoli e il lavoro”. Allora lui s’arrabbia, s’arrabbia, dice “E no, prof, o è Gesù, in barca con due discepoli, o è il lavoro”.

E fa così con le dita (ndr: mostra l’indice e il pollice staccati). Io quando ho visto queste due dita alzate ho avuto un brivido e ho detto “Senti, sai che cos’è questo? No, allora io dico questo è il mondo moderno. È un mondo in cui il lavoro e l’ideale sono due cose che cominciano quando finisce uno comincia quando finisce l’altro. Così che tu ti senti te stesso quando finisci di studiare. Ma quando studi, senti compresso l’ideale che hai di te. Perché siamo così, siamo divisi. Un conto è quello che sogniamo, un conto è la realtà. Un conto è il lavoro, un conto è l’ideale. Voi riuscite a immaginare una civiltà per cui questa formella era contemporaneamente a tutte e due le cose? era Gesù in barca con due discepoli ed era il lavoro? Era un mondo che faceva così, era un mondo unito. Erano uomini che quando andavano a lavorare, andavano in barca con il loro ideale, e non avevano altro modo di andare in barca col proprio ideale, se non uscire la mattina e lavorare. Questo è l’uomo cristiano. Questo è il mondo medievale”.

Io non so se lui quel giorno capì per anni, ma ha salutato così (ndr: mostra l’indice e il pollice staccati) e io così (ndr: mostra l’indice e il pollice uniti).

Però quel giorno per me cominciò l’avventura di capire queste formelle, come questa che segue la politica, cioè la giustizia sociale, con Ercole che uccide il mostro, libera la terra dai mostri e restituisce agli uomini l’armonia in cui possono vivere.

L’agricoltura. Guardate quanto tempo è passato tra quell’Adamo curvo al suolo e che soffre a questo agricoltore che guardate con quanto vigore sta affondando l’aratro nella terra e sembra comunicare questo vigore persino ai buoi, mentre insegna il mestiere al figlio che lo guarda.

L’arte degli spettacoli. C’è un attore che va di città in città col suo carro a far ridere la gente.

E questo è un lavoro grandissimo, perché dice Remigio de Girolami che Dio ride quando l’uomo ride e gli uomini che fanno ridere gli uomini aiutano moltissimo la pace tra gli uomini.

La scultura. Guardate se questo scultore che si curva sul marmo e ne tira fuori l’opera d’arte non assomiglia a Dio che si curva sulla terra, ne tira fuori l’uomo.

La pittura con questo pittore il cui sgabello si inclina come se lui cercasse di imprimere sulla tavola l’idea che ha avuto.

E, ultimo lavoro, vertice di tutti i lavori umani, l’architettura. C’è questo uomo che sta disegnando qualcosa al suo tavolo da lavoro. Alzasse gli occhi dal suo tavolo, vedrebbe che cosa sta disegnando: la cattedrale di Santa Maria del Fiore.

Al gesto di Dio che crea l’universo come casa dell’uomo, corrisponde, come vertice del lavoro dell’uomo, l’uomo che costruisce la cattedrale, l’uomo che nella storia costruisce la casa di Dio. E qui siamo arrivati alla fine del terzo lato.

Io mi ricordo che quando per la prima volta ho visto con intelligenza queste formelle.

Quando sono arrivata qui ho pensato “E nel 4.º lato che ci hanno messo? Che cosa c’è oltre l’arte come trasparenza nella realtà dell’ideale?”

Il 4.º lato io non so se voi l’avete presente, ma è un lato oscuro, è l’unico lato che non è affacciato sulla piazza, ma che è affacciato nel passaggio stretto che c’è, a Firenze, tra il campanile e la cattedrale. È un lato nascosto, è un lato che vede solo chi lo vuole vedere. Devi decidere di vederlo per vederlo.

In questo lato – qui capirete se avete capito o se non avete capito nulla – Giotto disegnò non più rombi ed esagoni, ma solo rombi, ma nei rombi non c’erano più allegorie, come finora abbiamo trovato nei rombi allegorie e negli esagoni scene reali di lavoro. Nei rombi del 4.º lato ci sono scene di lavoro reale. Allora che cosa ci sta dicendo Giotto col linguaggio dell’arte? Ci sta dicendo “cari amici, nella storia c’è un lato nascosto, un lato che la maggior parte degli uomini non vede. Eppure in questo lato ci sono i lavori perfetti, quei lavori in cui l’esagono, il contenuto dell’esagono, è dentro il rombo. Cioè la realtà è ideale, l’esperienza è pura conoscenza, realtà e ideale sono tutt’uno”.

E quali sono questi sette lavori perfetti che la maggior parte degli uomini non vede e che decorano il 4.º lato? Sono i sacramenti, sono i sette lavori che Cristo risorto fa nella storia e sono proprio raccontati nel momento in cui accadono, perché c’è un lavoro più grande che prendere un uomo che muore e renderlo eterno? Si chiama battesimo.

E quando sbaglia, perdonarlo si chiama penitenza. Guardate, vedete questa formella bellissima: la dolcezza del prete che perdona il penitente, e sotto si vede nel triangolino basso la medusa. La Medusa nel mondo antico era il male che quando ti guardava ti paralizza. Adesso il male non paralizza più perché è perdonato.

E c’è una cosa più grande che prendere l’amore di un uomo e una donna, la cosa più bella del mondo, ma la cosa più fragile del mondo, e renderlo famiglia, matrimonio, inizio di un popolo, di un’architettura sociale?

Vedete, in questa formella non c’è un uomo e una donna, c’è un uomo e una donna da cui nasce un popolo. Perché questo è il matrimonio.

E prendere un uomo e renderlo mediatore del rapporto con Dio si chiama Ordine. C’è il vescovo che sta leggendo la preghiera di consacrazione del sacerdote In questa formella che ha una forma strana, dopo vedremo perché.

Apparentemente non c’è il prete, anche se l’elemento del sacramento c’è: il vescovo che legge la formula di consacrazione del prete.

E prendere tutti gli uomini e renderli protagonisti della storia, rendendoli testimoni di Cristo. Si chiama cresima.

E prendere un po’ di pane, un po’ di vino e nasconderci dentro l’eterno si chiama Eucarestia.

E tutti i lavori umani si arrestano su un grande scoglio che si chiama morte, ma non il lavoro di Cristo che con l’estrema unzione accompagna l’uomo fino in paradiso.

E questi sono i sette lavori di questo lato oscuro. Pochi uomini s’accorgono di questi sette lavori, ma tutti, anche chi non vuole, s’accorge dell’opera che da questi sette lavori nasce, che è la cattedrale che è di fronte, che si vede da tutta la piana, perché da questi lavori nasce la Chiesa e l’uomo che vuole lavorare deve guardare quest’opera per capire il senso anche della sua opera.

Ultima cosa e finisco. Queste formelle furono fatte negli anni 30-40 del Trecento, come vi dicevo in principio, e dopo 100 anni successe un’alterazione interessante di questo ciclo che voglio dire per concludere. Che cosa successe dopo il 1440, esattamente nel 1441? Come vedete dalla slide sul terzo lato fu aperta quella porticina che vedete che ancora oggi è l’accesso al campanile.

Fu aperta quella porticina perché inizialmente si andava sul campanile passando da una scaletta di legno dentro la cattedrale. Salendo su questa scaletta di legno da una finestra che era collegata con un ponte, con un passaggio aereo alla finestra che era sotto l’Ordine. Avete visto che l’Ordine aveva questa forma strana? Perché sotto c’era una finestra dove passava il prete per andare nel campanile, allora c’era il prete di carne e sopra c’era il vescovo scolpito.

Ovviamente era un passaggio scomodo per andare nel campanile. Allora, nel 1441 decisero l’apertura di questa porta, che ancora oggi è l’accesso al campanile. Quando aprirono questa porta tolsero i due esagoni che c’erano, che erano pittura e scultura. Dove si mettono? Dove non si mettono? A qualcuno venne una brillante idea: chiaro si mettono sul 4.º lato.

Lì ci sono solo rombi, no? Meglio che buttarle via. Le misero qui, sotto i sacramenti. Poi, siccome così era un po’ brutto (sette rombi, due esagoni) chiamarono un grandissimo artista dell’epoca, Luca della Robbia, e gli dissero “Sai che si fa? Ne facciamo altre cinque e finiamo la fila” e commissionano a Luca Della Robbia altre cinque formelle.

Luca Della Robbia fece cinque formelle bellissime, esteticamente bellissime, come per esempio questa, che hanno un unico piccolo difetto: a Firenze si dice “non c’azzeccano nulla, non c’entrano nulla”.

Lo sapete perché questa alterazione è molto interessante perché vuol dire che, non noi dopo sette secoli, ma a Firenze dopo 100 anni, non capivano più il senso di quella unità che aveva generato questo ciclo, che aveva generato la Divina Commedia. Era iniziata proprio nel chiaroscuro di questi 100 anni quella cultura moderna di cui noi siamo figli, che potremmo segnalare come una cultura, per dirla col mio alunno, come una cultura che invece di questa profonda unità conosce questo dualismo di cui noi siamo figli.

E occorre una grande amicizia e un’educazione per accorgersi di questa divisione che ci portiamo dietro e per desiderare questa unità che è l’unica strada che io conosco della felicità.