Il sacrificio di comunione

Padre Mauro Lepori – “Trasmettere Cristo” p. 86-89

Sant’Agostino, nel suo immenso trattato La città di Dio, dice una cosa a cui forse san Benedetto avrà ripensato mentre redigeva la sua Regola: «Questo è il sacrificio dei cristiani: pur essendo molti, essere un solo corpo in Cristo» (De Civitate Dei, 10,6; cfr. 1 Cor 10,17).

L’unità dei discepoli nell’unico Corpo mistico è la grazia donataci nella morte e risurrezione del Signore Gesù Cristo, attraverso i sacramenti, soprattutto il Battesimo e l’Eucaristia. È una grazia, ma domanda un’apertura e una conversione da parte nostra, e quindi un sacrificio, come scrive sant’Agostino. La Regola ci guida nel corrispondere sempre più al sacrificio di Cristo in Croce con la nostra conversione all’unità del suo Corpo. Allora è importante essere coscienti di come san Benedetto ci educa a vivere questo “sacrificio di comunione”, o “sacrificio di pace”, per riprendere una bella espressione dell’Antico Testamento (cfr. Levitico 3), che per noi è un lasciare che la nostra vita sia sempre più consumata dal fuoco della carità, che è un fuoco che, come nel roveto ardente di Mosè, non distrugge ciò che fa ardere, ma lo rende sempre più sacro. L’etimologia di “sacrificare” è sacrum facere: rendere sacro, cioè divino. L’uomo che si sacrifica con Cristo nella carità, invece di perdere la sua vita, la ritrova eterna, assimilata alla vita di Dio.

Allora chiediamoci: come ci converte all’unità di comunione la via che propone san Benedetto, evidentemente attualizzando per noi il metodo della Chiesa tutta? Non credo che esaurirò il tema, ma tocchiamo almeno alcuni aspetti.

Qual è il primo sacrificio a cui ci educa san Benedetto in favore dell’unità del corpo di Cristo che è la comunità? Penso sia il sacrificio della volontà propria, del concepire la nostra libertà come un cane selvaggio che è felice solo perché è autonomo, fa quello che vuole, obbedisce ai suoi istinti e non pensa mai agli altri.

Basta citare la descrizione acida che la Regola fa dei monaci sarabaiti: “Senza pastore, non chiusi negli ovili del Signore ma nei propri, non conoscono altre legge che la voluttà dei loro desideri: tutto quello che pensano e decidono loro lo dichiarano santo, e quello che non va loro a genio lo giudicano illecito” (RB 1,8-9).

Ognuno di noi ha in sé tracce più o meno marcate di questa tendenza, perché si può dire che ci è trasmessa direttamente con il peccato originale. Essa è in noi una ribellione strutturale a essere determinati da altro e da altri che da noi stessi, come se l’essere fatti da un altro, essere creati, voluti e amati da Dio, e quindi l’essere dipendenti da Lui, non fosse in noi più originale che il peccato di Adamo ed Eva.

É evidente che questa tendenza è quella che più ci rende difficile la vita di comunione con gli altri, l’unità fraterna in comunità.

Allora san Benedetto capisce, con tutta la tradizione monastica, che il lavoro fondamentale di conversione è quello sulla nostra libertà, sulla nostra volontà, perché accetti di appartenere, di dipendere, di seguire. È l’ascesi dell’obbedienza che san Benedetto chiede fin dall’inizio del Prologo, e poi per tutta la Regola, in mille sfaccettature (cfr. RB Prol. 2). Ma, appunto fin dall’inizio della Regola, san Benedetto mostra il volto positivo dell’obbedienza, il vero volto dell’obbedienza, che è un 2 mettersi all’ascolto di un Maestro che ci dice la verità e di un Padre buono (pius pater) che ci vuole comunicare il suo amore (cfr. Prol. 1-2).

Poi, lungo tutta la Regola, questo ascolto dovrà declinarsi nell’ascoltare l’Abate, nell’ascoltarsi fra fratelli, ecc., ma ultimamente è sempre la Parola di Dio, il Verbo del Padre, Gesù Cristo, che siamo educati ad ascoltare.

E nulla conduce all’unità fraterna più di questo ascolto, perché è un ascolto che ci educa a riconoscere in tutto e in tutti la voce dello Sposo che ci chiama ad essere uniti a Lui e in Lui. Cristo è la voce del Padre che chiama tutti ad essere figli suoi, e quindi fratelli e sorelle in Cristo.

Noto spesso che le comunità in cui non si educa all’obbedienza dell’ascolto, e quindi anche al silenzio, fanno fatica ad essere veramente fraterne, ad essere veramente unite. Perché là dove non si ascolta il Verbo di Dio, domina il rumore del pettegolezzo, delle chiacchiere, della critica, delle menzogne, della mormorazione, tanto odiata da san Benedetto; e allora, addio unità!

Nell’Imitazione di Cristo c’è una frase che esprime perfettamente la potenza unificante del Verbo di Dio, da cui tutto viene e da cui tutto riceve consistenza: “Ex uno Verbo omnia et unum loquuntur omnia, et hoc est Principium quod et loquitur nobis – Da una sola Parola provengono tutte le cose, e tutte le cose proclamano quella sola Parola, che è il Principio che ha parlato anche a noi” (De Imitatione Christi, Lib. I,3,2)

L’unità che crea l’obbedienza non è tanto quella che se tutti fanno il loro dovere, tutta la comunità funziona bene, perché questa sarebbe ancora un’unità fatta da noi, che dipende da noi, e che quindi rimane fragile: basta che uno solo smetta di obbedire e di voler o poter fare il suo dovere, che tutto il “meccanismo” della vita comunitaria smette di funzionare e diventa caotico. Questa sarebbe l’unità di uno stato totalitario, o di una comunità settaria, non un’unità di comunione, un’unità ecclesiale.

L’unità creata da una libera obbedienza che ascolta il Verbo di Dio è invece una comunione che si edifica costantemente, che continuamente cresce e si riforma, perché si alimenta al Verbo eterno di Dio che non parla solo all’inizio, ma eternamente, e parlando crea quello che ascoltiamo da Lui insieme e con il cuore. È un’obbedienza con le orecchie del cuore aperte, che rimane all’ascolto, e quindi nell’esercizio della libertà che ad ogni passo è chiamata da Cristo a dire di sì, a decidere di seguirlo.

San Benedetto ci educa ad ascoltare sempre Cristo, Parola del Padre, nel suo chiamarci polifonico. Perché la Regola ci dice che Gesù ci interpella nell’abate, nella Sacra Scrittura, nei fratelli o sorelle, nella Liturgia, nelle circostanze, ma anche nel povero che bussa alla porta, così come nel malato, e anche nel fratello che ha sbagliato. Per questo il silenzio monastico è una dimensione costante della vita della comunità, da esercitare anche quando dobbiamo parlare, perché Cristo ci parla continuamente, in tutti e attraverso tutto. Ascoltare questa polifonia fa entrare e vivere nella sinfonia di comunione del Corpo di Cristo.

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