Vi spiego che cos’è la libertà

Leone Grotti intevista Philippe Pozzo di Borgo – Tempi

Il 2 giugno 2023 Philippe Pozzo di Borgo – tetraplegico francese raccontato dal film “Quasi amici” – è morto a Marrakech, a 72 anni. Un anno fa Tempi lo aveva intervistato, dedicando alla sua storia la copertina del numero di aprile 2022.

Se nel 1993, quando rimase paralizzato dal collo in giù all’età di 42 anni in seguito a un incidente in parapendio, Pozzo di Borgo avesse avuto la possibilità di accedere all’eutanasia, «mi sarei ucciso», dichiara a Tempi. Invece l’erede della nobiltà corsa, che ha sofferto la morte della prima moglie, Beatrice, nel 1996, non ha ceduto alla disperazione e grazie ai suoi cari e al suo assistente ha «ritrovato il gusto di vivere». Oggi Pozzo di Borgo si è risposato, ha avuto due figli, vive tra la Francia e il Marocco, nella regione di Essaouira, e si batte insieme all’associazione di cui è padrino, “Soulager mais pas tuer”, contro «l’assurda violenza dell’eutanasia», contro un «diritto che mi toglie ogni dignità e, presto o tardi, mi indica la porta». La soluzione alla sofferenza, spiega nell’intervista che ci ha rilasciato, «non è uccidere la persona che soffre, ma accompagnarla alleviando il suo dolore».

Signor Pozzo di Borgo, lei è nato in una delle famiglie più titolate di Francia.

La mia era una famiglia privilegiata da entrambi i rami. Il lato materno era composto da aristocratici vecchio stile; quello paterno, da aristocratici nuovi arricchiti. Per questo motivo, i miei nonni si detestavano cordialmente. Il primo diceva al secondo: «Il tuo titolo (duca) è così recente che l’hai avuto pagando!». L’altro rispondeva: «Il tuo (conte) è talmente vecchio che non si sa più da dove viene». La mia era una famiglia fortunata. Lo dico davvero, ho avuto un’infanzia privilegiata, ho ricevuto molto amore, soprattutto dal mio nonno materno, che era scampato miracolosamente a una condanna a morte dei tedeschi, prima di diventare proprietario dell’azienda di champagne Moët-Hennessy. Lo amavo molto e ho dato il suo nome a mio figlio.

Philippe Pozzo di Borgo con Abdel Sellou
Philippe Pozzo di Borgo con il suo ex assistente di cura Abdel Sellou. La loro vicenda è raccontata nel celebre film Quasi amici (foto Ansa)

Che lavoro faceva prima dell’incidente?

Ero direttore delegato del gruppo di produzione di champagne Pommery et Lanson, che era stato acquistato dalla società Lvmh. Ero il rappresentante di Lvmh in questa acquisizione. Prima, come direttore del marketing, avevo già l’abitudine di lavorare molto: mi alzavo alle 6 del mattino e andavo a correre un’ora. In effetti correvo senza fermarmi mai, passavo la mia vita sugli aerei. Con il nuovo lavoro, all’attivismo dei miei incarichi precedenti si è aggiunto anche lo stress.

Che tipo di stress?

Bisognava licenziare molte persone per ragioni di redditività. Questo è ciò che gli azionisti si aspettavano. Dover infliggere una tale sofferenza sociale a delle persone che lavoravano per l’azienda da tanto tempo è stato molto duro anche per me. Non era mia abitudine. Dovevo anche agire contro i princìpi di mio nonno, che non aveva mai licenziato nessuno. Non ero mai stato messo davanti fino a quel momento a una simile brutalità imprenditoriale, dovuta al capitalismo finanziario.

Come ha cambiato la sua vita l’incidente di parapendio del 1993?

Per la prima volta nella mia vita ho smesso di correre. Prima, ero sempre “proiettato”. Invece, allora mi sono ritrovato su un letto di rianimazione dopo tre mesi di coma. Sono rimasto nel reparto di rieducazione per due anni a fissare il soffitto. È stato un cambiamento radicale. Guardando il soffitto è me stesso che guardavo: e ho iniziato a vedere le cose in modo diverso. Un altro cambiamento essenziale, maturato in questa nuova posizione, dove ci si ritrova immobili e in silenzio, è l’altro. L’altro prende tutto il suo posto. Quando corri, non vedi nessuno: incroci delle persone, ma non le incontri. Ma quando sei un naso rivolto al soffitto, l’altro prende tutto il suo posto perché tu lo guardi, sei disponibile. Gli altri – penso al personale dell’ospedale, ai visitatori – ti rimettono in pista attraverso il loro sguardo, la loro attenzione, il tempo che ti dedicano, la loro gentilezza.

Ha mai sperimentato il desiderio di morire dopo l’incidente?

Mi ricordo molto bene che una troupe televisiva venne a realizzare un servizio in ospedale dopo l’incidente. Uscivo da diversi mesi di coma e loro mi fecero la stessa domanda. Mi misi a singhiozzare, dicendo: «Perché mi fate questa domanda? Mi disturba enormemente!». Due o tre settimane prima avevo tentato di suicidarmi. Avevo preso coscienza che sarei stato un peso troppo gravoso da portare per mia moglie, Beatrice, che oltretutto era malata. Avevo cercato di soffocarmi avvolgendomi il tubo della macchina dell’ossigeno alla gola. Svenni. Quando ripresi coscienza, c’era una infermiera molto bella che mi domandò se andava tutto bene. Non dissi niente (dal momento che un macchinario m’impediva di parlare): mi limitai a sbattere le palpebre. Mi è ritornata alla mente una domanda di recente: dopo la morte di Beatrice, malgrado la mia forte depressione, perché non pensai di mettere fine ai miei giorni?

Qual è la risposta?

Perché non era l’handicap a sembrarmi insopportabile, quanto il peso che avrei potuto costituire per lei. Per altre vittime di incidenti, è diverso: i medici mi hanno spiegato che nel 90 per cento dei casi, dopo un incidente, i pazienti tetraplegici vogliono suicidarsi. È una tappa normale del percorso. Io ragionavo sul “peso” che sarei stato. In realtà, ho sempre trovato la vita un’avventura appassionante e forse ancor di più da quando sono un naso rivolto al soffitto!

Un fotogramma del film Quasi amici
François Cluzet e Omar Sy nel film Quasi amici, nei panni rispettivamente di Philippe Pozzo di Borgo e Abdel Sellou

Lei è un nome conosciuto in Italia soprattutto grazie al film Quasi amici. Qual è la chiave del suo successo?

A parte l’umorismo, il ritmo della gentilezza, in stile “orsetti del cuore”, questo film fa comprendere a ogni spettatore innanzitutto che la vita non è facile e poi che la soluzione c’è ed è nell’aiuto reciproco, nel relazionarsi all’altro. Mi ha sempre colpito al cinema quando la gente, al termine della proiezione, si alzava in piedi ad applaudire al buio. Erano così sollevati di sapere che si può trovare gioia nei rapporti e nella vita, nonostante le prove, talvolta anche grazie ad esse. Questo film sdrammatizza la prova, senza negarla.

Lei ha deciso d’intervenire nel dibattito sull’eutanasia in Francia. Perché?

Innanzitutto, io ho 250 anni, dal momento che ogni anno di un tetraplegico ne vale sette. È come per i cani. Dunque trenta per sette più quarant’anni da persona sana: 250 in totale. È per questo che ho perso il senso del pudore. Sono più vicino alla fine della vita che all’inizio. Soprattutto, nei miei trent’anni di frequentazione degli ospedali, sono stato testimone di una tale miseria e ancora di più dopo l’uscita del film. Ho scoperto una misera terribile, non economica ma legata alla solitudine. Il morale di tutti noi è altalenante. Può essere buono o “sotto i tacchi”. Se si dà la possibilità di somministrare l’eutanasia a una persona sola, infelice, depressa, non solo non si rispetta la persona che si va a eliminare “su richiesta”, ma soprattutto non si rispetta se stessi: un giorno sarete voi, i sani, a ritrovarvi soli e in difficoltà, vi ritroverete nella stessa situazione nostra di grande fragilità. L’idea stessa dell’eutanasia mette sotto stress l’intera società. Io ho compreso che la mia testimonianza poteva servire a resistere a una simile catastrofe.

La legge italiana mira a sopprimere non i malati terminali, ma i disabili gravi. Quali saranno le conseguenze dell’approvazione della legge su queste persone?

Saranno terribili! Con il pretesto di “alleviare” qualcuno della sua vita si spinge in modo surrettizio tutti coloro che gli assomigliano verso la fine. Prima di tutto non bisogna assecondare la disperazione di coloro che soffrono, ma accompagnarli, consolarli, alleviare le loro sofferenze. Noi dovremmo piuttosto “normalizzare” la grande fragilità, e cioè farne la parte viva della società. Per me e per voi. Depenalizzando l’eutanasia dei disabili, si genera uno stress terribile, contagioso. La società rischia di rimanere sterilizzata dalla selezione, il rigetto o l’inazione, la paura del rischio. Le persone con grandi disabilità sono la porta dalla quale passa la pacificazione dei rapporti sociali. Stare vicini ai più fragili è una terapia d’urto per coloro che sono “ancora sani”.

I promotori dell’eutanasia dicono spesso che l’autonomia e l’autodeterminazione dell’individuo devono essere rispettate anche quando il paziente chiede la morte.

L’autonomia assolutizzata è una falsa buona idea. Se ne parla molto anche in Francia. La prima cosa che constato è che io vivo – tutti noi viviamo! – grazie all’altro. Ho tante persone che senza sosta non fanno altro che propormi macchinari per diventare autonomo, indipendente dagli altri, per poter fare a meno degli altri. Questa autonomia non farebbe che intrappolarmi nella solitudine, allontanandomi dai rapporti umani. Non sto certo dicendo che bisogna rifiutare tutto ciò che può compensare un handicap. Una volta però mi hanno proposto di vivere dentro un esoscheletro. Andai a trovare i ricercatori di Grenoble all’Università di Parigi-Saclay. Con la loro invenzione addosso mi sentivo l’omino Michelin. Allora ho detto loro: «Potete andare a farvi riabilitare! Che senso ha un’autonomia che mi ghettizza?».

La società che offre l’eutanasia a chi soffre è davvero “compassionevole”?

No. Offrire per legge alla società la possibilità di sbarazzarsi dei più fragili è un atto di incredibile codardia. L’eutanasia è un omicidio ma compiuto da una società anonima. La nostra società già muore di solitudine e così non si fa che accentuarla: «Vuoi spararti un colpo in testa? E sparatelo». Si dice ai medici: «Fategli l’iniezione!». Così non si risolverà la solitudine del malato, questo è certo.

La “buona morte” non è una libertà in più?

Io non credo che la nascita sia un diritto. Ci si ritrova nati, non si sceglie la vita e dunque non vedo perché si dovrebbe scegliere la propria morte. La vita è un dono. Perché privarci di questo dono, anche se ci si ritrova in condizioni difficili? La mia libertà non è di essere avvenente, di riuscire, di essere sano. La libertà è essere se stessi pienamente, in qualunque condizione. Che senso ha la “libertà di morire”, richiesta sotto la pressione della sofferenza, dello sguardo degli altri, della paura di essere un peso e di essere un costo? E che libertà è quella che ci priva, attraverso la morte, di ciò che ignoriamo e cioè il futuro, ciò che ci resta da vivere? Sottolineo infine la violenza inaudita che questa pretesa libertà di suicidarsi esercita sui propri cari addolorati e anche sulle persone fragili che si trovano in situazioni simili. L’eutanasia è insomma una falsa libertà.

Quasi tutti i paesi europei hanno o stanno cercando di dotarsi di una legge sull’eutanasia. Da dove viene questo improvviso desiderio di morire e di donare la morte in Europa?

Non sono uno specialista, ma credo che la società moderna sia sempre più fondata sulla soddisfazione dei desideri personali immediati. È individualista ed edonista. Se l’uomo occidentale si riduce a questo, è facile capire che la grande fragilità, l’handicap importante, non sia molto sexy nella cassetta degli attrezzi della nostra società. Ma l’individuo non si può ridurre ai suoi desideri, la persona si definisce per la qualità delle sue relazioni. L’eutanasia recide la relazione: è l’esatto contrario.

Lei sta per pubblicare un nuovo libro. Di che cosa parla?

Uscirà in Francia a settembre, il suo tiolo è: Le promeneur immobile (Il camminatore immobile). È un titolo che strizza l’occhio a Rousseau e al suo Le fantasticherie del passeggiatore solitario. Sogno di tornare nel mondo dei sani, dopo 30 anni di tetraplegia. La domanda che mi faccio allora è: sarei forse lo stesso idiota come durante i miei 40 anni da persona sana? La risposta, ovviamente, è no! Se potessi tornare nel mondo dei “sani”, sarei molto più completo, più amabile e molto più felice rispetto a prima dell’incidente.

Sta dicendo che la fragilità ha degli aspetti positivi? La società di oggi sembra esserne terrorizzata.

Nella nostra società i sani e i fragili si incontrano troppo poco. La migliore terapia è mettere i fragili al centro delle relazioni sociali. Ci serve una pedagogia della fragilità. Non è mai piacevole essere un po’ – o molto – invalidi, ma è comunque sempre una ricchezza. Non avrà il gusto del miele, ma ha il gusto della vita: è corposo. I dolciumi che mangiamo danno molta soddisfazione sul momento, ma non hanno mai nutrito nessuno. La fragilità ci allinea alla nostra condizione umana. Credere di non essere vulnerabili è un’illusione. Tutto, dalla nascita fino alla morte, ci mette in condizioni di vulnerabilità. Andare contro se stessi ci pone in una condizione di stress e angoscia.

Lei crede in Dio?

Durante i miei 40 anni da persona sana non avevo tempo di pormi il problema di Dio. Avevo al mio fianco una moglie molto credente che conosceva bene la Bibbia. Nell’ultimo anno di vita di Beatrice abbiamo vissuto fianco a fianco, sullo stesso letto: lei mi parlava della Scrittura, del Vangelo, della fede. E io l’ascoltavo. Venivamo accompagnati ogni 15 giorni da un gruppo di sette coppie che si riunivano attorno al nostro letto. Poco a poco, nel silenzio del soffitto, e grazie all’amicizia di queste persone molto credenti, ho scoperto una ricchezza che non avevo mai colto fino a quel momento. Questa ricchezza riguarda il silenzio, il mistero, il superamento della Creazione, l’umiltà. Sì, tornando sulla terra, sono diventato credente.

2 Commenti

  1. Il paradosso della Società moderna è che la vita – DONO PER ECCELLENZA – sia diventata quasi alla stregua di un paio di pantaloni o di una maglietta (la voglio: la compro; ho l’armadio pieno: la butto o la vendo). E che il concetto di libertà è interpretato come “sono libero di fare quello che voglio”. Voglio diventare genitore ma non posso avere figli? Affitto un utero e avrò un figlio. Sono rimasta incinta ma non lo voglio? Me ne sbarazzo. Ho un dolore che non mi fa guardare oltre il mio naso? Ricorro all’eutanasia. Mia moglie / marito mi ha rotto le scatole e la vita è troppo piatta? Esiste il divorzio, e finalmente torno a divertirmi.
    E questa Società non può funzionare. Non può funzionare fare passare l’idea che l’eutanasia sia una cosa buona, che l’aborto e il divorzio siano delle conquiste. E che le coppie (omo ed etero sessuali) possano affittare un utero e pagare per diventare genitori, perché un bambino non è un Rolex.
    E poi l’eutanasia: la buona morte, la dolce morte. Non ha senso. La vita è un DONO e togliersi la vita significa buttare il dono più grande che qualcuno ti possa fare. Basterebbe paragonare la propria vita a un’enorme cifra di denaro, e anche questo rimane riduttivo: chi è che butterebbe nella spazzatura dieci milioni di euro solo perché non sa come spenderli?
    Non si può mai sapere cosa riserva la vita. Philippe ha vissuto ben 30 anni (quindi più o meno la metà della sua esistenza) con la sua malattia, e nonostante la malattia in questi 30 anni – anzi 210 come dice lui – ha vissuto anche gioie oltre che sofferenze.
    La libertà non è voler poter fare della vita ciò che si vuole, perché la vita non è nostra. Libertà è scegliere di vivere onorando al massimo questo dono, esserne grati, combattere per difenderlo, non arrendersi e vivere intensamente sempre, come se ogni giorno fosse contemporaneamente il nostro primo e ultimo giorno.

  2. “Guardando il soffitto è me stesso che guardavo: e ho iniziato a vedere le cose in modo diverso. Un altro cambiamento essenziale, maturato in questa nuova posizione, dove ci si ritrova immobili e in silenzio, è l’altro. L’altro prende tutto il suo posto. Quando corri, non vedi nessuno: incroci delle persone, ma non le incontri.”

    Pozzo di Borgo, ha detto bene! Quante volte mi è successo, ci è successo …

    Ora posso paragonare ciò che dice Philippe, a ciò che provavo prima di entrare a far parte del coro.

    Quando entravamo a messa, mia nonna, indicava sempre un posto dove sedersi, nelle panche vicino al coro.

    Quella nuova posizione, mi ha fatto rendere conto che affidarsi a Lui cantando i salmi, o semplicemente intonando l’alleluja, e donare del tempo all’Altro è sacro e non ti mette davanti situazioni difficili.
    Per questo ritengo che arrivare puntuali o prima dell’orario stabilito significa non correre all’ultimo, perchè come diceva P.P.B. non le INCONTRI le persone, le incroci solo

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