Rodolfo Casadei – Tempi
Eh, sì, sentivamo la mancanza di un altro film che glorificasse l’eutanasia e di un regista che chiedesse di farne un diritto universale riconosciuto per legge. The Room Next Door (nella versione italiana La stanza accanto) è un altro tassello della campagna di lavaggio del cervello che ci vuole convincere che il suicidio del sofferente deve essere tutelato dallo Stato e pagato dai contribuenti; e chi lo intralcia dovrà essere punito, perché negare un diritto configura un profilo penale (antesignani furono il Tar della Lombardia e il Consiglio di Stato, che condannarono Roberto Formigoni e Carlo Lucchina per non avere ottemperato all’ordine di sopprimere Eluana Englaro).
Nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera Pedro Almodóvar non si preoccupa nemmeno di motivare la sua posizione pro-eutanasia, si limita a ripetere il mantra sulla “morte con dignità”, che equivale a dire che la vita del malato terminale è indegna di essere vissuta, e che è consapevole che l’eutanasia cozza «contro ogni credo che vede Dio come unica fonte di vita». Il regista spagnolo ha indubbiamente il dono della sintesi: nella decisione di darsi la morte anzitempo prende corpo la negazione della propria relazione con Dio. Mancano però passaggi del ragionamento indispensabili a capire a che cosa ci troviamo di fronte, e a che cosa miri veramente l’introduzione del suicidio legalizzato, inquadrato e finanziato dallo Stato.
La rassicurante illusione del nulla
Che la promozione del suicidio dei sofferenti serva a convincere con le buone i deboli a togliersi di mezzo (i forti e i potenti si sono fatti furbi, il nazismo usava modi brutali, oggi loro usano la gentilezza), a far risparmiare agli enti pubblici risorse dei malandati bilanci della sanità, ad alleviare la paura del singolo di ritrovarsi solo e abbandonato di fronte al dolore e all’avvicinarsi della morte, questo dovrebbe essere chiaro a tutti. Come dovrebbe essere chiaro che non è a causa di insopportabili sofferenze fisiche che perlopiù si chiede l’eutanasia: mai una civiltà ha avuto a disposizione tanti analgesici come la nostra oggi, mai le terapie del dolore hanno fatto tanti progressi come in questo quarto di secolo. La vera origine della domanda di eutanasia – e la ragione per cui Almodóvar e mille altri ne chiedono l’istituzionalizzazione – è l’angoscia che il dolore fisico e il pensiero della morte scatenano nel malato e in chi presagisce la propria malattia mortale.
Come scrive Henri Hude, «due cose devono essere distinte nella sofferenza fisica: la sofferenza stessa e l’angoscia che vi si incrosta. Gli analgesici sono molto potenti. L’eutanasia attiva ha dunque per scopo di rassicurare il paziente più contro la fatalità di dover affrontare l’angoscia metafisica che contro la sofferenza stessa. Perché l’uomo che ha male da qualche parte nel suo corpo e si sente male, soffre anche di un malessere, quello di non comprendere la ragione e il senso di questo male. Se questo male senza un perché è inteso come un puro nonsenso, con la morte all’orizzonte, esso comunica con l’idea del Male e diventa fonte dell’angoscia.
È probabile che, nella maggioranza dei casi, la domanda di eutanasia sia meno motivata dalla sofferenza pura e semplice che dall’angoscia di una sofferenza che pare assurda. Perché se la sofferenza avesse un senso ai suoi occhi, l’uomo non cercherebbe di fuggirla incondizionatamente, anche se per natura preferisce il piacere o la non sofferenza. La vera sofferenza che l’uomo fugge, quella di cui soffre e contro la quale invoca un aiuto, è dunque l’angoscia acuta.
Domandare l’eutanasia equivale a rivendicare il diritto di evitare fino alla fine l’angoscia, non essendo possibile eliminarla. Se sopprime la sofferenza uccidendosi o facendosi uccidere, l’uomo ha l’impressione che la sofferenza e la morte siano in suo potere: le reintegra così nel mondo degli oggetti dominati, non inquietanti. Riesce a reprimere la sua angoscia e, nella pace, rassicurato dall’illusione del nulla, entra nell’eternità senza angoscia e senza pensarci» (H. Hude, Ce monde qui nous rend fous, pagina 118).
L’angoscia che apre alla trascendenza
L’eutanasia vuole rendere impossibile all’uomo l’esperienza dell’angoscia, perché questa potrebbe aprirlo alla trascendenza, all’idea di Dio e di un senso delle cose, e ne farebbe un uomo libero, non ricattabile dal potere e dai consumi. Chi scopre la propria dipendenza dal Trascendente e la certezza che tutto ha un senso non può più essere schiavizzato da nessun potere umano, è uomo libero per sempre.
L’angoscia come esperienza della propria finitezza e del baratro del non senso che apre alla possibilità della fede in Dio è stata evidenziata da Søren Kierkegaard: «È con l’aiuto dell’angoscia che Dio scende in caccia dell’uomo».
L’attraversamento della sofferenza come compito della vita di ogni uomo è uno degli aspetti più profondi dell’approccio anche terapeutico di Viktor Frankl, lo psicoanalista austriaco che descrive la figura dell’“homo patiens”: colui che assume consapevolmente su di sé, che fa proprio e interiorizza, un destino inevitabile, che non ha scelto lui, ma che gli è stato presentato dalla vita senza possibilità di alternative. È l’uomo che, come Cristo nel Getsemani, prega con le parole: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà».
La malattia penosa o fortemente invalidante è questo destino inevitabile che l’uomo può scegliere di abbracciare oppure di rigettare (con l’eutanasia). Lo abbraccia se vi riconosce un senso; vi riconosce un senso se è mosso da un amore:
«Una sofferenza dotata di senso è rivolta sempre al di là di se stessa e rimanda a qualcosa “per il cui amore“ si soffre» (V. Frankl, Homo patiens, pagina 86).
La “pulsione fondamentale” dell’uomo
Nell’angoscia per l’imminenza della morte e per la sua manifestazione attraverso i dolori fisici l’uomo riscopre il desiderio di eternità, di immortalità. L’esistenza di tale desiderio di per sé non dimostra nulla, ma riapre la strada alla coscienza del senso religioso, cioè alla coscienza della natura umana come natura di un soggetto che desidera una felicità piena e profonda, che nessuna cosa di questo mondo può dargli.
Non c’è nessun automatismo, ma la riscoperta del desiderio dell’Assoluto che palpita dentro la propria finitudine (conosciuta da sempre, ma più evidente nell’imminenza della morte), la riscoperta del fatto che nessun bene finito può soddisfare tale desiderio, restituiscono l’uomo alla verità della sua natura e lo rimettono nella condizione di rivolgersi a Dio. Aiutano l’uomo a riscoprire quella che Hude definisce – appropriandosi di termini psicoanalitici freudiani e riformulandone il senso – la “pulsione fondamentale” dell’uomo, che non è quella sessuale, ma quella che lo spinge verso l’Assoluto, verso Dio, verso la trascendenza.
Pulsione che la società contemporanea reprime e sublima: i mille desideri che prendono il posto del Desiderio (o pulsione fondamentale) sono sublimazioni della pulsione fondamentale, sono cioè sostituti della cosa autentica che si desidera. Le sublimazioni (che il pensiero biblico chiama idoli) provocano nevrosi. Le nevrosi non tollerano l’angoscia. L’intolleranza per l’angoscia apre la strada all’eutanasia e al suicidio assistito. Registi e politici nevrotici promuovono l’eutanasia e il suicidio assistito.
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