suor Maria Luisa Casiraghi – Missionarie della consolata →
In Giappone, quando un oggetto in ceramica si rompe, lo si ripara con l’oro, perché un vaso rotto può divenire ancora più bello di quanto già non lo fosse in origine. La tecnica kintsugi, evidenzia le fratture, ma al contempo, le impreziosisce aggiungendo valore a ciò che si ripara. Il kintsugi suggerisce messaggi e paralleli suggestivi: non si deve buttare ciò che si rompe, perché la rottura di un oggetto non ne rappresenta la fine. In Occidente culturalmente si fa fatica ad accettare, a diventare consapevoli e a fare la pace con le proprie crepe, tanto del corpo, quanto dell’anima. Le “persone” che hanno sofferto possono diventare ancor più preziose.
È capitato a tutti un momento di distrazione e, l’oggetto in ceramica che ci era tanto caro, cade rovinosamente a terra e si rompe. Stupore, incredulità, dispiacere, poi, con rassegnazione raccogliamo i cocci e li buttiamo, seppure a malincuore, nella spazzatura, oppure li conserviamo racchiusi in una scatola. L’idea di provare a ricomporre ciò che è andato in frantumi magari ci sfiora, ma poi ci mettiamo una pietra sopra, perché convinti che un vaso rotto non potrà mai tornare come prima. Questo è ciò che accade, solitamente, in Occidente.
In Oriente invece, per la precisione, in Giappone, quando un oggetto in ceramica si rompe, lo si ripara con l’oro, perché un vaso rotto può divenire ancora più bello di quanto già non lo fosse in origine. La tecnica di riparare gli oggetti in ceramica, si chiama kintsugi, che significa: “kin” (oro) e “tsugi” (riunire, riparare, ricongiungere), letteralmente, “riparare con l’oro”.
Questa tecnica è stata inventata intorno al XV secolo, quando uno “shogun”, titolo attribuito nell’antico Giappone ai capi delle spedizioni belliche, dopo aver rotto la propria tazza da tè preferita, la inviò in Cina per farla riparare. Purtroppo le riparazioni all’epoca avvenivano con legature metalliche poco precise. La tazza sembrava perduta, ma il suo proprietario decise di ritentare la riparazione affidandola ad alcuni artigiani giapponesi, i quali, sorpresi dalla tenacia dello “shogun”, nel volere riavere la sua amata tazza, decisero di provare a trasformarla in un gioiello riempiendo le crepe con resina laccata e polvere d’oro.
Il racconto è plausibile, perché colloca la nascita del kintsugi, in un periodo molto fecondo, in Giappone, per l’arte, infatti, in quel periodo si sviluppò un movimento culturale, che diede origine alla cerimonia del tè (via del tè), all’ikebana (via dei fiori), al teatro e alla pittura con inchiostro cinese.
La tecnica kintsugi, evidenzia le fratture, ma al contempo, le impreziosisce aggiungendo valore a ciò che si ripara. Il risultato è sorprendente: il manufatto rimane striato da linee d’oro che lo rendono diverso, pregevole e prezioso. La ceramica prende nuova vita attraverso le linee delle sue “cicatrici” impreziosite!
Il kintsugi suggerisce messaggi e paralleli suggestivi: non si deve buttare ciò che si rompe, perché la rottura di un oggetto non ne rappresenta la fine, ma si deve tentare di recuperarlo; le sue fratture possono diventare preziose.
C’è anche una delicata lezione simbolica, che l’antica arte giapponese del kintsugi, ci suggerisce, quella di accogliere il danno, le offese che causano le fratture e di non vergognarsi delle ferite che ognuno di noi può portare dentro di sé. La filosofia che è alla base del kintsugi, sottolinea che la vita non è composta solo di perfezione, ma anche di rottura e, come tale, va accolta. Una vera e propria metafora della vita, infatti, a chi non capita di subire rotture e ferite nel corso del proprio cammino?
In Occidente culturalmente si fa fatica ad accettare, a diventare consapevoli e a fare la pace con le proprie crepe, tanto del corpo, quanto dell’anima. Le ferite, le spaccature e le fratture sono percepiti come fragilità, imperfezione, additati e colpevolizzati: se è rotto è colpa di qualcuno. Se è rotto và buttato, o nel caso di una persona ferita, viene allontanata.
Nella cultura orientale, invece, la vita porta insieme pienezza e rottura, ri-composizione e costante mutamento. Così, anche per le persone che hanno sofferto ed hanno ferite nel corpo e nell’anima è possibile valorizzare le proprie cicatrici acquistando una nuova bellezza e preziosità.
La sofferenza è parte della vita, se impariamo a sentirla e a riconoscerla, c’insegna, che siamo vivi; se poi è accolta, ci cambia, ci rende a volte più forti, a volte più saggi. In tutti i casi lascia un segno.
Elaborare una ferita è un procedimento lento, che necessita cura, pazienza e amore, ma garantisce risultati imprevisti e bellissimi, può rivelare aspetti nascosti, forme nuove e affascinanti.
Si scopre, così, che da un’imperfezione, da una crepa, può come per magia, nascere una forma nuova, unica, di perfezione estetica. Proprio come le nostre vite. Le “persone” che hanno sofferto possono diventare ancor più preziose. D’altronde, anche le perle nascono dal dolore, dalla sofferenza di un’ostrica ferita da un predatore, o da una lesione cicatrizzata.
I giapponesi che hanno inventato il Kintsugi lo hanno compreso più di sei secoli fa e lo ricordano sottolineandolo con l’oro. Pensate ancora che le ferite vadano nascoste? O sarebbe meglio, farle risplendere, proprio come si fa con l’arte del Kintsugi?