La bellezza salverà il mondo

Don Paolo Prosperi

Il mondo è cambiato

“Il mondo è cambiato” – fa dire a Galadriel Samuel Jackson, all’inizio della sua celeberrima traduzione cinematografica del “Signore degli Anelli” di J.R.R. Tolkien: “Lo sento nell’acqua, lo sento nella terra, lo avverto nell’aria. Molto di ciò che era, si è perduto, perché non vive nessuno che lo ricordi”.

Queste parole, pronunciate a proposito di un mondo – la famosa Terra di Mezzo – solo in apparenza fantastico, ben descrivono la realtà in cui ci troviamo a vivere oggi. Il mondo è cambiato. Acqua, terra, aria non sono più quel che eranoEd ovviamente non solo a causa dell’inquinamento. Si tratta di una “mutazione” più profonda, di natura spirituale. Carron nel suo libro “La bellezza disarmata” mette a fuoco il centro del problema con un’espressione di Benedetto XVI, il quale ha parlato di “crollo delle certezze”. Il cambiamento non è dunque – almeno in prima battuta – nella terra e nell’aria materialmente intesi, quanto nel modo con cui uomini e donne “sentono la terra e l’acqua. Lo stesso papa emerito spiega altrove il concetto come segue: “L’uomo del nostro tempo è fermo al positivismo. (…) Non sembra più in grado di percepire la presenza di Dio dentro questa realtà che i nostri occhi vedono e toccano, si tratti di un fiore o di un volto umano”.

La mutazione, quindi, ha essenzialmente a che fare con l’uomo, ed in particolare con i suoi organi sensoriali: vista, udito, olfatto, tatto, gusto. Ciò che è mutato è il modo con cui l’uomo vede il mondo, dal fiore alla stella, dal volto della persona amata, al proprio stesso corpo.

Un buon esempio di ciò, è la a tutti noi nota “ideologia gender”. Senza scendere in dettagli, è interessante osservare come le diverse teorie del gender, pur diverse tra loro, tutte si fondano su di una insindacabile premessa: il corpo umano non rivela nulla di profondo circa il suo significato e il suo scopo. Si potrebbe dire che il corpo è qui considerato più o meno alla stregua di una macchina, di cui grazie alle diverse scienze possiamo conoscere sempre meglio le leggi di funzionamento, ma nulla di più. Che vi sia un linguaggio, una musica iscritta da Dio nel corpo umano, una musica piena di senso, bellezza e intrinseca bontà – ciò è divenuto invisibile ad un numero sempre maggiore di uomini, almeno quanti camminano nelle città di questo nostro mondo occidentale. Per usare un’analogia musicale, potremmo dire che le teorie gender concepiscono il corpo umano come un bel pianoforte sul cui leggio non giace alcuno spartito musicale. Senza uno spartito, senza una musica che lo strumento medesimo, per dire così, porta scritta in sé, una musica che io sia in grado di leggere e apprezzare, è chiaro che toccherà a me ed a me solo scegliere la melodia da far suonare al mio pianoforte. Fuor di metafora: io e soltanto io sono colui che può e deve liberamente dare un significato al mio corpo, decidere che tipo di musica fargli suonare.

Generalizzando, si potrebbe dire che l’uomo di oggi vede sempre meno le realtà della natura, si tratti del corpo umano o di un albero, dell’acqua di un fiume o di un tramonto, come “opera” di un sapiente Artista – i nostri avi lo chiamavano il Creatore – e perciò sature di parola, di un significato che si può comprendere e si deve rispettare; ma sempre più come materia prima, da usarsi per realizzare progetti – oggi si preferisce parlare di “sogni” – dettati dalla propria volontà. 

In questo senso, si può forse tentare di definire la mutazione genetica cui sopra si è accennato nei seguenti termini: la verità di me, non la scopro attraverso l’ascolto di un “Altro”, che mi parla attraverso la totalità della realtà, a partire dal mio stesso corpo. Piuttosto è vero che io stesso sono il libero creatore della mia identità, cioè del senso della mia vita, mentre la realtà attorno a me si offre alla mia intelligenza ed alla mia libertà come un potenziale aiuto o mezzo per realizzare il mio progetto, il mio sogno.

Di qui il tratto psicologico che secondo i sociologi americani (non siamo dunque noi a dirlo) più caratterizza la generazione “millennial”: il giovane di oggi è essenzialmente centrato su di sé. E ciò – si badi – non per volontà sua. Bensì a causa del tipo nuovo di aria che respira ed acqua che beve ogni giorno – per tornare alle parole di Galadriel.

Forse la ricaduta che più mi impressiona di questa cultura del “dream”, è nella concezione dell’amicizia: Possa il tuo sogno avverarsi” – questo è ciò che oggi due amici, almeno secondo il codice etico del mainstream, sono invitati ad augurarsi l’un altro. Essere amici, volersi bene, spendersi generosamente l’uno per l’altro, significa aiutarsi a vicenda a perseguire ciascuno il proprio sogno, il proprio progetto di auto-realizzazione. 

Esempio emblematico di questa idea è l’applauditissimo film La La land. Conosciamo tutti la storia. Lui “da sempre” (?) sogna di essere un jazzista. Lei, da sempre sogna di essere un’attrice. Si incontrano, si innamorano. É bello. É reale. Tuttavia non possono stare insieme, perché ciò ostacolerebbe entrambi nel perseguire ciascuno la realizzazione del suo sogno. Si faccia attenzione al presupposto del doloroso “sacrificio”: la fedeltà al sogno, cioè a ciò che è nato nella e dalla propria menteè valore più importante dell’imprevisto che irrompe dal di fuori. É triste, è un sacrificio non facile da accettare, ma i due si devono lasciare. 

Non c’è qui lo spazio per una analisi più approfondita del film, per altro davvero ben fatto, godibile ed anche capace di far riflettere. Sarebbe interessante, per esempio, mostrare come il regista, con indubbio artistico savoir-faire, riesca nell’impresa di dipingere la realtà presentedell’amore tra i due come una fuga romantica nell’irreale, e viceversa la fedeltà al sognoche ancora esiste solo nella loro mente, come attaccamento a ciò che è più reale. Per ciò che qui ci concerne, è sufficiente evidenziare la domanda che il finale dolce-amaro del film, in questo senso molto onesto, lascia aperta: è poi vero che dare la vita per “realizzare il tuo sogno”, come oggi si dice, porta alla felicità? 

Che cos’è la felicità? Se riflettiamo sulla nostra esperienza, non è forse vero che i momenti di felicità più pura, sono al contrario proprio quelli in cui ci è dato d’esser “tratti fuori di noi stessi” dallo sguardo di qualcuno che, osando invadere lo spazio privato del nostro io, ci offre il suo amore e mendica il nostro? Già il pagano Seneca l’aveva detto: “se vuoi vivere per te stesso, devi vivere per un altro.”

In sintesi: se la vita non è risposta ad un Altro, allora sono io a dovermi dare da me stesso uno scopo: il sogno. L’esito di questo approccio alla vita, però, è a conti fatti meno liberante di quel che può sembrare a prima vista. Perchè? 

Sulla base della mia esperienza, direi almeno per il seguente motivo: di fatto, quando entro nella “modalità sogno” – per usare il gergo degli youtubers – mi accorgo che le cose e i volti che mi circondano cessano di parlarmi, diventano come muti e senza luce, incolori, un po’ come accade a Frodo quando si mette al dito l’anello del potere (l’immagine non è scelta ovviamente a caso). Barricato in me stesso, ossessionato dall’ansia di realizzare l’obiettivo che mi sono prefissato, qualunque esso sia, divento come uno di quei cavalli cui si mettono i paraocchi per impedir loro di distrarsi, così che possano correre più spediti verso la meta. Solo che io non sono un cavallo. Anche se il potere vuol trasformarmi in una bestia da soma, io non sono un cavallo. Sono un essere umano, il che implica che vivere galoppando a tutta velocità per riuscire a “svettare” in questo o in quel campo, non può farmi felice. Che cosa allora può farmi felice? 

Ovviamente rispondere a quest’altra domanda è tutt’altro che facile. É la domanda della vita. Una cosa però mi pare di poter dirla. Io sono diverso da un cavallo per almeno una ragione: il fatto che quando guardo un fiore, io sono capace di provare stupore, meraviglia. E sono capace di meraviglia, perché sono capace di “sentire” nel guardare la rosa quello che il cavallo non sente, e cioè la parola d’amore che Chi in questo momento sta facendo la rosa pronuncia, per così dire, dandogli la forma delicata che ha, il colore e il profumo fascinoso che ha, ed inserendola nel quadro del giardino che ella impreziosisce con la sua presenza. L’uomo è capace, in altre parole, di leggere la realtà come un libro che dice qualcosa, un libro pieno di sapiente bellezza, di senso – un senso che chiede accoglienza rispetto, venerazione, amore. 

Orbene, non è proprio nell’indebolimento di questa facoltà percettiva, che consiste la mutazione genetica di cui si è fin qui parlato? Se così è, diviene allora urgente ed inevitabile per ciascuno di noi porsi la seguente questione: cosa può guarire la vista dell’uomo di oggi, cioè la nostra vista, intrappolati come siamo nel cerchio magico della realtà tecnologica? Come reimparare a “leggere”?

Viene in mente spontaneamente il racconto giovanneo della guarigione del cieco nato. Come i padri della Chiesa hanno ben compreso, non è casuale il fatto che Gesù guarisca gli occhi del cieco nato spalmando del fango sui suoi occhi con le proprie mani. Questo gesto rimanda alla creazione di Adamo narrata in Gen 2:7: “allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere dal suolo”. In questo infatti, forse più che in ogni altra cosa, consiste la nuova creazione di cui l’uomo di ogni tempo ha bisogno e l’uomo d’oggi più che mai: nel dono di occhi capaci di vedere la realtà, a partire dalla realtà della propria umanità, nel suo vero splendore: “Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva” (Gv 9,7b). È come un’opera di restauro, dove però ciò che deve essere liberato delle incrostazioni non è l’opera d’arte, ma l’occhio di chi guarda.

Ma come questa guarigione può avvenire? Per usare le parole di Nicodemo: “Può un uomo rinascere quando è vecchio?” Può l’uomo post-moderno tornare a vedere il mondo con gli occhi stupiti del bambino? C’è speranza? Sono sinceramente convinto che la risposta sia affermativa. E ciò per diverse ragioni, tra le quali ne scelgo una, che mi è particolarmente cara. 

In breve, direi che la speranza viene da quel misterioso, indefinibile e tuttavia a tutti famigliare fenomeno che chiamiamo esperienza della bellezza. Innanzitutto la bellezza del creato. Di fatto, per quanto immersi nella città tecnologica, anche noi figli del mondo post-moderno, non possiamo fare a meno di accusare l’inesorabile misteriosità del creato, ogni qualvolta ci capita di essere feriti dalla sua bellezza. Si, lo sappiamo bene: se esiste qualcosa che ha il potere di incuterci un “irresistibile” rispetto, questo qualcosa è la bellezza. L’ecologismo contemporaneo è certamente un fenomeno ideologicamente pilotato. E tuttavia esso può fare così presa proprio per questo: l’uomo non smette di intuire che c’è una bellezza nel creato, una bellezza che non è opera delle sue maniche non celebra lui, il suo potere, e che pur viene istintivo proteggere. 

Si, la bellezza non può essere eliminata. Ciò che il potere può fare – e lo può oggi sempre meglio – è distogliere il nostro sguardo da essa, nonché offrire interpretazioni riduttive del suo mistero; ma non può bandirne totalmente l’esperienza. Certo, occorre qualcuno che accompagni, che educhi all’arte del vedere ed ascoltare, del contemplare. E tuttavia, anche lo sforzo del miglior maestro sarebbe vano, se non si desse la bellezza della realtà – l’inesorabile potere di far risplendere il vero, che è del bello la più intima qualità.

Sorge però a questo punto una possibile obiezione: se bastasse la bellezza del creato a guarire gli occhi dell’homo technologicus, beh, allora non si sarebbe mai neanche ammalato. Occorre dunque scavare più a fondo. Dostoevskij ha detto più di una volta che “la bellezza salverà ilmondo”. È una frase famosa e ripetuta spesso a proposito e a sproposito. In realtà questa frase non ha nulla di romantico o ingenuo. È invece una affermazione la cui forza profetica solo oggi, io credo, possiamo cominciare ad apprezzare davvero. La domanda che però ci dobbiamo fare, per poter capire la profondità di ciò che Dostoevskij intendeva dire con questa frase è duplice: primo, che cosa intendiamo quando usiamo la parola bellezza? Secondo, quale bellezza ha davvero il potere di salvare il mondo?

La bellezza salverà il mondo

Partiamo dalla prima: che cosa è la bellezza? È certamente arduo, se non impossibile, definire l’essenza del bello. Ci si prova da circa duemilacinquecento anni, e non si è ancora addivenuti ad un accordo in merito! Da parte mia, trovo persuasiva, se anche non esaustiva, la definizione che don Giussani, riallacciandosi ad una tradizione che attraverso il Medioevo risale fino a Platone, amava di più: il bello è “splendor veritatis”, splendore del vero. In questa stupenda espressione sono dette almeno due cose. 

Innanzitutto, bello è il reale concreto, per esempio un fiore o un albero, in quanto lascia tralucere con chiarezza la propria verità, la sua essenza, dicevano i medievali. Tommaso parla in questo senso di claritaschiarezza. I greci parlavano di sapheneia, che significa trasparenza. Il bello è trasparenza, cioè nitida apparizione della invisibile essenza di un certo ente in ciò che di esso si vede, appare, è percepibile. Facciamo un esempio. Se vedo un cervo cui manca una gamba sento che è brutto – mi dà fin tristezza. Perché? Perché quello che vedo non mostra, non lascia apparire la piena essenza del cervo (debita proportio, perfectio), che invece è di avere quattro gambe e balzare elegante e leggiadro come nient’altro in natura. C’è una mancanza di perfezione, cioè di proporzione tra ciò che appare e ciò che il cervo dovrebbe essere. E per questo io sento che qualcosa stride. Questo esempio ci permette di passare subito al secondo aspetto. Ho detto: mi dà tristezza. La parola splendore non dice solo trasparenza. Dice anche «fascino, diletto del cuore».Ciò ci porta alla seconda classica definizione del bello: “quod visum placet”, ciò che visto piace. Se il bello è l’apparire del vero, in cosa si distingue dal vero? Ciò che il bello aggiunge al vero è il diletto, il sentimento di dolcezza che la visione del bello ispira. In altri termini il bello ci fa sentire il «vero» come «buono», dà «sapore» al vero, per così dire.

Ora, tende solitamente a sfuggire alla nostra attenzione un paradosso che invece ha un’importanza immensa. Il piacere che il bello mi dà è un piacere peculiare. È un piacere cioè che posso provare solo se io mi pongo ad una certa distanza dall’oggetto, permettendogli così di rendersi a me visibile. Io non posso godere del bello se non ritraendomi al suo cospetto, per così dire. Ciò non significa ovviamente che il bello non attragga verso di sé. “To kalon kalei”, insegna Dionigi: il bello chiama a sé. E tuttavia non soltanto attrae: impone anche rispetto. E ciò proprio perché il tipo di godimento che la contemplazione del bello dona richiede per così dire due moti contrari: «verso» e «lontano» dalla fonte dello splendore. 

Tutto questo non può non ricordare a quanti sono familiari con il pensiero di don Luigi Giussani la famosa definizione del prete brianzolo di verginità: “possesso nel distacco”. In effetti, io credo non sia sbagliato dire che nella contemplazione del bello, benché solo per attimi, è come se ci fosse dato di sperimentare un albore, un primo accenno di quell’amore puro che Giussani chiama verginità. Poiché anche qui possesso e distacco, godimento e generoso lasciar essere, soddisfazione dell’io e gratuita affermazione del «tu», co-incidono, cioè accadono insieme, si richiedono l’un l’altro. 

Ecco allora la prima ragione per cui credo che Dostoevskij avesse ragione nel dire ciò che ha detto. Aveva ragione perché il bello è quella qualità dell’essere che desta in noi il potere di amare, cioè di affermare gratuitamente ciò che è. Di più: esso ha il potere di ispirare il desiderio di spendersi per proteggerne l’integrità senza voler nulla in cambio. 

Ciò mi introduce ad una seconda e forse ancor più profonda ragione per cui condivido il parere di Dostoevskij. Una ragione che però si può comprendere pienamente solo alla luce della rivelazione Cristiana, alla luce cioè di quel che Cristo ci rivela di Dio e di cosa significa diventare simili a Lui – che è ciò che in fondo ogni uomo, consapevolmente o inconsapevolmente, desidera. Domandiamoci: cos’è questa strana gioia, questo strano senso di libertà che proviamo quando qualcosa di davvero bello ci strappa un moto di disinteressato amore? 

La rivelazione Cristiana ci aiuta a rispondere: quell’amore è in realtà come un «assaggio» del destino ultimo per cui siamo fatti – cioè di ciò che chiamiamo paradiso. Cosa vuol dire infatti essere in paradiso? Certo, nessuno di noi può pretendere di dire di saperlo. Una cosa però ci è stata promessa (1 Gv 3,1): essere in paradiso significa diventare simili a Dio, cioè conoscere e amare tutto nel modo in cui Egli conosce ed ama. E come ama Dio? L’amore di Dio è carità, cioè «pura gratuità». L’amore di Dio è pura gioia di lasciar essere, pura gioia di affermare il tu, l’altro. 

Perché Dio crea me e te? Perché si compiace d’avere un altro di fronte a se, un altro alla cui vista bearsi: “E Dio vide che era tov…e Dio vide che era tov” ripete come un ritornello il racconto della creazione in Genesi 1. Tov” significa buono, ma anche bello, cioè piacevole a vedersi, se è vero, come abbiamo già detto, che pulchrum est quod visum placet

Non è sconvolgente? “Ed Egli vide che era bello…” – quasi che Dio stesso, che pure è l’Essere Perfettissimo, il Creatore di tutto ciò che esiste, si fermasse in silenzio davanti alla sua opera e si stupisse di quanto è bella, ora che non è più soltanto nella sua mente, ma esiste davanti a Lui, come in qualche modo altra da Lui. Quasi che Dio stesso godesse del fatto che non ci sia più solo Lui- Padre, Figlio e Spirito Santo – ma anche il cervo, l’aquila, l’albero, il verme, il “puffin”, che, come sanno i miei amici, è il mio uccello preferito, perché è l’unico volatile che “vola” non solo in cielo ma anche sott’acqua, “libero” di muoversi a piacimento nel cielo, sulla terra e negli abissi, un pò come il Signore Gesù…

“Dio è carità” – agape – dice San Giovanni. Ed è per questo che un atto di genuino stupore di fronte alla bellezza dona al cuore un sentimento di libertà, di leggerezza, di pienezza che è qualitativamente imparagonabile a qualunque altro piacere sia esso sessuale o psicologico (successo, gloria mondana, etc.). È così semplicemente perché noi siamo fatti per vedere ed amare come Dio ama. Nell’incontro col bello questa divina gratuità d’improvviso diviene in qualche modo gustabile anche da chi di Dio non sa nulla, anche da chi vive immerso nel grigiore, in un mondo avvolto da una cappa di menzogne. 

Sam Gamgee e la stella

Un passo del Signore degli Anelli di Tolkien aiuta meglio d’ogni altro brano di letteratura a me noto, l’idea che ho testé cercato di comunicare. Frodo e Sam marciano ormai da giorni nel cuore di Mordor, avvolti da oscurità e desolazione. Stremati, si fermano a riposare per la notte:

«Dormite prima voi, signor Frodo», disse. «Si sta facendo di nuovo buio. Credo che il giorno sia quasi finito». Frodo sospirò e si addormentò prima ancora che Sam finisse di parlare. Questi lottava con la propria stanchezza; prese la mano del padrone e rimase seduto e immobile fino a notte fonda. Finalmente, per tenersi sveglio, strisciò carponi fuori dal nascondiglio e si guardò intorno. Il paese sembrava pieno di scricchiolii, di scalpitii e di fruscii, ma non si udivano voci né passi. Sopra l’Ephel Dúath, a occidente, il cielo della notte era ancora pallido. E lì Sam, sbirciando fra i lembi di nuvole che sovrastavano un’alta vetta, vide una stella bianca scintillare all’improvviso. Lo splendore della sua bellezza gli penetrò nell’anima e la speranza nacque di nuovo in lui. (The beauty of it smote his heart, as he looked up out of the forsaken land, and hope returned to him). Come un limpido e freddo baleno passò nella sua mente il pensiero che l’Ombra non era in fin dei conti che una piccola cosa passeggera: al di là di essa vi erano eterna luce e splendida bellezza. Il suo canto nella Torre era stato una sfida più che una vera e propria speranza, perché pensava a se stesso. Ora, per un attimo, il suo destino e persino quello del suo padrone smisero di tormentarlo. Tornò strisciando fra i rovi e si sdraiò accanto a Frodo, e dimenticando ogni timore si lasciò cadere in un profondo sonno tranquillo

L’epifania della stella, scrive Tolkien, infonde speranza nel cuore di Sam. Mi pare qui importante chiedersi: di che speranza si tratta? Il narratore stesso sembra offrirci la risposta: “Come un limpido e freddo baleno passò nella sua mente il pensiero che l’Ombra non era in fin dei conti che una piccola cosa passeggera: al di là di essa vi erano eterna luce e splendida bellezza.” La speranza che riempie il cuore di Sam e gli fa dimenticare ogni timore sembra essere il frutto di una improvvisa, quasi subliminale intuizione: alla fine del tempo l’Ombra non prevarrà e il mondo sarà salvato.

Questa risposta è certamente corretta. E tuttavia richiede a mio avviso una importante precisazione. Intuire che la salvezza finale del mondo è certa non significa ricevere la certezza che anche io sarò salvato. Soprattutto non significa ricevere alcuna assicurazione che la mia personale missione, la missione che sto svolgendo nel presente, avrà successo. La stella non fa a Sam alcuna promessa circa l’esito positivo della missione, non gli promette il successo né un felice ritorno a casa. Rimane perciò da chiarire perché la visione della stella produca nel cuore di Sam una pacificazione, una liberazione così profonda. È Tolkien stesso a suggerire la risposta a questo enigma: “lo splendore della sua bellezza gli penetrò nell’anima e la speranza nacque di nuovo in lui”. È il sentimento di gratuita ammirazione che Sam prova per la stella – mi permetto di suggerire – la causa di questa misteriosa resurrezione della speranza nel suo cuore. 

Cosa è infatti la speranza? La speranza è l’anticipo nel presente della salvezza futura. La speranza, in senso cristiano, è non solo certezza nel futuro, ma è certezza nel futuro in forza di una esperienza presente che in qualche modo ce ne fa gustare l’anticipo. Ecco dunque spiegato il paradosso. Nel momento stesso in cui Sam riesce a stupirsi, per così dire, «gratuitamente» della bellezza della stella, a gioire che essa esista, egli sta in realtà già sperimentando la salvezza – cioè il manifestarsi della vittoria del divino in lui, nel suo cuore. Immedesimiamoci. Sam è imprigionato nel luogo più orrendo che si possa immaginare. Eppure, all’apparir della stella, gli è dato non solo di realizzare ma di «gioire» del fatto che ci sia nel mondo qualcosa di indomabilmente bello – qualcosa che rimane inaccessibile a qualsivoglia ombra di male. Lungi dal provare invidia, Sam è consolato, gioisce, per così dire, del fatto che esista qualcosa che non è nel posto orrendo dove lui è. Qualcosa di immacolato, di perfettamente puro. Ne gode, ne gioisce. Di più, ne gioisce di una gioia così penetrante che “per un attimo il suo destino e persino quello del suo padrone smettono di tormentarlo”. Questo è il potere paradossale del bello: esso resuscita in me la vita nel momento stesso in cui mi libera, anche solo per un attimo, da ogni ansia circa la «mia» vita. Nello strapparmi un atto di gratuita, generosa ammirazione, di amore senza ritorno, la bellezza mi lascia intuire che proprio questo è il ritorno, il dono che ella mi elargisce: il potere di amare gratis – cioè divinamente. 

Un importante corollario consegue a tutto questo. Da una parte, è vero che la bellezza è «inutile»,come si dice. Non serve a nulla. Dall’altra, tuttavia, l’incontro con lei non è “infecondo”. Al contrario il bello porta in me un frutto straordinario: mi trasforma in un generoso amante. Ancor più notevole è il fatto che questa generosità che il bello genera in me tende naturalmente a tracimare, per così dire, cioè a contagiare il mio modo di guardare anche il resto della realtà, anche il non bello. È questa un’esperienza certamente nota a molti: la lettura di un toccante brano di letteratura o di una poesia, l’ascolto di un brano musicale che per qualche ignota ragione va a toccare le corde più profonde del nostro cuore, ha spesso su di noi un effetto catartico simile all’impatto della stella sul cuore di Sam. Lascia nella nostra anima, almeno per qualche tempo, un senso di riconciliazione, di pace che ci permette di guardare alla realtà, anche nei suoi aspetti più plumbei, con una maggiore magnanimità e leggerezza: Tornò strisciando fra i rovi e si sdraiò accanto a Frodo, e dimenticando ogni timore si lasciò cadere in un profondo sonno tranquillo.”

Otteniamo così una prima risposta alla nicodemiana domanda che ci siamo sopra fatti. Può il giovane d’oggi, figlio dell’era di Internet e di Iphone, tornare a “vedere” il reale nel suo vero splendore? Sì, lo può, soprattutto se ha la grazia di incontrare degli “stregoni”, dei Gandalf, capaci di attirarlo nell’avventura della scoperta dei meravigliosi misteri di cui la “vera realtà” è colma, strappandolo alla prigione del Web (che non a caso significa rete…) 

Twilight zone: la bellezza diventa un enigma

Giunti a questo punto, un secondo passo si rende necessario. Se guardiamo con onestà alla nostra vita, ci accorgiamo facilmente di come il nostro rapporto con la bellezza non sia per nulla così semplice come l’abbiamo descritto. E ciò non solo perché siamo terribilmente distratti e pigri. C’è dell’altro. La nostra relazione con la bellezza è complicata – possiamo tranquillamente dire tormentata. Lo si vede molto facilmente in una sfera specifica, la più delicata ed importante di tutte: quella del rapporto tra l’uomo e la donna. 

Torniamo al racconto di Genesi 1. Quando Dio crea ogni altra creatura, ci vien detto che “Egli vide che era cosa buona e bella”. Quando crea l’uomo e la donna, l’autore sacro passa al superlativo: “E Dio vide che erano cosa molto bella”. E ciò significa: non c’è bellezza più bella del volto umano in tutto l’universo creato. Il volto umano è nel mondo l’immagine più luminosa e fedele del volto di Dio, che è l’oggetto ultimo del desiderio del cuore come insegnano i salmi. Così comprendiamo: l’uomo e la donna sono dati l’uno all’altra come supremo “detonatore” di stupore e venerazione, come icona suprema del Mistero di Dio, come l’aiuto più grande nel cammino verso Dio. Infatti è solo con la creazione di Eva che la solitudine di Adamo è finalmente vinta: “non è bene per l’uomo che sia solo…”. I cervi e gli uccelli del bosco già erano per Adamo una compagnia, un dono, un segno visibile dell’Amore del grande Mistero. E tuttavia è solo con l’apparire della donna che la solitudine di Adamo è veramente vinta. Perché’ nella bellezza del suo sguardo, è come se si incarnasse ciò che del divino è più divino: l’Amore personale. Negli occhi della donna, Adamo trova finalmente un “luogo fisico” nel mondo in cui può sentirsi veramente “a casa”, un anticipo del cielo sulla terra. 

Eppure… eppure tutti sappiamo quanto ambiguo sia il fascino che la bellezza umana esercita su di noi. Quella stessa bellezza che più di ogni altra dovrebbe “innalzarci”, mettendo in moto il meglio di quanto c’è in noi, può allo stesso tempo destare in noi le pulsioni più basse ed oscure: violenta sensualità, possessività, volontà di dominio… 

Come è possibile? La nostra fede ci insegna che questo strano, doloroso fenomeno è dovuto a ciò che chiamiamo “peccato originale”. É come se il cuore dell’uomo fosse stato ferito in modo tale da non saper più comprendere e indirizzare quella brama, quel desiderio che la bellezza risveglia più d’ogni altra cosa. 

Nessuno, che io sappia, ha saputo descrivere questo mistero doloroso meglio di Dostoevsky. Invito chiunque sia interessato ad approfondire l’argomento, a leggere con attenzione l’intero capitolo (in tre parti) “Confessione di un cuore ardente”, dal romanzo “I Fratelli Karamazov”. Noi ne leggeremo insieme solo alcuni brevi passaggi. Chi parla è Mitja, il primo dei tre fratelli. Mitja è un’anima piena di contrasti. Temperamento passionale, sa essere violento e brutale. E tuttavia ha un cuore generoso, capace di profonda compassione. É sensuale e facile alla gozzoviglia. E tuttavia ama Dio e tutto ciò che è puro, con una devozione infantile. Mitja è un’anima tormentata:

I singhiozzi proruppero all’improvviso dal petto di Mitja. Afferrò Alëša per un braccio. «Amico mio, amico mio, mi sento umiliato, mi sento umiliato anche in questo momento. L’uomo deve sopportare un fardello terribilmente pesante su questa terra, troppe sono le sue disgrazie! Non pensare che io sia solo un villano in divisa da ufficiale, che beve cognac e conduce una vita dissoluta. Io, fratello, quasi quasi non penso ad altro che a questo, a quest’uomo umiliato, se solo non mento. Che Dio mi conceda di non mentire e di non elogiare me stesso. Penso a quest’uomo, perché io stesso sono quest’uomo. 

Affinché dall’abiezione dell’ anima

l’uomo possa risollevarsi

con l’antica madre-terra

deve stringere eterno patto.

Ma la difficoltà è proprio questa: come faccio io a stringere un eterno patto con l’antica madre terra? Io non bacio la terra, non le squarcio il petto, dovrei forse mettermi a fare il contadino o il pastore? Io cammino e non so se vado verso il fetore e la vergogna oppure verso la luce e la felicità. Perché è questa la disgrazia: ogni cosa nel mondo è un enigma! E quando mi è capitato di affondare nella più abietta degradazione (e a me è capitato solo questo), ho sempre recitato questi versi su Cerere [5] e l’uomo. Mi hanno mai corretto? Mai! Perché io sono un Karamazov, perché quando spicco il volo verso l’abisso, a capofitto, con la testa in giù e i piedi in aria, sono persino soddisfatto di cadere proprio in una posizione così umiliante e ci vedo sempre qualcosa di bello

“Ogni volta che mi capitava di sprofondare nella più abietta degradazione, recitavo questi versi su Cerere e l’uomo”. Il riferimento è a una poesia di Schiller, in cui Cerere – la dea romana dell’agricoltura e della fertilità rurale – personifica la bellezza della terra, la bellezza del cosmo in quanto fonte di elevazione ed ispirazione. Il povero Mitja, ha cercato spesso aiuto nella bellezza della terra, nella contemplazione della bellezza terrena – che si tratti della natura o dell’arte. Ma non ne ha ricevuto il giovamento promesso da Schiller. La bellezza della terra, la bellezza semplicemente terrena – per dir così, non ha il potere di redimerci, di liberarci davvero. Può persino perderci:

La bellezza, fratello mio, è cosa spaventosa e terribile! Paurosa perché non la si può definire, e non la si può definire perché Dio ci ha dato solo enigmi. Qui le rive si uniscono, qui convivono tutte le contraddizioni. Fratello, sono un uomo rozzo, ma ci ho pensato a lungo. E’ terribile, così tanti misteri! Troppi enigmi opprimono il cuore dell’uomo, qui sulla terra. Risolvili, se puoi! Bellezza! Non posso sopportare che un uomo pur con un cuore nobilissimo e una mente superiore possa cominciare con l’ideale della Madonna e finire con l’ideale di Sodoma (= depravazione). E ancor più tremendo è quando qualcuno che già ha l’ideale di Sodoma nell’anima, non rinnega la Madonna, anzi, il suo cuore continua a bruciare, davvero, davvero brucia per lei come negli anni innocenti della giovinezza. No, l’uomo è grande, anche troppo grande, io lo rimpicciolirei (…) Quello che per la mente è vergogna, per il cuore è tutta bellezza. Ma può esserci bellezza in Sodoma? Credimi, per la grande maggioranza degli uomini è proprio lì, a Sodoma, che si trova la bellezza – conoscevi tu questo mistero? La cosa tremenda è che la bellezza non è solo terribile – è anche misteriosa. È qui che il diavolo lotta con Dio, e il campo di battaglia è il cuore dell’uomo.

Che cosa può dunque liberare il cuore del povero Mitja, se anche la bellezza è divenuta un enigma? Che cosa può sollevarlo dal fango? Ebbene, la risposta che proponiamo è: una bellezza più grande della semplice bellezza terrena – una bellezza ancora più bella della bellezza creata da Dio all’inizio. La bellezza della carne di Dio stesso, la bellezza del Verbo fatto carne:

Tutti gli scrittori che hanno cercato di ritrarre la bellezza assoluta si sono sempre arresi (…) C’è un’unica figura al modo che possiede la bellezza assoluta- Cristo, cosicché il fenomeno di questa sconfinata, infinita bellezza è già in sé stesso un miracolo infinito. Tutto il vangelo di S. Giovanni è una testimonianza a favore di questo: tutto il miracolo consiste nella sola manifestazione della bellezza (Dostoevskij, lettera a Sophia Ivanovna, 1968)

E noi vedemmo la Sua gloria: la bellezza che salva il mondo.

Giunti a questo punto, vi aspetterete certamente che io vi legga qualche passaggio del testé menzionato vangelo di Giovanni. Invece, ciò che mi accingo a leggervi è un altro passo dei Fratelli Karamazov – un passo che del monologo appena letto è in realtà la continuazione. Terminata la sua meditazione sulla bellezza, Mitja passa alla confessione. É successo qualcosa a Mitja, qualcosa che Egli non può dimenticare, qualcosa che lo ha segnato per sempre.

Preso a servizio come tenente in una certa città, Mitja conduce quella che ora non ha vergogna di definire una vita da forsennato, sperperando denaro e seducendo ragazze. Si sparge d’improvviso la voce che la figlia del colonnello stia per giungere in città. E la voce è vera: Ekaterina Ivanovna è il suo nome – ma altro è ciò che colpisce Mitja: la giovane è un’autentica krasaviza, vale a dire un “portento di bellezza”.

Mitja ne è ovviamente abbagliato, ma Katja lo ignora. Ferito nell’orgoglio, il baldo tenente medita vendetta. E l’occasione perfetta non tarda a presentarsi. Il padre di Katja viene accusato di aver rubato una grossa somma di denaro appartenente allo stato. L’accusa è falsa. Tuttavia i suoi nemici hanno incastrato il colonnello: se non procura in fretta il denaro, il venerabile ufficiale dovrà affrontare la corte marziale. Il colonnello non possiede la somma. Ma Mitja sì… donde l’ambigua proposta: egli provvederà la somma a patto che Ekaterina Ivanovna si degni di recarsi a casa sua a prendere i soldi. E Katja, in un impeto di zelo filiale, decide di andare. Senza dubbio la sua è un’azione ad alto rischio, possiamo tranquillamente dire imprudente. Katja capisce perfettamente che recarsi nell’appartamento di Mitja, significa mettere il suo destino nelle mani di un uomo di assai dubbia reputazione. Ella sa che il prezzo da pagare per salvare la vita di suo padre potrebbe essere tremendamente alto. Tuttavia, decide di andare:

A quell’ora ero in casa, era buio e stavo per uscire, mi ero vestito, pettinato (…) avevo preso il berretto quando, all’improvviso, si aprì la porta ed ecco, nella mia stanza Katerina Ivanovna (…) mi fissò con i suoi occhi scuri e risoluti, ma sulle sue labbra, intorno alla sua bocca, aveva un che di spaurito: “Mia sorella mi ha detto che mi avreste dato quattromilacinquecento rubli, se solo fossi venuta a prenderli io stessa. Sono venuta…datemi il denaro…! Non poté continuare, si spaventò, le si spezzò la voce, le tremavano gli angoli delle labbra e le linee intorno alla bocca (…) Il mio primo pensiero fu un pensiero da Karamazov. Una volta, fratello, venni morso da un ragno e giacqui a letto con la febbre per due settimane; in quel momento fu la stessa cosa, potevo sentire il ragno mordere il mio cuore, un insetto malefico…capisci? La scrutai da capo a piedi. L’hai mai vista? Un’autentica bellezza. E in quel momento era bella, ma per un’altra ragione. Era bella in quel momento, perché era nobile, mentre io ero un bastardo; Si ergeva in tutta la maestà del suo sacrificio per suo padre e io ero una cimice. E dipendeva totalmente da me, una cimice, un bastardo, dipendeva totalmente da me, anima e corpo. Nessuna via d’uscita…

“Era bella”, ma per un’altra ragione. Era bella come un’unica cosa può esser bella: la carne di un essere umano, trasformata in pura immagine di Cristo, dell’amore del grande Agnello.

Qui bisogna fare un importante nota bene: non è che Katja si rechi a casa di Mitja con l’intenzione di essere violata da lui. Ciò non avrebbe alcuna bellezza. Il peccato non ha bellezza. Katja va da Mitja con l’intenzione di ricevere da lui il denaro che egli ha promesso di darle. Se Katja verrà violata o meno, ciò dipende interamente dalla libertà di Mitja. In ogni caso, il fatto che ella sia pronta a correre un tale rischio rivela a Mitja fino a che punto il suo amore per il padre è capace di spingersi. E proprio qui sta l’ironico paradosso: la bellezza di questo amore disarmato è tale, che diviene l’arma con cui Katja disarma il suo potenziale aggressore: 

Si ergeva in tutta la maestà del suo sacrificio per suo padre e io ero una cimice. E dipendeva totalmente da me, una cimice, un bastardo, dipendeva totalmente da me, anima e corpo…

Dostoevsky mette in corsivo l’avverbio totalmente (vsia): l’inavvicinabile, la nobile Ekaterina Ivanovna è ora qui, in casa sua, davanti a lui, senza difesa, interamente in balia della sua volontà. Se lo volesse, Mitja potrebbe divorarla in un attimo. Egli sa che la giovane non opporrà alcuna resistenzaEppure, con sua stessa sorpresa, Mitja si scopre paralizzato, incapace di muoversi, quasi che la libera prontezza di Katja a soffrire per amore del padre, gli impedisse di rendersi causa di tale sofferenza

Una furiosa battaglia interiore si scatena a questo punto nel cuore di Mitja. Ma dura solo pochi secondi…

Andai alla finestra, appoggiai la fronte sul vetro gelato, e ricordo che il gelo bruciò la mia fronte come fosse fuoco (…) Mi voltai, andai al tavolino, aprii il cassetto e presi una cartella al portatore di cinquemila rubli al cinque per cento (…) Gliela mostrai, in silenzio, la piegai, gliela porsi, le aprii la porta che dava sull’ingresso e, indietreggiando mi inchinai profondamente con il più rispettoso e il più commosso degli inchini

Il tocco bruciante del gelido vetro della finestra, è evidentemente un simbolo: il volto stesso di Katja è la vera “finestra”, che “raggela” con il suo tocco purificante l’impulso sensuale di Mitja. Per un attimo, davvero il volto di Katja diviene come una finestra, attraverso cui Mitja è messo in presenza della gloria stessa di Cristo. Ed è la visione di questa gloria a liberare Mitja d’ogni bassa passione, trasformandolo d’un lampo nel più generoso dei benefattori. 

Giungiamo così alla conclusione: il modo con cui Cristo attira a sé l’uomo e lo ricrea, è in un certo senso analogo al modo con cui la bellezza disarmata di Katja agisce sul cuore di Mitja. Il Suo maestoso potere risiede nella bellezza della Sua umanità – una bellezza tale che conquista con la pura forza del suo splendore. Come Katja, anche Cristo conquista il cuore abbruttito dell’uomo, prendendosi il rischio di entrare “a casa sua”, per far risplendere, anche in quel luogo oscuro, la gloria della Sua bellezza – la bellezza dell’amore che va fino alla fine (Giovanni 13:1).

A questo punto possiamo rispondere alla seconda domanda: quale bellezza ha il potere di salvare il mondo? La risposta è: la bellezza di Cristo, del “pastore bello” – in Greco l’aggettivo è kalòs, che andrebbe tradotto bello più ancora che buono! – bello in quanto dà la vita per le pecore (Gv 10, 11.14), bello come è bella soltanto la carità vera, l’amore puro, quell’amore che viene da Dio e che Dio rende visibile – poiché Dio, dice san Giovanni, è amore: Deus charitas est.

Un ultimo nota bene è ancora necessario: questa bellezza di Cristo non è qualcosa che si incontra solo leggendo il vangelo o pregando davanti al Santissimo. Né è una bellezza che troviamo solonegli occhi e nei gesti dei grandi santi, come don Giussani o madre Teresa. Katja è tutto fuorché una “santa”: è terribilmente orgogliosa, è una donna molto complicata, come il seguito del romanzo impietosamente rivela. Eppure in quel momento le viene concessa la grazia di diventare per Mitja quasi come un “sacramento”, un segno reale di Cristo, così che è proprio attraverso di lei che la trasformazione di Mitja in un uomo nuovo ha inizio. Dobbiamo qui rileggere più attentamente le già citate parole di Mitja: Può esserci bellezza in Sodoma? Credimi, per la grande maggioranza degli uomini è proprio a Sodoma che si trova (o si fa trovare?) la bellezza – conoscevi tu questo mistero?

Se potessimo leggere il russo, noteremmo più facilmente quanto ambigue siano le parole di Mitja. Siamo di fronte a un classico caso di double entendre. In apparenza Mitja sembra dire semplicemente che la maggioranza degli uomini trova bella la più bassa depravazione. Tuttavia, la stessa frase può anche essere letta come una descrizione del mistero dell’Incarnazione. Di fatto, Dio si è fatto uomo, è sceso a Sodoma esattamente per questo: perché’ anche “la grande maggioranza degli uomini” potesse incontrare la bellezza di Dio proprio lì, nelle buie e misere contrade dove essa vive e dove nessuno mai s’aspetterebbe di trovarvela. Non è esattamente quello che è capitato al buon ladrone? Il suo cuore fu ferito dalla bellezza dell’amore assoluto, proprio nel momento in cui si trovava nel luogo più orrendo che si possa umanamente immaginare. E così morì grato, col cuore gonfio di gratitudine. Appeso a una croce e felice, grato. 

La stessa cosa è vera per noi. Il motivo per cui spesso ci è difficile vedere la bellezza di Cristo non è perché essa non “cammina più tra noi”. Il problema è piuttosto che i nostri occhi sono chiusi, non sono aperti all’imprevisto. Se lo fossero, allora ci accorgeremmo più spesso che questa bellezza è qui, presente nella carne della nostra compagnia.

Non importa quanto tu ti senta sudicio o inadeguato: Cristo è realmente, attivamente presente fra noi, nella carne del Suo corpo misterioso che è la Chiesa, che è la nostra compagnia. Per questo a ciascuno di noi, nessuno escluso! può essere dato, all’improvviso e nei modi più insospettati, di diventare un segno di Cristo per tutti. Si chiama azione dello Spirito! Ecco perché non c’è comandamento più grande nella nostra compagnia che questo: “Guarda! Apri gli occhi!… Guarda, perché non sai con quale faccia la grande Bellezza vuol venirti incontro oggi: 

La compagnia ti dice: “Guarda […] Perché in ogni compagnia vocazionale ci sono sempre persone, o momenti di persone, da guardare. Nella compagnia, la cosa più importante è guardare le persone». Perciò la compagnia è una grande sorgente di amicizia. L’amicizia è definita dal suo scopo: l’aiuto a camminare verso il Destino. [Giussani]

1 Commento

  1. Il titolo di questo articolo e la domanda “che si intende che la bellezza salverà il mondo?”, mi fa pensare al dipinto di Michelangelo Buonarroti sul peccato originale, presente nella Cappella Sistina e che Don Paolo utilizza per spiegare il peccato originale ai bambini durante la preparazione alla prima Comunione.
    Ecco: da una parte vediamo Adamo ed Eva, belli, giovani, felici; da u’altra brutti, chiusi su stessi, “arruffati” e spaventati.
    Bellezza come bellezza di Spirito, di vicinanza al Padre, di anima riconciliata con il Padre. Bellezza che indica una dipendenza dal Padre, bellezza che indica che non possiamo farci da noi, e che se disobbediamo non può esserci. Non può esserci bellezza se crediamo che noi non dipendiamo da nessuno se non da noi stessi, che possiamo fare tutto quello che vogliamo, che la vita non è un dono ma una merce di scambio. Che la vita che cresce in noi è di nostra proprietà e se non la vogliamo possiamo ucciderla. Non può esserci bellezza se non rispettiamo il tempio che ci è stato donato, se non accogliamo con gioia il dono della vita che ci viene donato.

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