Testimonianza di Enrico Craighero – Cesano Boscone, 10 settembre 2017
Io partirei proprio dalla domanda che ci siamo appena fatti. E’ una domanda che mi pongo ogni giorno e quindi la giro anche a voi. La realtà, quella quotidiana, quella che ci capita di vivere ogni giorno, è amica o nemica? Questa è la sfida!
Da giovane ventottenne, sposato da appena un anno e mezzo, sono nati due figli, due figli gemelli handicappati, questa domanda mi è venuta in mente! Certo! Perché me li aspettavo diversi! Non intendo diversi ossia con punte di intelligenza eccezionali! No! Me li aspettavo diversi da come erano, cioè sani!
Per nove mesi ho atteso questo momento per poterli vedere. L’ho atteso come se fosse un momento bellissimo, perché il nostro cuore è fatto per attendere momenti belli. Il nostro cuore è fatto per attendere una bellezza. Nove mesi vissuti così; e da quando avevamo saputo che erano in due anziché uno, la gioia era diventata il doppio.
Che bello! Subito due! Quasi due al prezzo di uno! E’ una cosa stupenda, meravigliosa. E quindi tu attendi con tutto te stesso una cosa bella. Poi quando nascono, non è come immaginavi…
Ma quante volte ci capita così nella vita? Immaginate soltanto la drammaticità di due figli handicappati (mi vergogno anche di parlarne in questi termini, perché oggi sono adulti di 36 anni, stanno benissimo, si godono la vita alla grande -alle volte uno vorrebbe essere come loro per godersi la vita come fanno loro…). Il problema che stiamo affrontando non è l’essere o non essere handicappati, il punto è un altro:
Quante volte nella nostra vita ci capita di aspettare, di attendere una cosa grande, bella, e ce la immaginiamo bella, facciamo dei progetti anch’essi belli, ma poi non è così, non accade così… A quel punto la grande domanda che ci viene in mente è “ma allora è tutta una fregatura???”.
A me è venuta dentro questa domanda quando mi sono nati due figli handicappati. Ma allora tutto quel bene che il mio cuore desiderava, tutto quel desiderio che avevo di dire che la vita era bella, improvvisamente subiva un contraccolpo, un colpo durissimo! Mi è venuta dentro come una sorta di senso di tradimento.
Non so se siete tutti cristiani: io che lo sono, sapevo di aver ricevuto da Gesù Cristo la grande promessa del “centuplo”. E da quel momento è cominciato il mio dialogo serrato con Gesù, e mi son detto: “Minchia che centuplo! Potevi fare a meno di darmi questo centuplo!”
Questa è la sfida che abbiamo tutti davanti: quando le cose non vanno secondo i nostri progetti, secondo le nostre immagini, secondo i nostri desideri, queste cose sono contro di noi o sono per noi? Questa è la questione fondamentale che abbiamo di fronte, e ce l’abbiamo di fronte tutti! Io in un certo modo, ma se ci pensiamo, ognuno di noi ce l’ha di fronte a modo proprio.
Quante volte sarà sorta questa domanda… tantissime volte!
C’è una cosa che vorrei dirvi da subito: quando sono nati i miei figli, ho passato i primi quattro anni della loro vita, quindi quattro anni anche della mia vita, in un modo tale, che la parola che più rappresenta quei quattro anni, oltre alla parola “incazzatura” è proprio la parola “delusione”. Deluso dal desiderio che avevo nel cuore, di vedere quella bellezza. Una delusione che ha fatto di quei quattro anni, quasi quattro anni di disperazione. Io non riuscivo neanche a guardarli i miei figli! Non riuscivo a guardarli… immaginatevi se riuscivo ad amarli… Erano talmente diversi da come li avevo immaginati, da come li avevo concepiti, da come li avevo aspettati, che tutto di me si ribellava.
Quattro anni in cui ti manca l’aria! Non so se si capisce… Quando nella vita ti manca l’aria, è dura la vita. E certa gente che continuava a dirmi: “Devi cercare di trovare una soluzione al problema di questi figli”, come se ci fosse una soluzione al problema di avere dei figli così… Era come se mi dicessero “A te è capitato un campo da gioco, dove giochi la partita della tua vita”, ma non è propriamente un campo bello, erboso, dove il pallone scivola tranquillamente… No! E’ un campo pieno di sassi, pieno di buche! Era come se mi dicessero: “Cambia il campo da gioco!”. Spesso nella nostra vita, questa cosa si affaccia come una tentazione: siccome la realtà non è come te l’aspettavi, siccome la realtà è faticosa, siccome la realtà ti appare drammatica, siccome la realtà porta dentro un dolore nella tua vita, il primo tentativo che ognuno di noi fa, è di non guardare quel dolore, cioè di far fuori quella realtà, ammesso che ci si riesca. E’ un tentativo che facciamo! Ma non è che di per sé sia un tentativo stupido, perché se il nostro cuore è fatto per una bellezza, uno tenta di darsi questa bellezza. Quindi io per quattro anni ho cercato in tutti i modi di edulcorare e rendere un po’ più vivibile quella realtà, e ho fatto tutti i tentativi di questo mondo.
Ne cito soltanto un paio. Il primo è stato questo: siccome sono ingegnere, stavo fuori di casa il più possibile. Cioè non guardavo la realtà. Ed era anche un tentativo giustificabilissimo: dovevo lavorare e portare a casa la pagnotta. Però mi accorgevo che in quei quattro anni, non era solo per portare a casa la pagnotta che stavo fuori di casa. Perché non potevo barare con me stesso.
Oppure, secondo tentativo, è stato quello di pensare che ci fosse qualcuno che si sostituisse a me nella cura dei miei figli (istituti…). Oh, mi vergogno un po’ a dire queste cose, ma ero così. Punto! Mica è un problema. Poi dirò anche che questi sono stati i quattro anni più belli della mia vita! Cercavo un istituto: non volevo abbandonarli, cercavo solo qualcuno che si prendesse cura di loro. Insomma sono stati quattro anni in cui tutti i miei bisogni stavano di fronte a un problema, che era rappresentato dai miei figli.
Guardate che vivere così è veramente un qualcosa di impegnativo, ve lo garantisco. Impegnativo perché è un continuo scappare. E’ un continuo scappare da ciò che c’è. È un continuo cercare di modificare un pezzo di realtà che è lì davanti, ma che tu non puoi vedere. Per cui viene su tutto! Un’ incazzatura, un’inquietudine, una noia (tutto della mia famiglia mi annoiava). Viene su una delusione fortissima! Ma così non è vita. Ho fatto quattro anni di una “vita non-vita”. Lasciate perdere i miei figli: io! ho fatto quattro anni di una vita che non era una vita. E non sapevo più come uscirne. Avevo fatto tutti i tentativi di questo mondo, per poter venir fuori, per darmi un pezzo d’aria, un po’ d’aria, per darmi un respiro, per darmi una parvenza di bellezza.
E non c’era niente da fare. Stavo anche per mettere in atto l’estremo. Pesavo pochissimo (nel senso che ci si consuma).
E allora, cosa deve accadere? Cosa deve accadere, perché cambi questo sguardo sul reale, questo sguardo fatto di malavoglia, di noia, di delusione, questo sguardo, che non è più neanche uno sguardo, perché non riesci neanche a guardarli i tuoi figli… Cosa deve cambiare? Cosa deve accadere, visto che tutto il mio sforzo non è stato in grado di generare uno sguardo che mi facesse abbracciare quel pezzo di realtà?
Deve accadere una cosa semplicissima. Quella che è accaduta a me. Una sera, mentre davo da mangiare a Daniele, e mia moglie Angela, davanti a me, dava da mangiare a Paolo, (di quelle sere, in quei quattro anni, ce ne saranno state 365 moltiplicate per 4… insomma un po’ più di un migliaio… e non era successo niente); invece quella sera, non so perché, io ero lì che davo da mangiare a Daniele, con la mia solita incazzatura, con il mio solito sguardo che vedeva tutto nero; improvvisamente quella sera ho alzato gli occhi, ho incrociato gli occhi di mia moglie. E li ho visti lieti… E’ cambiata la mia vita… Immediatamente è come se fosse venuta su un’invidia di quei due occhi lieti… Immediatamente mi è venuta su una domanda, una grande domanda: “ma cosa vede mia moglie che io non vedo? Perché anche lei vedeva e guardava la stessa realtà che guardavo io. Quella realtà che mi faceva incazzare ogni giorno, che non mi faceva respirare! Quella realtà fatta di quei due figli.
Anche lei guardava quella realtà fatta di quei due figli e aveva due occhi lieti! Ma cosa vedeva lei??? Cosa vedeva che io non vedevo!?!? Un’invidia! Un’Invidia! Perché in quell’istante in cui mi sono accorto di quei due occhi lieti, io li ho desiderati per me! Ho desiderato per me che quello sguardo che aveva mia moglie, guardando la stessa circostanza che vivevo io, potessi averlo anche io; perché noi non siamo fatti per stare incazzati dentro pezzi di realtà seppure duri e faticosi.
Noi siamo fatti per goderla la realtà! Noi siamo fatti per poterla rendere desiderabile la realtà! Fino a quando non vedi due occhi così non ti rendi neanche più conto di che cosa sei fatto. Quella sera guardando i due occhi lieti di mia moglie, io mi sono reso conto, per la prima volta dopo quattro anni, che c’era un modo di guardare i miei figli, diverso da come io li avevo guardati fino a quel momento.
E quel modo ce l’avevo lì davanti. Non era un’idea, non era un pensiero, non era un qualcosa che mi stavo costruendo, un progetto da fare, no! Era un fatto, perché avevo lì davanti una, mia moglie, che già guardava quel pezzo di realtà con quei due occhi, perché ciò che cambia lo sguardo è soltanto un avvenimento, qualcosa che ti capita davanti, non qualcosa che ti costruisci.
Quel modo di guardare, che mia moglie aveva, quello sguardo che mia moglie aveva sui miei figli, non ero io che lo avevo creato, ma ce l’avevo lì davanti. Era un fatto.
A quel punto è chiaro che io potevo dire: “mi sto illudendo!”. Oppure potevo decidere di cominciare a capire e cercare chi aveva reso possibile quello sguardo.
Da quel giorno, da quella sera, sono successe due cose: la prima è che io ho cominciato a spiare mia moglie (non a leggerle gli sms, per paura… no!); ho cominciato a guardarla, a seguirla, tanto era grande il risveglio del mio cuore, tanto quello sguardo, quella letizia, avevano risvegliato il mio cuore, fino al punto di farmi desiderare di essere così come lei. E allora ho voluto seguirla, spiarla, guardarla, per cercare di capire, di capire che cosa o chi aveva reso possibile quello sguardo. E la seconda cosa che è successa da quella sera, è altrettanto semplice: da quel momento ho smesso di cercare di risolvere i problemi.
Da quella sera io ho cercato una sola cosa: quello sguardo! Punto! Quello sguardo che avevo visto in mia moglie. E che poi nella mia vita ho incontrato migliaia di altre volte, in altre persone, in altre situazioni, in altre circostanze. Perché quello sguardo non poteva, non può essere soltanto di una sera di trent’anni fa. O quello sguardo c’è, ora, adesso, o quello sguardo è incontrabile ancora adesso, quello sguardo che ti fa ripartire il cuore, che ti fa guardare i tuoi figli come tu neanche pensavi di poterli guardare, o c’è adesso o sarebbe soltanto il ricordo di una sera, in cui ho incrociato lo sguardo di mia moglie. Ma un ricordo non è in grado di farti vivere adesso. Un ricordo al limite ti lascia dentro una nostalgia. Ma non è in grado di muovere adesso il tuo cuore.
Ed è impressionante come quei quattro anni che ho vissuto come ho descritto prima, da quel momento hanno preso anche loro una luce diversa. Io capisco che spesso passiamo tanto del nostro tempo, tanto della nostra vita, a cercare di eliminare l’incazzatura, l’inquietudine, la delusione, la noia, la nostalgia.
Se pensiamo come cerchiamo di risparmiare ai nostri figli tutto questo… quando abbiamo un figlio che è minimamente inquieto… Nella nostra mente abbiamo un ideale di figli: i figli “peluche”, vogliamo cioè che somiglino a dei peluche, cioè che non rompano le “balle”; vogliamo che come i peluche, si mettano sul divano e stiano lì… Ma quando abbiamo un figlio, magari leggermente inquieto, che fa domande, e che non si accontenta di vivere situazioni normali, che è un po’ agitato, anche un po’ annoiato, noi pensiamo subito che questo figlio vada curato. Tant’è vero che vanno di moda gli esperti: se uno ha dentro un’inquietudine, bisogna portarlo dallo psicologo! Se uno è un po’ “fuori” dalle regole, bisogna dargli più regole. Perché? Perché a noi fa paura l’inquietudine. A noi fanno paura l’inquietudine e l’incazzatura.
Quando uno non è contento di ciò che sta vivendo, di come sta vivendo, noi pensiamo che abbia un problema o pensiamo che bisogna risparmiargli tutto. Tant’è vero che tiriamo su dei figli cresciuti nella bambagia. Siamo supponenti. Invece questa inquietudine -l’ho scoperto in quei quattro anni della mia vita- è la cosa più bella che abbiamo. Non c’è qualcosa di più bello dell’inquietudine…
Perché l’inquietudine dice una cosa semplicissima: dice che tu non sei fatto per essere inquieto! Perché sei inquieto? Perché desideri qualcosa di grande e di bello. Perché sei annoiato? Perché non ti basta nulla di quello che hai; perché hai bisogno di quello sguardo che ho cercato di descrivere prima. Perché quello sguardo è l’unico che è in grado di muovere il cuore. Hai bisogno di quello!
Ma è così difficile trovare questo sguardo? Assolutamente no. Bisogna essere poveri! Bisogna avere tanto bisogno! Come l’ho avuto io in quei quattro anni della mia vita. E come ce l’hanno i miei figli.
Io ho un figlio, Paolo, 36 anni, uno dei due gemelli, non cammina, non parla quindi grazie a Dio, non ho il problema di doverci discutere. Con Paolo non è che devo discutere! Non si riesce a discutere! Parliamo, lo capisco benissimo però, ad esempio al mattino, quando vado a prenderlo per tirarlo giù dal letto, lui mi accoglie con un sorriso enorme. Perché? Perché se non vado io a tirarlo giù dal letto, rimane a letto. E’ un bisogno. Lui ha bisogno di qualcuno che lo tiri fuori dal letto e lo butti nella realtà. Ha bisogno di questo! Proprio perché ha bisogno, mi aspetta. Proprio perché ha bisogno mi aspetta, proprio perché ha bisogno mi attende. Quando uno ha bisogno, attende qualcuno che venga a tirarlo giù dal letto. Attende qualcuno che venga a salvarlo (usiamo questa parola).
Attende qualcuno che gli rimetta in moto il cuore! Ma devi avere bisogno perché questo accada, altrimenti non lo vedi questo sguardo. Se io non avessi vissuto quei quattro anni come ho cercato di descrivere prima, quella sera lo sguardo di mia moglie non l’avrei beccato, non l’avrei preso. Esattamente come mio figlio Paolo, che ha questo bisogno enorme.
Ma non è difficile quindi beccare questo sguardo. E’ semplice! Bisogna essere un po’ handicappati! Cioè bisogna avere bisogno. Bisogna essere poveri. Bisogna rendersi conto che non ce la fai, che non sei tu che ti salvi, che non sono i tuoi tentativi o quello che puoi fare tu a salvarti. Ci vuole qualcuno che venga a tirarti fuori dal letto.
L’altro mio figlio, Daniele, non parla. Non parla ma riesce a muoversi da solo. La più grande soddisfazione è quando lo metto a letto, la sera, quando lui si copre da solo. E’ lì, serafico. Una sera capita di metterlo sotto le coperte, tranquillamente. Lui è lì, sereno e tranquillo, e io dico ad Angela: “Domani mattina vado a trovare un certo amico prete” (che è anche amico di Daniele. Amico perché lo guarda da uomo; Daniele si accorge di essere guardato così, e quindi gli è diventato amico. Poi quando sono insieme, non capisci bene chi è l’handicappato dei due… Quindi si trovano bene insieme, no?).
Immediatamente, dopo aver sentito il nome del nostro amico, Daniele butta via le coperte, salta fuori dal letto e per la gioia ho dovuto fermarlo altrimenti buttava via tutto quello che trovava.
Per me è impressionante questa dinamica. Pensate al vostro letto; ma non solo al letto del mattino, da dove uscire perché vi siete svegliati. Pensate al letto della vostra vita, nella vostra vita, nella vita, nel quotidiano, nello scorrere delle ore, nel lavoro che dovete fare, nella ripetitività di un quotidiano, nella banalità di un quotidiano.
Chi vi tira fuori dal letto? A Daniele è bastato un nome, un nome di un suo amico. E dalla tranquillità in cui era immerso, si è ributtato nella realtà. Io ho imparato tutto dai miei figli… perché non c’è niente di più interessante di questi due piccoli esempi che vi ho fatto. Perché uno deve desiderare che ci sia qualcuno, un nome o qualcuno che viene al mattino: ognuno di noi deve pensare alla propria vita, al punto dove la vita è più difficile, al punto dove è più incastrato, al punto in cui non riesce a uscirne, capito? A quel punto lì! A quel punto è desiderabile che ci sia qualcuno che ti tira fuori? Questa è la sfida. Per i miei figli è semplicissimo: basta uno che vada a tirarli fuori dal letto, o un nome, sussurrato… non un fatto eclatante, un nome sussurrato, ed uno esce da tutto l’incastro, da tutto il sonno, da tutto l’assopimento -oserei dire, per noi adulti, da tutto il rincoglionimento… Allora uno comincia a capire quanto il reale, la realtà, che spesso appare dura, faticosa, nemica invece è proprio amica.
Nel tempo, una realtà dura, come due figli handicappati… ci vuole tempo! Viviamo in un mondo che ha solo fretta. Abbiamo fretta di capire. Abbiamo fretta di risolvere. Abbiamo fretta di consumare, abbiamo fretta! E’ come se noi odiassimo il tempo! Non diamo mai il giusto valore al tempo. Perché è giusto che nel momento in cui ti nascono due figli handicappati, tu possa vedere tutto nero. Possa non vedere un bene. Ma sono qui a dirvi che nel tempo (dopo quattro anni in cui non ho visto niente), nel tempo c’è un istante in cui tutto diventa chiaro. Tu devi stare lì a “beccare” questo istante. Ma siamo sicuri che ci sarà questo istante??? Sicurissimi! Sicurissimi! Devi solo aspettare che accada, ma accade. E una volta che è accaduto, riaccade. E una volta che riaccade, riaccade… Ma io cosa devo fare? Niente! Devi solo aspettare che accada.
La certezza che ciò accada ve la dò perché io lavo ogni mattina i miei figli: avendo 36 anni, ho fatto i conti (gli ingegneri sono un po’ malati da questo punto di vista, mi rendo conto di esserlo…) insomma li avrò lavati circa 15.000 volte. Un mattino, tre mesi fa, ho capito una cosa, ma solo tre mesi fa! Quindi alla 14.700° volta… Al mattino lavarli è abbastanza semplice, li insaponi, seduti e li sciacqui… e così ho fatto per tantissimo tempo!
Una mattina mi cade la spugna (anche perché, diventando ormai vecchio, comincio a non funzionare più bene…). Prima che io la raccolga, Daniele raccoglie la spugna, e comincia a lavarsi. Io guardo stupito questa scena, che avevo davanti da 35 anni e sei mesi e non avevo mai visto… Daniele comincia a lavarsi una gamba! Allora gli dico: “Lavati l’altra!”. E lui si lava l’altra. Poi dico “Lavati i piedi!” e lui si lava i piedi.
Ma vi rendete conto!? Quella mattina io mi sono commosso per questa scena! Perché da un quotidiano ripetuto 14.700 volte, io stavo vedendo venir fuori una cosa che non era mia, che non mi aspettavo. Cioè da un quotidiano che ho ripetuto per 14.700 volte, che in qualche maniera quasi mi annoiava (…tanto lo dovevo fare ogni mattina…), è venuta fuori una bellezza, che mi ha commosso. Le cose più semplici, non quelle eclatanti hanno dentro una bellezza che è lì per essere goduta da te! E tu magari, per 14.700 volte, non le hai viste. Ma una mattina ti cade la spugna, e ti accorgi che tuo figlio è in grado di lavarsi da solo, quasi… è in grado di stupirti… ma bisogna lasciarla venire fuori questa bellezza.
Nello stesso tempo mi sono accorto di quanto noi, spesso, non permettiamo a chi abbiamo avanti, di usare la propria libertà. Io per 14.700 volte non ho fatto usare a Daniele la sua libertà. Semplicissimo. Ma cos’è questa libertà, che poi permette di vedere una bellezza, vedere emergere una bellezza dal reale?
Quest’altra cosa l’ho capita per par condicio, con Paolo. Paolo non sa mangiare da solo. Allora io gli metto il cucchiaio nella mano, e poi metto la mia mano sopra la sua, così lo posso manovrare. Normalmente il “mangiare” è qualcosa che gli devi far fare velocemente, il più velocemente possibile.
Un giorno mi accorgo di una cosa semplicissima (quel giorno avevamo da mangiare il risotto… quando le cose ti colpiscono, ti ricordi i dettagli…): mettiamo il cucchiaio nel risotto e ricordo che per la prima volta ho sentito che la sua mano spingeva la mia per alzare il cucchiaio. Lì ho capito che cos’è la libertà… La libertà è quella mossa! Quella mossa della sua mano che premeva contro la mia per alzarla. Ma lì ho capito anche che cos’è l’educazione. Con i figli “normali” o noi aspettiamo quella mossa, o noi i figli li ammazziamo. Perché tutto è in quella mossa. Tu devi aspettare quella mossa!
Allora si capisce qual è il compito della tua mano sopra la sua mano! Perché lui la mossa della sua libertà ce l’ha. Anche se è handicappato. Ma se non avesse la mia mano, a quel punto prenderebbe e non riuscirebbe nemmeno a centrare la bocca. Disperderebbe tutto. Cosa vuol dire educare? Vuol dire mettere una mano sopra la mano di tuo figlio (o anche fra noi amici), ma aspettare la mossa della libertà dell’altro. Allora accompagni questa mossa di libertà dell’altro, fino a portare il cucchiaio alla bocca. Provate ad immaginare la stessa realtà su figli “normali”, “sani.
L’ultima cosa che voglio raccontarvi è questa. Fino ad ora vi ho raccontato un po’ di me, di Enrico, della mia realtà, della realtà dei miei due figli… ognuno guardi la propria, e veda come il suo io si muove nella realtà che ha da vivere.
Spesso abbiamo l’idea che siamo da soli. Ma non è così. Noi viviamo dentro amicizie, rapporti… compagnie! Per dirvi del valore della compagnia, vorrei raccontarvi l’ultimo episodio, poi non vi annoio più…
Sono in vacanza con un gruppo di amici e siamo a La Thuile in Val d’Aosta. Degli amici mi dicono: “Domani mattina andiamo a fare una gita: andiamo su uno splendido terrazzo, di fronte al Monte Bianco”. Io lo conoscevo benissimo perché c’ero già stato. E mi dicono “Porta anche Paolo!”. Paolo non cammina da solo, ma se lo sostengo davanti, riesce a camminare. Mi dicono: “Ti aiutiamo noi!” bla bla bla… tutte queste cose che sono bellissime, utilissime… Io mi presento ai nastri di partenza, di questa benedetta gita … Insomma la faccio breve: partiamo e al primo tornante sono lì, da solo, con Paolo
Lì non vi dico cosa ho pensato dell’amicizia! Se mi avessero chiesto di fare una lezione sull’amicizia, l’avrei fatta veramente male! Nel senso che lì, a quel primo tornante in cui ero da solo con Paolo, mi è venuta in mente una frase che mi disse quasi 25 anni prima, un mio amico prete. Erano nati da un anno i miei figli, e venendo a casa mia, con una delicatezza che lo contraddistingue, di fronte a me, che dicevo: “però ho degli amici…” mi disse: “Ma che cazzo dici?? Sono tutti cazzi tuoi!! Questi due figli sono tutti cazzi tuoi!!”
In quel momento mi è venuta voglia di mettergli le mani intorno al collo e di privare l’umanità di uno stronzo cosi! Insomma, a questo primo tornante, mi vi è venuta in mente questa cosa che mi disse quella sera questo prete; e lì, forse per la prima volta, ho capito che aveva ragione. Perché lì sei solo col tuo pezzo di realtà. Ma nella nostra vita di tutti i giorni quante volte siamo soli? Tantissime!
Se uno fa i conti del tempo che passa da solo con se stesso o con il reale (il lavoro per esempio), lì di amici non c’è n’è neanche uno. Lì ho capito che la questione importante era decidere se andare avanti o tornare indietro in albergo.
Anche durante l’arco di una giornata, quante decisioni dobbiamo prendere? Se litigare o meno col capufficio? Se fare una cosa o l’altra, ma non solo… anche come guardarla quella cosa.. se darle credito o non darglielo… se sopportare o non sopportare… Se tornare o non tornare in albergo! Mi ricordo benissimo che in quel punto lì, il pensiero era uno: “Io torno indietro, perché in albergo gestisco meglio Paolo!”.
Poi però, l’uomo è fatto anche di queste cose qui; ciò che mi ha spinto ad andare avanti è stato pensare: “A questi stronzi gli faccio vedere che sono capace lo stesso, anche senza di loro!”. Ma nella vita serve tutto! La nostra umanità è fatta bene. Io ringrazio il cielo di aver detto “ma questi stronzi qui…” così almeno sono andato avanti!
E tu arrivi su, al secondo tornate, e lì si somma fatica a fatica, ed il ricordo di ‘sti stronzi che c’è sempre… non mi hanno aspettato… Ma magari ti sorregge anche un’altra idea: l’idea della bellezza di quel posto dove stavamo andando. C’ero già stato: un posto bellissimo. E ti viene voglia di andare avanti.
Al terzo tornante c’erano lì degli amici che mi avevano aspettato. E tu pensi: “Ma allora c’è qualcuno che mi pensa…” Quando sono arrivato in cima, quasi due ore dopo gli altri, mi ricordo di aver visto lo stesso spettacolo, bellissimo, che anche gli altri hanno visto, ma sono convinto di averlo goduto molto di più, perché avevo fatto fatica.
Quindi piantiamola di pensare che nella vita la fatica, il sacrificio, siano contro di noi. Nella vita, la fatica e il sacrificio servono a farci godere di più quello che c’è. E la compagnia a cosa serve?
Io ve la dico così: la prima cosa è che aveva ragione quel mio amico prete: sono tutti cazzi tuoi! Quello che è dato a te, è dato a te! E’ pensato per te! Quella strada, quel pezzo di realtà che hai da vivere, è tuo. Qualcuno l’ha pensato solo per te.
Mi viene in mente quando ai primi anni di catechismo mi dicevano sempre: “Oh la strada per l’inferno è in discesa, larga, asfaltata, mentre la strada per il paradiso è stretta, piena di sassi”… che a te veniva voglia di prendere la strada per l’inferno… Ma lì ho capito una cosa: ho capito che la strada è stretta perché ci passi solo tu! Perché quella strada lì è tua! Non ci passa neanche tua moglie in quella strada lì. C’è qualcuno che ha pensato per te la strada per portarti al destino. Magari è una strada piena di sassi, piena di buche, piena di fatiche, piena di sacrifici. Ma è per te.
E lì ho provato una grande gioia. Perché, forse per la prima volta nella mia vita, ho pensato: “Ma che tenerezza deve avere uno che pensa per te la strada più bella e migliore?”. Solo per te! Mi sono sentito preferito! Preferito! E la compagnia? La compagnia deve stare al suo posto. Non può sostituirti nel cammino che tu devi fare. Ma allora serve a poco la compagnia? No, serve tantissimo!
Io quella mattina, a far quella gita con Paolo non sarei andato, non sarei partito, se non ci fosse stata una compagnia che mi ha sfidato ad iniziarlo quel cammino.
E durante il cammino io la compagnia di amici più cari, la immagino come gli ultras del calcio, che sugli spalti fanno un tifo infernale per te, che stai giocando in mezzo al campo. E fanno il tifo perché tu possa fare quel cammino! Fanno il tifo, non si sostituiscono a te, a fare il cammino. Non sono la compagnia della pacca sulla spalla.
No, ma sono amici che sono lì, a spronarti perché tu quel cammino, anche nei momenti di maggior difficoltà, non smetta mai di farlo. Vi ringrazio.