Voglio gustare tutto fino all’ultimo

Cristiano Guarneri – Tracce

“Quello che non mi ha mai tradito è obbedire alla realtà. Non è il sapere le cose che ti aiuta. È il non scappare. È starci». Nella cucina di casa sua, un pomeriggio luminoso come è raro vederne a febbraio, Giovanni Maffini, detto “Nanni”, mi regala l’essenza del suo cammino di uomo dentro la malattia. Ricordo l’accoglienza, sua e della moglie Edi, fatta di gesti e di parole misurate. Mi offrono tè caldo e biscotti. Lui racconta senza ritrosia, spesso sorride. Ha un tumore al pancreas al quarto stadio. «Ma io provo fastidio a dare il bollettino medico», mi dice. «Non me ne frega, di quello. Mi interessa essere sostenuto per vivere degnamente quello che mi è chiesto. Per arrivare a destinazione».

Io non batto ciglio, ma la percezione interiore è: tsunami. Come fa, quest’uomo di 63 anni, ingegnere che abita a Cremona, padre di cinque figli e nonno di due nipoti, a usare così, con quel tono sicuro ma non presuntuoso, la parola “destinazione”? Si rende conto? E poi quel «mi è chiesto». Da chi ? Per cosa ? Nanni tornerà spesso su quel punto. È il primo fronte della sua lotta. Attraversare tutto senza cedere alla tentazione di “sistemarsi”. Lo scriverà anche a sua nipote Francesca, trappista nel monastero di Vitorchiano, con cui scambia per mesi una corrispondenza fatta di (brevi) aggiornamenti clinici.

Perché? Perché questo insistente lavoro a “stare”? C’è forse qualcosa di buono in un ciclo di chemio? O nelle ripetute infezioni, nelle cure antibiotiche, nel non sapere se vedrai laurearsi Chiara e Stefano, gli ultimi due figli? Perché Nanni e sua moglie Edi mi fanno sedere in cucina preparandomi del tè, anziché declinare con educazione e starsene chiusi in casa, nel loro dolore? Stiamo parlando di un tumore! «Non sto parlando del tumore», mi interrompe Nanni: «Sto parlando della condizione che vivo. Non è in sé la condizione della malattia che è buona o cattiva. È ciò che ti è reso possibile vivere attraverso di essa che io non voglio perdere». Cosa non vuoi perdere? «La verità della mia vita. Ogni volta che non sono fuggito da ciò che avevo davanti l’ho scoperto di più. E la verità è che sono qui non perché “mi sono nato”, o mi sono concepito. Ma perché Dio mi vuole. E lascerò questo mondo non perché il tumore prevarrà sulla mia resistenza, ma perché Lui mi chiamerà».

In questo sentirsi “voluto” sta la forza di Nanni. Non è niente di muscolare. È un abbandono. «Una cosa che non mi è mai successa è stata arrabbiarmi. Perché il giusto e l’ingiusto sono estranei a questa vicenda. Non è che mi hanno sottratto qualcosa che mi è dovuta».

Neanche un momento di cedimento? Mai? «Sempre», dice lui: «È quando fondi la tua vita su qualcosa d’altro che non è il buon Dio. E la difficoltà a riconoscere dove stai andando è grossa. Va a giorni, va a ore». E cosa fai? «Niente. Non sei nella condizione di “fare”. Vieni ripreso. È indispensabile che ci siano dei segni e delle presenze che non lascino scampo. Che ti dimostrino di essere voluto bene».

A Francesca lo aveva già scritto a settembre 2022: «Non mi è possibile cedere al lamento più di tanto, che accade qualcosa che mi ridesta (se voglio) parlandomi». Ridesta a cosa ? Parlarti di cosa ? Del Maestro. Nanni lo rivela in tre stupefacenti righe a chiusura di un’altra mail indirizzata alla nipote: «Spero sempre di avere attorno a me qualcuno che, al momento opportuno, mi dica chiaramente e senza tanti complimenti: “È il Maestro!”, come Giovanni a Pietro sul lago, in modo che, così come sono, possa tuffarmi anch’io per raggiungerLo».

Di questo ha bisogno Nanni. Lo chiama «stuolo di amici che condividono e mi correggono». E in un’altra occasione «i santi amici e gli amici santi», citando anche figure come «i due Giovanni fra cui ero conteso per l’onomastico: il Battista e l’Evangelista. Poi Filippo Neri, Tommaso Moro, Teresa d’Avila, Omobono. E più di recente J.H. Newman e Teresa del Bambin Gesù con i suoi genitori. E anche quelli conosciuti: Giovanni Paolo II, Teresa di Calcutta, il Gius (per ora solo molto venerabile)». Vale davvero la pena mobilitare queste schiere? «A togliere la paura può essere solo una presenza che c’è e di cui io possa accorgermi», scrive sempre alla nipote. Questa scoperta diventa il tesoro più grande. Lo conferma in una mail del luglio 2023: «Sono un uomo ricco: non posso che constatare con gratitudine e meraviglia il bene immeritato che mi circonda». Qualche mese dopo, ancora: «Sono io che devo ringraziare il Signore per tutto il bene che mi/ci circonda da ogni parte, centuplo stupefacente di cui voi (monache di Vitorchiano, ndr ) siete una così bella manifestazione piena di letizia». Ecco cosa guadagna chi “sta”. Si accorge di una ricchezza già presente. Fino a desiderarla sempre. Più di qualunque altra cosa.

Per che cosa preghi, gli chiedo. «Per vivere in modo degno quello che mi è chiesto. Fino al suo compimento». Non è forse un miracolo, questo? La “consegna” più grande. Camminare su una strada che è data, non scelta. Verso una meta che non è «sconfiggere la malattia», ma l’incontro con Dio. Già ora, già qui. «Sentire il Suo odore», scriverà a Francesca, «affondando la faccia nelle pieghe del Suo vestito».

A questo punto, Nanni mi presenta un altro amico santo dei suoi. Prende un quaderno e lo sfoglia. Le pagine sono piene di annotazioni che lo colpiscono. È un esercizio che fa da quattro o cinque anni. «Padre Tiboni ha detto questa cosa bellissima. Eccola: “Per noi la morte non esiste. Ogni giorno il Signore ci chiama a fare la Sua volontà e l’ultimo giorno ci chiama a Lui. Per cui non andiamo incontro alla morte, ma incontro a Cristo”». Poi chiude il quaderno e mi guarda: «Se questa cosa è vera, come fai a chiedere di guarire? Sia fatta la Tua volontà!».

Ovviamente resto zitto. Le mie domande, milioni e milioni dentro di me, si siedono lentamente e aspettano a occhi sgranati che arrivi qualcos’altro. E altro , arriva. Nanni incrina di poco la voce e dice: «Avrei voluto vedere mia figlia Chiara e mio figlio Stefano finire l’università…». Torna in sé e ammette: «Plausibilmente sarà un po’ difficile. È un desiderio buono. Ma l’appropriarsi fino a prendersela col buon Dio, perché? Forse perché pensi che Dio molli i tuoi figli? Che non gli faccia fare la loro strada? Che non gli stia vicino come sta vicino a te? Anche loro sono consegnati a una Sapienza che, per fortuna, non è la nostra».

Nanni è un uomo che vive a occhi aperti . Perfino nei reparti d’ospedale, dove, invece, verrebbe naturale tenerli ben chiusi. Nelle lunghe degenze, si accorge di una cosa che mi confida. «Se tu entrassi lì, vedresti che tutti i pazienti sono chiamati per nome – “Giovanni! Come stai, Giovanni?” –. C’è l’operatore più discreto, quello più disponibile. Ma l’implicazione di sé non va oltre il gesto di chiamare per nome. Tutto viene affidato a una tecnica, persino la relazione con il paziente, così da avere strumenti aggiuntivi per superare l’impasse di un disagio. Ma il disagio non va superato. Va vissuto. Come la malattia: viverla, non rimuoverla!». Mi parla di Enzo Piccinini, del fatto che si debba guardare ad esempi come il suo. «Il medico non è lì per dominare la situazione, ma per dare una mano fin dove può. La sconfitta non è quando non hai più niente da fare, lo è quando non riesci più a guardare chi hai di fronte».

Suona il campanello e la conversazione si interrompe. «È arrivato uno degli artefici della mia esperienza attuale», dice Nanni: «Mio fratello Claudio». Dopo quel pomeriggio ci siamo rivisti solo in poche altre occasioni meno intime. Ci siamo scritti alcune volte, quasi sempre rilanciando una «replica del teuccio con biscottini sfiziosi», come la chiamava lui. Non è più successo.

Il 24 novembre scorso, Dio ha chiamato Nanni a Sé. «Pregate perché impari ad amare la croce», aveva scritto a sua nipote Francesca un anno e mezzo prima. Un desiderio esaudito così tanto che il suo “stare” dentro la vita, in quei lunghi mesi di malattia, fa parlare di Resurrezione. Lo racconta don Marco Genzini, suo amico: «Nanni ha vissuto da risorto. Nella fatica, certamente. Ma quando, verso la fine, gli viene proposta, per tre volte, più morfina, per tre volte risponde: “No”. Perché? “Perché voglio gustare tutto fino all’ultimo”, ha risposto. E stava soffrendo! Se dentro la sofferenza uno dice “voglio gustarmi la vita”, vuol dire che ha incontrato il Risorto e vive da risorto».

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*