Liberiamo il lavoro

don Paolo Prosperi –  Lezione alla convivenza giovani di CL che si è svolta ad Assisi dal 23 al 26 marzo 2023.

1.      In cammino verso la libertà

Tutti gli anni in Quaresima, la Chiesa ci invita a fissare il nostro sguardo sulla grande epopea dell’Esodo di Israele dalla schiavitù d’Egitto alla terra promessa, la terra della libertà, che non è l’America – di cui nella canzone che non a caso ho voluto farvi ascoltare1 – bensì la terra di Canaan, dove «scorre latte e miele».

Potremmo legittimamente chiederci: perché? Se siamo già stati «liberati dal giogo del male», come canta un inno di Quaresima a molti di voi familiare, perché c’è sempre bisogno d’un nuovo esodo? Siamo liberi o non siamo liberi? Ciascuno di noi lo sa e può rispondere per sé: in parte sì e in parte no. E ciò per tante ragioni, una delle quali è il fatto che ci sono tanti Egitti che ci tengono prigionieri, non ce n’è solo uno. Ci sono tante forme di schiavitù nella nostra vita e soprattutto sempre di nuove ne emergono, col mutare delle circostanze e della mentalità che domina l’ambiente in cui viviamo – una mentalità che, come insistentemente sottolinea la Scuola di comunità che stiamo facendo, esercita inevitabilmente un potere seduttivo su di noi, che ce ne accorgiamo o meno. Ogni tempo, ogni momento storico ha il suo “Egitto invisibile”. L’ambiente è cioè caratterizzato da una certa ideologia dominante, da una certa mentalità che domina la società e che diviene per il cristiano sfida, cioè tentazione, prova, e proprio per questo al contempo occasione di maturazione e arricchimento. Perché sempre la tentazione, se attraversata e vinta con la spada del discernimento – per usare un termine caro a papa Francesco – ci rende più consapevoli e forti e perciò paradossalmente ci arricchisce:

È impossibile vivere dentro un contesto generale senza esserne influenzati […]. Nel nostro spirito inquieto e confuso è presente la menzogna della mentalità di oggi cui noi stessi partecipiamo, poiché siamo figli della realtà storica che è l’umano e dobbiamo passare attraverso i disagi, le tentazioni, i risultati amari, mantenendo la speranza che è vita della vita.2

Domandiamoci allora: quale è oggi l’Egitto nel quale più o meno viviamo tutti respirandone l’aria, ci piaccia o meno? Potremmo dire tante cose. Io voglio con voi oggi soffermarmi soprattutto su di un tratto particolare di questo nuovo “Egitto”, che descriverò traendo ispirazione da un libretto di un interessante filosofo coreano germanizzato, Byung Chul Han, che un amico mi ha fatto recentemente conoscere. Il titolo del libro è La società della stanchezza e ne consiglio la lettura specialmente agli appassionati di Vasco Rossi, essendo Han (relata refero!) uno dei suoi pensatori di riferimento. Cominciamo dunque!

2.      Una nuova (eppur antica?) schiavitù: la società della prestazione

Una delle scene che ho sempre trovato più struggenti nel libro dell’Esodo è subito all’inizio, là dove l’autore sacro, con due brevi pennellate, descrive la sofferenza dei figli di Israele in Egitto, costretti a lavorare come bestie da soma, sotto i colpi di frusta degli aguzzini, per costruire le città del Faraone. Ricordo che quando ero piccolo, tutte le volte che vedevo in TV il vecchio film «I dieci comandamenti» di Cecile De Mille, la parte che mi commuoveva di più era proprio quella iniziale, quando si vede questa immensa folla di uomini, inclusi vecchi e bambini, che lavorano come bestie nei cantieri delle piramidi. Ero un bambino, ma chissà perché, al vedere questi esseri umani frustati come muli, mi commuovevo fino alle lacrime, quasi il mio cuore intuisse che in realtà in quelle scene c’era qualcosa che mi riguardava da vicino, anche se non avrei saputo dire cosa fosse:

[11] Allora vennero imposti loro dei sovrintendenti ai lavori forzati per opprimerli con i loro gravami, e così costruirono per il faraone le città-deposito, cioè Pitom e Ramses. […] Gli Egiziani fecero lavorare i figli d’Israele trattandoli duramente. [14] Resero loro amara la vita costringendoli a fabbricare mattoni di argilla e con ogni sorta di lavoro nei campi: e a tutti questi lavori li obbligarono con durezza. (Es 1,11- 14)

Ora, penso che siamo tutti d’accordo sul fatto che questo tipo di schiavitù non è più quello dominante nella nostra società di oggi. Se il marxismo ha fallito, almeno nella sua versione classica, è proprio perché la dialettica servo-padrone, oppresso-oppressore, non sembra più descrivere la realtà della società neoliberale in cui viviamo oggi. L’italiano medio – generalizziamo: l’uomo occidentale medio – ha di solito più o meno potuto scegliere i propri studi (immagino lo possiate dire quasi tutti voi) e spesso anche il proprio lavoro (non sempre, certo). Se si impegna, riceve premi, fa carriera e soprattutto fa tanti bei soldini. I più fortunati esercitano una professione che amano e la possono cambiare se non piace loro, oppure ne trovano un’altra che li attrae di più. È dunque la schiavitù superata? È dunque venuto il tempo in cui l’uomo può finalmente «vivere del lavoro delle sue mani e goderne i frutti», come dice il salmo (Sal 128, 2)? La risposta, secondo il nostro filosofo, è no. Alla schiavitù materiale ne è subentrata un’altra più sfuggente e paradossale ma non meno devastante. Quale schiavitù? In una frase, che però poi dovremo dipanare: la schiavitù della prestazione, ovvero, per usare (come doveroso!) il termine inglese, della performance.

Parte del famoso cambiamento d’epoca che stiamo attraversando, consiste forse proprio in ciò: nel fatto che siamo passati – per dirla con Han – dalla società disciplinare, fatta di obblighi, doveri e divieti imposti dall’ordine costituito (incarnato da famiglia, Chiesa, Stato, etc.), alla società della prestazione, in cui in teoria non ci sono più obblighi, doveri, se non quello di “promuovere” e “innalzare” se stessi, il che essenzialmente significa: fare soldi ed affermarsi socialmente, dimostrando d’esser qualcuno che sa “fare la differenza”. «You are the difference you make in the world», era il grande mantra che risuonava ovunque, quando ero negli Usa: «Tu esisti, sei qualcuno nella misura in cui fai la differenza». Non importa in cosa. L’importante è che la fai.

La società del XXI secolo non è più la società disciplinare, è invece una società della prestazione […]. I suoi stessi cittadini non si dicono più” soggetti d’obbedienza” ma “soggetti di prestazione”. Sono imprenditori di se stessi.3

Si capisce così perché ho parlato di schiavitù paradossale. Paradossale è ciò che sembra contraddittorio, e invece si rivela, a conti fatti, corrispondente alla realtà. Nel nostro caso: quando pensiamo a uno schiavo, pensiamo a un uomo sottomesso a un altro uomo, fino al punto che quest’altro (il padrone) può fargli fare quel che vuole, può cioè sfruttarlo. Ora, nella società della prestazione – sostiene il nostro filosofo coreano – accade qualcosa di diverso, di “paradossale” appunto. Accade cioè che qui l’imprenditore e l’operaio, lo sfruttatore e lo sfruttato sono diventati la stessa persona. Sei tu che ti sfrutti, nel senso che ti sfibri non più per compiacere un altro, ma per obbedire al tuo stesso bisogno di sentirti prestante, bravo, un “grande” (per dirla in breve). E per questo si tratta di una schiavitù in un certo senso più opprimente ancora di quella esteriore del servo o del proletario:

Il tu puoi esercita persino più costrizione del tu devi: l’auto-costrizione è più fatale della costrizione estranea, poiché contro se stessi non è possibile alcuna resistenza. Il regime neoliberale nasconde la propria struttura costrittiva dietro l’apparente libertà del singolo individuo che non si concepisce più come un soggetto sottomesso, ma come un progetto da plasmare. [Tu sei ciò che fai di te stesso, è il famoso ideale del self made man]. In ciò consiste la sua astuzia.4

Ci troviamo, così, – rincara la dose Chul Han – in una situazione paradossale. La libertà è propriamente l’opposto della costrizione: essere liberi significa essere liberi da costrizioni. Ora, questa libertà – che sarebbe il contrario della costrizione – produce essa stessa costrizioni. Le malattie come la depressione o il burnout sono espressioni di una profonda crisi della libertà [proprio quella libertà che sembra essere il valore sommo della nostra società – sostiene Han – quella libertà cui è consacrata la statua simbolo dell’America, è in realtà uno dei valori oggi più in crisi], sono un segnale patologico del fatto che oggi la libertà si rovescia generalmente in costrizione.5

A commento di queste lucide righe, voglio fare due rilievi. Primo, il soggetto di prestazione, che pur sembra non essere schiavo di nessuno,6 è di fatto schiavo, perché egli vive un rapporto col proprio lavoro ed in generale col proprio agire7 in tutto analogo a quello dello schiavo. Lo schiavo vive nella paura e nell’angoscia di sbagliare, perché sa che se sbaglia, se non fa tutto ciò che da lui ci si aspetta, sarà frustato. Il soggetto di prestazione non ha paura della frusta altrui, bensì di quella del suo stesso “ego” (o meglio “super-ego”), che gli dice che se non ce la fa – è una nullità.

Ancora: lo schiavo non gode nel lavorare, perché svolge di norma mansioni umilianti, quando non sfibranti. All’apparenza, il contrario è vero del soggetto di prestazione. Egli si impegna in attività in cui cerca prestigio e gratificazione. Tuttavia, ossessionato come è dall’ansia del risultato, egli finisce ironicamente per non riuscire a godere di quel che fa, anche se magari fa un mestiere che di per sé gli piacerebbe pure. «Impigliato in un irraggiungibile Io-ideale»,8 finisce per essere logorato dal lavoro tanto quanto lo schiavo.9 Di qui, secondo il filosofo coreano,10 la diffusione di depressione e burnout:

Il lamento dell’individuo depresso, “niente è possibile”, è concepibile soltanto in una società che ritenga che “niente è impossibile”. Il “non-esser-più-in-grado-di-poter- fare”, conduce a un’autoaccusa distruttiva e all’auto-aggressione […].11 Il soggetto di prestazione sfrutta se stesso fino alla consunzione (burnout). Ne deriva un’auto- aggressività che non di rado si radicalizza nel suicidio. Il progetto si rivela un proiettile, che il soggetto di prestazione punta contro se stesso.12

Un tragico recente esempio della perspicacia di questa diagnosi, lo abbiamo tutti ancora davanti agli occhi e nel cuore. Come non pensare a quella povera ragazza diciannovenne, che si è tolta la vita nei bagni dello IULM perché si sentiva una fallita. Certo, è sempre sbagliato e riduttivo spiegare una tragedia attraverso il contesto sociale o culturale. Ogni vicenda umana è un mistero unico e irripetibile, nel cui abisso solo lo sguardo di Dio veramente penetra. Tuttavia, la domanda sorge spontanea: come è possibile sentirsi falliti a soli 19 anni, quando si ha ancora tutta la vita davanti? È possibile – mi permetterei di suggerire – se si vive in un ambiente in cui da mattina a sera si è bombardati da un unico, martellante messaggio: tu sei la tua performance.

Secondo rilievo: l’accenno di Han all’astuzia del regime neoliberale, non può che farci pensare all’astuto per eccellenza, il Serpente Antico (Gen 3,1 ss; Apoc 12,9), il “Faraone dei Faraoni”. In effetti, il (neo)liberalismo sembra realizzare meglio d’ogni altra ideologia che l’ha preceduto il sogno d’ogni Faraone che si rispetti, che è quello di avere degli schiavi che non sappiano di esserlo e perciò lo siano di più. Non a caso san Giovanni chiama il diavolo padre della menzogna (Gv 8,44): l’arma del grande nemico di Dio e dell’uomo, da sempre, è infatti l’inganno, il miraggio, la bugia. Ora, dove sta qui il centro dell’inganno? Vengo così al terzo punto.

3.      Alla radice del malessere: il self-made man e la dimenticanza del Dio tutto in tutto

L’errore – diceva Chesterton – è una verità impazzita. È cioè una mezza verità, una parte della verità che viene assolutizzata come fosse tutto. Non a caso la parola Diavolo (da diaballo = dividere) significa divisore. Il Diavolo è divisore di tante cose: dell’uomo da Dio, della moglie dal marito, dell’amico dall’amico, etc. Ma prima ancora – basta leggere con attenzione il racconto della caduta in Gen 3,1-7 per accorgersene – egli è divisore nel senso che istiga a dividere l’una dall’altra le parti della verità totale, portandoci ad ingigantirne una e dimenticarne altre. L’idolatria è questo. L’idolatria non è solo adorare statue e vitelli d’oro.13 È invece anche ed anzi soprattutto l’ingigantimento di una parte, una parte che luccica e attira lo sguardo e che si finisce per identificare arbitrariamente col tutto.

Ora, quale è nel nostro caso la parte di verità ingigantita? Questa: è vero infatti che l’uomo è concepito per poter incidere sulla realtà, per migliorarla con le sue opere; è vero che l’uomo non può realizzarsi, non può assurgere – usiamo un parolone biblico – alla “gloria” per cui è fatto, cioè alla sua statura piena, se non spendendosi, se non lavorando per migliorare la realtà, facendo uso di tutta la sua genialità e creatività. Don Giussani amava citare il salmo 8, per spiegare questa idea:

Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate,

che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?

Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato:

gli hai dato potere sulle opere delle tue mani

Che cosa è l’uomo? Un pulviscolo, sembra un pulviscolo. Eppure, questo pulviscolo è «coronato di gloria» – dice il salmista. Perché? «Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani». Questo pulviscolo è chiamato a collaborare con il Creatore del cielo e della terra a portare la realtà del mondo al suo destino, è chiamato – per usare la stupenda espressione del grande Tolkien – ad essere sub-creatore. Tolkien stesso ha creduto a tal punto seriamente in questa vocazione, che col materiale fornitogli dal «mondo primario», si è spinto fino a creare un intero «mondo secondario», la cui bellezza ha affascinato e non cessa di affascinare milioni di lettori. C’è vocazione più grande di questa? Il racconto della creazione di Adamo in Genesi 2, dice questo in modo simbolico, quando ci racconta che il Signore prima pianta Lui il giardino dell’Eden (Gen 2,8), e poi invita l’uomo a “custodirlo e coltivarlo” (Gen 2, 15). Come dire: il primo lavoratore, il primo giardiniere, il primo “contadino” non è Adamo, è il Signore. Ma ciò per converso significa: coltivare, cioè lavorare la terra, non è un compito da schiavi, come pensavano i Babilonesi, cioè i nemici culturalmente più potenti di Israele14. È invece il più onorevole dei compiti, perché vuol dire imitare il Signore dei Signori, il creatore del cielo e della terra.

Ma qui viene l’inghippo: dire sub-creatore, per stare sul termine usato da Tolkien, significa dire che l’uomo è chiamato a lavorare una terra che in primis non ha fatto lui, che gli è stata messa nelle mani da un Altro. Io non posso fare niente «col nulla» e «dal nulla». Il mio lavoro si applica sempre a qualcosa che non ho fatto io – a cominciare da quel qualcosa che è il mio stesso io, come il don Giuss ci ha sempre ripetuto: «io non mi faccio da me», anche se è certamente vero che anche da me dipende il cercare ogni giorno di migliorarmi, d’essere un uomo migliore.

Ora, perché è importante tenere presente questo? Perché è importante fare memoria di questo, per usare la bellissima formula giussaniana (dico bellissima perché l’espressione fare memoria dice che il non dimenticare è già un’azione, un fare, anzi è il lavoro più importante che ci sia: infatti questo qui seduto alla mia destra che “cosa fa”, il consulente aziendale? No, prima di tutto fa il memor Domini!)? È importante per diversi motivi, ma qui ne sottolineo uno: perché fare memoria di questo (del fatto che ciò che ho per le mani mi è affidato da un Altro) non toglie “gloria”, cioè “peso, importanza” 15 a me e alla mia azione. Piuttosto, è ciò che mi permette di percepire quanto grande sia questa “gloria”. Ciò che dà peso infinito alla mia azione, infatti, non può essere cosa faccio o quanto faccio, perché ciò che faccio è sempre finito. Anche se sono Novak Djokovic e vinco 22 slam, è comunque un numero finito (infatti poi arriva un altro che ne vince 27 e vado in depressione!). Ciò che faccio è sempre finito. Ma io ho sete di una gloria infinita! Di qui quel fare senza mai arrivare alla gratificazione, che conosciamo bene: «Il soggetto – scrive ancora Han – si consuma come in una ruota da criceto, che gira sempre più velocemente su se stessa».16 Ora, c’è qualcosa che può riscattare le mie azioni dalla finitudine, c’è qualcosa che può dare al mio agire un valore davvero infinito? Sì, c’è, come sa chi tra noi ne ha fatto e ne fa esperienza: ciò che introduce il gusto dell’infinito nell’azione – qualunque azione, anche la più umile e piccola – è il viverla come risposta amorosa alla voce dell’Infinito che a quell’azione mi chiama. Il che, in parole povere, significa: vivere la memoria di Dio.

Ora, se vedo bene, alla radice di quello che abbiamo chiamato soggetto di prestazione, sta l’esatto opposto di questa memoria, ovvero la «dimenticanza del Dio tutto in tutto» – per usare la potente espressione della Scuola di Comunità che stiamo facendo. Dove la parola chiave qui è proprio la parola dimenticanza, perché essa descrive con esattezza la dinamica di una negazione che non è teorica, bensì pratica, esistenziale. Si noti che secondo la Bibbia (proprio il salmo responsoriale della messa di ieri sera lo diceva e ridiceva) è il primo di tutti i peccati: il padre, verrebbe da dire, di tutti i peccati. Cosa vuol dire, infatti, dimenticare? Non significa dimenticare che una cosa sia vera ma non pensarci, non guardarla, ovvero vivere come se non fosse. Così, posso andare a messa tutte le domeniche e persino nei giorni feriali, eppure vivere come se Dio non fosse, cioè come se tutta la mia consistenza, ovvero la mia gloria, il mio pondus, ciò che mi dà un “nome”, stesse solo in ciò che ho fatto, faccio e farò io – e non anche in quel che sono al di qua del mio fare. Cosa sono al di qua del mio fare? Sono la “risultante” d’un continuo, elettivo Atto d’amore – continuo perché io non ho ricevuto l’essere 48 anni fa e adesso vado avanti da solo, finché la batteria si scarica. No, io sono continuamente “tratto dal nulla” da un Altro che mi fa, che mi dà l’essere. Bene, dimenticare il Dio tutto in tutto, esistenzialmente parlando, vuol dire questo: vivere come se fossi io a farmi (ecco il self-made man), e non «Tu-che-mi-fai». Dove l’ironia è che il contrappasso di questa dimenticanza è esattamente il venir meno del gusto del fare.

Quali conseguenze abbia questa perdita di gusto, lo sappiamo bene: insicurezza, stress da prestazione, competizione, invidie, gelosie (che detestiamo ma ci sono), incapacità di gioire del successo altrui (cioè di genuina carità verso il prossimo); un narcisismo che corrode come un tarlo non solo il nostro rapporto col lavoro, ma anche con gli altri (che è peggio) – perché se la mia “consistenza” o “gloria” sta nella mia performance, allora avrò continuamente bisogno di qualcuno che applauda e riconosca la mia performance, che mi dica: «sei un grande!» (non accade questo fin troppo spesso anche nei rapporti tra noi?). Gli altri, come nel mito di narciso, divengono specchi in cui hai continuamente bisogno di guardarti, per cercare conferma del fatto che vali. I rapporti si corrodono dal di dentro, ci si usa senza volerlo, anzi contro il proprio volere. Perché uno vorrebbe essere gratuito, puro, sinceramente e gratuitamente appassionato al bene degli altri, e invece si trova addosso questo maledetto bisogno di una affermazione di sé da parte di altri, che si insinua sottilmente in tutti i rapporti rendendoli maledettamente politici, intorbidendoli e rendendoli ambigui. «Me infelice! – viene da gridare con san Paolo – Chi mi libererà da questo corpo di morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!» (Rm 7,24-25).

4.      E noi vedemmo la sua gloria: Cristo via, verità e vita

Chiunque può intuire (anche chi non ha fatto un incontro come il nostro), magari confusamente ma comunque intuisce – che questa vita non è la vita per cui il cuore è fatto. Il cuore vuole altro: «Ciascun confusamente un bene apprende, nel qual si cheti l’animo e disira»17: nel qual si cheti l’animo, cioè trovi riposo, pace, libertà vera. Ciascun confusamente sa d’essere fatto per una ‘gloria’ che è altra dal tipo di gloria che la società di prestazione ci spinge a perseguire – nel lavoro, nei rapporti, persino magari nel Movimento (!), attraverso la ricerca di ruoli ed onori. Quale gloria? Domanda delle domande: quale è la gloria che veramente il cuore desidera? La risposta è semplice, anche se occorre «aver ricevuto una grande grazia», come dice Péguy, perché essa non suoni astratta: quella gloria che Giovanni e Andrea, Simon Pietro e tutti gli altri, hanno visto brillare nella carne dell’uomo Gesù:

E noi vedemmo la Sua gloria, gloria come di Figlio Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità (Gv 1,14c-d)

È nell’uomo Gesù di Nazareth che è finalmente apparsa sulla scena della storia la vita vera, la gloria vera, quella vita e quella gloria che il nostro cuore da sempre desidera, ma che da sé stesso non solo non potrebbe raggiungere ma nemmeno si saprebbe immaginare se essa non gli si fosse parata davanti, come si parò davanti agli occhi di Giovanni, di Simon Pietro e di Andrea suo fratello.

E allora proviamo a dire qualcosa di questa gloria. Per balbettii, certo, ma dobbiamo provare [perché alla fine non ci sono che due cose – come disse una volta don Giussani – di cui vale davvero la pena parlare: lo scopo della vita e la via per arrivarci, la meta e la via].18 E Cristo, come stiamo vedendo nella nuova Scuola di Comunità, l’uomo Gesù Cristo è entrambe le cose: «io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6).

«Io sono la vita» vuol dire: «io sono la meta, lo scopo», perché lo scopo per cui tu sei fatto è entrare sempre di più nella mia vita, cioè nella mia mentalità, nel mio punto di vista sulla donna, sul lavoro, su tutto. Questo è lo scopo, sennò Cristo, la familiarità con Cristo rimane un bel castello in aria, rimane non si capisce bene che cosa».19 Ma Cristo dice anche: «Io sono la via». Sono la via perché è guardando me, seguendo me, rimanendo con me che tu puoi entrare nella mia vita. Così è stato per i primi: «e rimasero con lui tutto quel giorno» (Gv 1,39). Così è per noi. E allora noi dobbiamo aiutarci a guardarLo in faccia questo Cristo. Siamo insieme per questo.

Proviamo dunque, per l’ennesima volta, a immedesimarci, come ci ha insegnato a fare il don Giuss, con i primi che lo hanno incontrato, Giovanni e Andrea. Quante volte don Giussani ci ha invitato ad immaginarci cosa accadde in quel famoso primo pomeriggio che Giovanni e Andrea trascorsero con Lui, quando andarono e videro «dove abitava» (Gv 1,39). Ebbene, permettetemi di osare una variazione rispetto al racconto del don Giuss. Immaginiamo che non lo abbiano solo «guardato parlare». Immaginiamo che Gesù abbia anche mostrato loro l’officina, chiamiamola così, dove aveva passato tante ore, giornate, a volte anche notti, nella sua prima giovinezza, a intagliare sedie, tavoli, aratri e quant’altro, in compagnia di Giuseppe. Va bene, è in effetti improbabile che abbia fatto ciò quel pomeriggio (anche perché è altrettanto improbabile che la casa dove li portò quel giorno fosse a Nazareth, vista la distanza). Ma immaginiamo che lo abbia fatto qualche altra volta, più avanti, quando ormai Giovanni e Andrea erano già suoi discepoli, e lui già aveva cominciato a fare miracoli ed era ormai l’uomo del momento, ricercato e riverito dalle folle. Immaginiamoci la meraviglia, anzi lo sconcerto di Giovanni – che era il più riflessivo, il più profondo tra i discepoli – nel vedere la cura estrema, la meticolosa pazienza con cui il maestro spende una giornata intera a intagliare una sedia – un’unica sedia (!) – che ha deciso di fare per il tal dei tali, quando fuori c’è una folla di migliaia di persone che aspetta di vedere qualcuno dei suoi miracoli. «Ma come, tutti ti cercano!» Invece lui è lì che intaglia, intaglia, intaglia… Immaginiamo Giovanni che si guarda in giro, osserva gli arnesi, uno per uno, e si vede passare davanti agli occhi, come in un rapido flash back, tutti gli anni che Gesù aveva passato lì, nell’anonimato, a piallare tavoli – lui che con uno schiocco di dita poteva sfamare le folle, lui che con il fascino della sua voce poteva stregare il mondo intero. Perché?

Giovanni non capiva. Al momento non capiva. Capì dopo, molti anni dopo, con l’aiuto dello Spirito (cfr. Gv 16, 12-15), perché senza l’aiuto dello Spirito – può sembrare una parentesi ma non lo è affatto – non si capisce nulla di Cristo, e infatti don Giussani ci ha sempre detto che non esiste nessuna preghiera, nessuna giaculatoria per noi più importante di questa: veni Sancte Spiritus, veni per Mariam. Nulla è più importante che mendicare lo Spirito, perché senza il Suo aiuto si rimane sempre nell’anticamera e non si entra nel cuore della questione, si rimane sempre all’inizio e si rivuole sempre la stessa cosa, come i bambini che rivogliono sempre la merendina anche quando hanno lì davanti la bistecca più buona e nutriente del mondo. Ebbene, che cosa Giovanni dopo capì? Capì che la gloria che Gesù cercava, non era come quella che cercavano i farisei e gli scribi. Era una gloria diversa.

Di quale gloria si trattava? «E noi vedemmo la gloria sua gloria come di Figlio Unigenito dal Padre»: era gloria di Figlio, gloria di uno per il quale tutto l’onore, tutto il vanto, tutta la soddisfazione stava nel rispondere al Padre Suo, nel darsi istante per istante al compito che il Padre gli dava, si trattasse di sfamare 5000 persone o piallare un tavolo per il signor X. Come è bello, in questo senso, l’inizio del Padre nostro! «Quando pregate dite: Padre nostro che sei nei cieli». Che sei nei cieli. Perché nei cieli? Perché il cielo è vastità infinita ed insieme è luce, sorgente di luce che illumina le cose. Non so se siete mai stati in Palestina e avete visto come appaiono le sagome delle persone, quando sei nel deserto e hai sullo sfondo l’immensità del cielo. Ecco, Padre nostro che sei nei cieli, significa: Padre, che sei lo sfondo che avvolge di infinito e di luce ogni cosa, il volto della Maddalena come quello del lebbroso, la folla affamata e il legno del tavolo per il signor X.

Tutto per lui era grande, tutto. Anche – ed anzi, bisogna dire tanto più – il compito più nascosto, umile e persino umiliante, mortificante. Perché? Perché «quanto più nascosto, tanto più amore»20 – scrive don Giussani, in una delle sue potenti lettere giovanili ad Angelo Majo. Perché proprio quel compito gli permetteva di sprigionare tanto più «la sua gloria di Figlio», cioè di mostrare fino a che punto fosse Figlio, fino a che punto amasse il Padre; e insieme mostrare il fino a che punto della carità, cioè della passione per il bene d’ogni singolo uomo, che dalla pace di questa Figliolanza erompeva in lui. «Ma dai, Signore, fai un bel miracolo davanti a tutti, perché il mondo creda!» (cfr. Gv 7,4!). E invece no: quest’oggi niente miracoli. Quest’oggi intaglia. Perché oggi intaglia? Perché anche mister X sappia di valere quanto i 5000, perché mister X sappia di valere la giornata del Re.

A dirla tutta, anche il suo modo di far miracoli spesso risultava strano. Come quella volta, quando a Cana di Galilea aveva cambiato l’acqua in vino, il suo primo “grande” segno. Quello con cui – così riporta Giovanni – aveva per la prima volta manifestato la «sua gloria» (Gv 2,11). Peccato che persino tra i presenti alla festa ben pochi avevano saputo cosa aveva fatto, se è vero che chi si porta a casa le lodi del maestro di tavola per aver fornito un così prelibato vinello è lo sposo, mica Lui!21 Uno strano modo di «manifestare la propria gloria»… Tanto strano che vien spontaneo chiedersi: che gloria è mai questa? La «gloria sua, (…) piena di grazia e di verità» (Gv 1,14b). Una gloria diversa da quella che gli uomini cercano, è vero. Eppure, a conti fatti, l’unica gloria davvero «piena di grazia e verità», l’unica gloria cioè che davvero corrisponde al cuore, al nostro cuore.

Quale è la gloria per cui l’uomo è fatto? Secondo la Bibbia, lo sappiamo, la risposta è questa: diventare simile a Dio, assomigliare a Dio (Gen 1,27). Ma cosa vuol dire assomigliare a Dio? Ecco la vera domanda. Di fatto, se Cristo non fosse venuto noi non avremmo che una vaghissima idea di ciò che questo significa. Semplicemente perché «Dio nessuno lo ha mai visto» (Gv 1, 18): «Dio nessuno lo ha visto mai», scrive Giovanni alla fine del prologo del Suo vangelo. Nessuno tranne lui, l’uomo Gesù: «Il Figlio Unigenito, che è nel seno del Padre» (Gv 1,18) – lui ha visto Dio, lo conosce e per questo si muove come uomo nel modo in cui si muove: per imitare quel Dio che Egli ha visto, per riflettere in ogni suo gesto, in ogni sua mossa, la gloria di quel Dio che Egli solo ha visto. E come è questo Dio? Che cos’è alla fin della fiera che Lui solo sa di Dio, mentre i farisei, che pur sanno a memoria tutte le Scritture, non sanno? Che Dio è carità, Deus caritas est, dice san Giovanni.22 Dio è puro dono di sé, traduce don Giussani.23 Quel che Gesù sa e che i farisei e gli scribi non sanno, è che la gloria del vero Dio, è gloria di un Dio la cui gioia, la cui vita non consiste in altro che nel donare tutto il proprio, tutta la Sua sostanza a un Altro, al Figlio. Dio è carità, dono di sé totale. Di cosa gode il Padre? La gioia del Padre è tutta nel dare al Figlio tutto ciò che è suo. È questo che Gesù sa e che i suoi avversari ignorano.

A questo punto, si potrebbe obiettare: ma cosa mi cambia il sapere o non sapere “come è Dio”? Tutto cambia! Perché, come ci siamo detti, tutti aspiriamo a “essere come Dio”, c’è poco da fare. Non solo i farisei e gli scribi, ma anche noi. Coscientemente o meno, è ciò che tutti desideriamo. È sbagliato? No, non è sbagliato. È Dio che ci ha fatto così: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,27), dice la Genesi. Il problema allora è un altro. Il problema è che senza Cristo, senza la grazia dell’incontro con Lui, è come se rimanesse impossibile arrivare a capire che cosa voglia dire «essere come Dio». E ciò avviene, lo abbiamo detto, perché non conosciamo Dio! Gesù invece lo conosce, come Egli ripete continuamente nei dialoghi tesi coi farisei che stiamo leggendo a messa in questi giorni: «Se dicessi che non lo conosco, sarei come voi, un mentitore; ma lo conosco e osservo la sua parola» (Gv 8,55). «Lo conosco, credetemi, lo conosco! E per questo mi muovo come mi muovo, vado dove vado, faccio quel che faccio». È in quanto conosce il Padre che Gesù cerca la gloria che cerca. Quale gloria? La gloria che trova nel servire, nel darsi totalmente perché Giovanni viva, perché Simone viva, perché Andrea viva, così come il Padre trova la Sua gloria nel generare Lui, nell’amare Lui: «Come il Padre ha amato me così ho amato voi» (Gv 19,9a).

Non c’è per me scena in tutti i vangeli in cui tutto questo sia più potentemente ed insieme struggentemente espresso (non a parole, si badi, non a parole ma con un gesto, un’azione) della lavanda dei piedi, così come è raccontata al capitolo 13 del vangelo di Giovanni. E allora finiamo rimettendoci insieme davanti a questa scena, che è davvero l’icona suprema della concezione nuova del lavoro, anzi del gusto nuovo dell’azione, che Cristo ha portato nel mondo e che per osmosi si comunica a poco a poco anche a noi, se abbiamo la semplicità di stare con lui, di rimanere attaccati a Lui, presente nella nostra compagnia:

[2] Mentre cenavano, (…) [3] Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, [4] si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. [5] Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto.

Solo un paio di brevi sottolineature, a commento di queste poche, ma grandiose righe. Prima sottolineatura: «Mentre cenavano»: in Giovanni è sempre nei dettagli, nei particolari in apparenza marginali, che traluce ciò che è più grande. Così qui: non prima della cena né dopo la cena Gesù si alza per lavare i piedi ai suoi, bensì durante la cena – che sembra assurdo, insensato. Ma come? Ti alzi a lavare i piedi ai tuoi nel mezzo del banchetto? «Sì, lo voglio fare nel mezzo del banchetto». Perché? Ma è ovvio! Per dire ai suoi che per lui, per l’uomo Gesù, lavare i piedi ai suoi è un piacere, un’azione che prova gusto nel fare, come prova gusto nel bersi una coppa di buon vino.

Seconda sottolineatura: Sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani (sapendo che era venuto il momento di prendersi il trono che gli spettava, sapendo d’essere destinato a regnare su tutto il mondo) e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, etc. (…).

«Sapendo che»: qui abbiamo uno di quei rari momenti in cui Giovanni è come se ci permettesse di sbirciare per un attimo nel cuore umano di Cristo, quel cuore nel cui intimo lui, il discepolo amato, ha avuto accesso più d’ogni altro – ricordo, per inciso che Giovanni non solo era il più vicino a Gesù durante la cena, ma pure scrive il suo Vangelo sotto ispirazione dello Spirito Santo, per cui non ci racconta frottole. E cosa ci dice? Che il Signore, a un certo punto della cena, è a tal punto dominato dal pensiero che la Sua ora è ormai giunta, l’ora in cui deve portare a compimento l’opera che il Padre gli ha affidato, prima di tornare da Lui, che è come se non riuscisse più a starsene lì seduto, sdraiato. Deve dire ai suoi ciò che sta per fare. Anzi, più che dire deve fare un gesto, un gesto che sia come il simbolo di quel che sta per fare – che è la sua più grande opera, l’opera che gli darà il potere su tutto l’universo, che è la morte di croce (!). E quale è questo gesto? «Si alzò da tavola» – immaginiamocelo, questo Gesù, che s’erge alto, tutto cosciente della sua regale missione – si alzò da tavola e…e cosa fa? «Si spogliò delle sue vesti, si cinse un asciugamano attorno alla vita e si mise a lavare i piedi ai suoi discepoli». Oibò: come stanno insieme l’immagine di questo Gesù che s’alza col piglio d’un sovrano che sembrava stesse per fare chissà cosa ed il gesto da schiavo che poi fa? Stanno insieme perché questo vuol dire per Gesù avere «tutto nelle mani», (Gv 13,3): usare le sue mani “venerande” per lavare i piedi ai suoi.

Ecco: la rivoluzione cristiana, la rivoluzione che Cristo introduce nel modo di concepire non solo il lavoro inteso come professione, ma ogni azione, è tutta qui, in questo cambiamento di prospettiva per cui un’azione che agli occhi del mondo sembra umiliante, mortificante, si riempie di gloria, di grandezza e perciò di gusto – un gusto che è imparagonabilmente superiore anche al più grande successo professionale.

Lasciate allora che vi legga, quasi a coronamento di tutto il percorso fatto, una lettera (l’ho ricevuta ieri) che mi ha mandato un amico di Boston. Si chiama Luca, ed è stato malato di leucemia grave nel periodo in cui la moglie era incinta del loro terzo figlio. Così Luca descrive quel che ha vissuto e imparato nel misterioso tempo della malattia: «Voglio raccontarti l’esperienza che ho fatto negli ultimi due anni circa, da quando, nell’ottobre 2020, mi è stata diagnosticata una leucemia acuta e sono stato ricoverato per chemio e trapianto di midollo, tutto nell’arco di un paio di mesi e quando mia moglie era in attesa da otto mesi del nostro terzo figlio Carlo, chiamato così per il beato Carlo Acutis che ha contribuito alla mia guarigione [peraltro è sepolto qui ad Assisi]. Carlo è nato quando io ero ricoverato in isolamento assoluto, tre giorni dopo il trapianto. Per tanti mesi sono stato debilitato e incapace di fare qualsiasi cosa, come costruire un “lego” con Giovanni, il nostro figlio maggiore che adesso ha nove anni. Mi sono chiesto spesso che valore avessi in quella condizione, in un mondo in cui se non riesci a fare nulla non sei nulla. A tre-quattro mesi dal trapianto per la prima volta mettevo piede fuori in giardino, a mala pena camminavo. Giovanni viene da me e mi dice “dai papà, giochiamo a calcio”. Questo mi ha fatto ri-capire chi sono: per lui ero semplicemente il suo papà. Non aveva nemmeno realizzato quanto fossi debilitato e incapace. Ho capito che uno scopre il suo valore per come è guardato da chi lo ama, che è segno di Cristo che mi ama. È solo nella relazione con un amore gratuito che io capisco il mio vero valore».

Note:

1 The Bay Ridge Band, New Creation, dal CD Spirituals and songs from the Stoop, 1999, © Euro Company.

2 L. GIUSSANI, Dare la vita per l’opera di un Altro, BUR, Milano 2021, pp. 72-73.

3 BYUNG CHUL HAN, La società della stanchezza. Nuova edizione ampliata, Edizioni Nottetempo, Milano 2020, p. 23.

4 BYUNG CHUL HAN, Eros in Agonia, Edizioni Nottetempo, Milano 2013, p. 29.

5 BYUNG CHUL HAN, La società della stanchezza, cit., pp. 109-110.

6 «Il venir meno dell’istanza di dominio non conduce, però, alla libertà. Fa sì, semmai, che libertà e costrizione coincidano. […] L’eccesso di lavoro e di prestazione aumenta fino all’autosfruttamento. Esso è più efficace dello sfruttamento da parte di altri in quanto si accompagna a un sentimento di libertà. Lo sfruttatore è al tempo stesso lo sfruttato. Vittima e carnefice non sono più distinguibili. […] Le malattie psichiche della società della prestazione sono le manifestazioni patologiche di questa libertà paradossale» (BYUNG CHUL HAN, La società della stanchezza, cit., p. 29).

7 Mi permetto di rilevare che l’attitudine che il soggetto di prestazione vive in relazione al lavoro inteso come professione, tende a diventare (oppure viceversa esprime) una postura spirituale e psicologica totalizzante che investe ogni sfera – vita morale, rapporti famigliari, vita sessuale, relazioni sociali etc. Si veda, in merito, BYUNG CHUL HAN, Eros in Agonia, Edizioni Nottetempo, Milano, 2013.

8 Ibidem, p. 95.

9 In gergo marxista, si direbbe che il soggetto di prestazione è alienato non meno dell’operaio dell’Ottocento, perché anch’egli tende ad identificare il valore della propria persona col prodotto del suo fare.

10 Val la pena notare che la Corea del Sud è il paese in cui, se non erro, si registra a tutt’oggi il numero più alto di ore di lavoro pro capite al mondo (o uno dei più alti).

11 BYUNG CHUL HAN, La società della stanchezza, cit., p. 28.

12 BYUNG CHUL HAN, La società della stanchezza, cit., p. 96.

13 Si noti che secondo la Bibbia, tratto distintivo dell’idolo è d’essere fatto dalle mani di chi lo adora: «Fecero un vitello in Oreb e adorarono un’immagine di metallo fuso; così sostituirono la gloria di Dio con la figura d’un bue che mangia l’erba». (Sal 106,19-20). In effetti, ciò è vero a ben guardare non solo dell’idolo in senso proprio (statua, immagine, etc.) ma anche d’ogni altra forma di idolatria, per esempio della donna amata, di un cantante, di una guida politica, etc. In tutti questi esempi, è vero, si tratta di “fabbricazione” metaforica o mentale. Tuttavia, sempre di “fabbricazione” si tratta, posto che nell’identificare la certa persona o la certa cosa con il mio dio, sono sempre io l’artefice della trasformazione di quella cosa o persona non divina in divinità.

14 Anche nei miti Babilonesi, gli uomini sono posti dagli dèi a lavorare la terra. Ma lì lo sono in qualità di schiavi, che fanno il lavoro “sporco” che gli Dei non vogliono abbassarsi a fare. Nella Bibbia tutto è invece capovolto. È Dio che pianta il giardino e lo dona all’uomo perché ne goda, dove il paradosso è che parte di questo “godere” sta esattamente nel fatto d’essere chiamato a collaborare con il Creatore a rendere il mondo un giardino sempre più bello. Mi permetto di rimandare, per un affondo su questo punto, a P. PROSPERI, Sulla caduta degli angeli. Indagine sulle origini del male, Marcianum Press, Roma 2023, pp. 166-168.

15 In ebraico gloria si dice kabod, che significa appunto “peso” (come quando si dice: quella è una persona di “peso”, cioè la cui presenza e parola “pesa”).

16 BYUNG CHUL HAN, La società della stanchezza, cit., p. 87; corsivo mio.

17 DANTE ALIGHIERI, Purgatorio, XVII, vv. 127-128.

18 «Parlare idealmente della vita vuol dire identificare lo scopo della vita e la strada per andarci, che per nulla è pensabile o immaginabile da ognuno di voi, ma è data» (L. GIUSSANI, L’io, il potere, le opere, Marietti 1820, Genova 2000, p. 61).

19 «La fede apre a una mentalità diversa da quella in cui penetriamo tutte le mattine, quando ci alziamo e andiamo fuori di casa (ma anche in casa): una mentalità diversa (la mentalità è il punto di vista da cui l’uomo parte per tutte le sue azioni). (…) La prima incidenza sulla vita dell’uomo che ha l’imitazione di Cristo (…) è una mentalità nuova, una coscienza nuova, non riducibile ad alcuna legge dello Stato o a una abitudine sociale, una coscienza nuova come sorgente e come riverbero di autentico rapporto con il reale, in tutti i dettagli che l’esistenza implica” (L. GIUSSANI, Dare la vita per l’opera di un Altro, cit., pp. 94-95).

20 «L’amore è racchiuso solo nell’azione che stiamo compiendo: qualsiasi azione; e quanto più silenziosa, e limitata rispetto al desiderio irruente ed espansivo del cuore, tanto più “amore”» (L. GIUSSANI, Lettere di fede e di amicizia ad Angelo Majo, San Paolo, Cinisello Balsamo-Mi 2007, p. 38). Anche in una lettera precedente, il giovane Giussani già aveva insistito sulla stessa idea, applicandola allo studio: «Ed ora ritorno ai miei libri: e penso che è dal marzo ad oggi […] che sono curvo sui libri, con una intensità di studio simile perfettamente a quella, così impegnativa, della maturità classica. Son stanco?… Questa limitazione, questa solitudine, questa silenziosa e faticosa rinuncia all’espansione viva dell’irruenza d’affetto che mi rigurgita nel cuore è davvero un grande sacrificio. Lo farei per tutta la vita. Proprio perché è puro sacrificio, acutissimo sacrificio, silenzioso e ignorato sacrificio» (ibidem, pp. 32-33).

21 «E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo e gli disse: “Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono”». (Gv 2,9-10).

22 «La natura di Dio come si spiega, come ci è stata spiegata da Lui, al di fuori di tutte le immagini che le filosofie umane hanno potuto costruire? Una fonte dell’essere che si dona totalmente, e così è generato il Figlio, e in questo rapporto sprizza fuori una energia amorosa e commossa tale quale la loro, che è lo Spirito Santo. E, infatti, san Giovanni dice che Deus caritas est, Dio è amore» (L. GIUSSANI, Si può vivere così, BUR, Milano 2007, pp. 343-344).

23 Cfr. L. GIUSSANI, Si può vivere così, BUR, Milano 2007, pp. 326-329.

 

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