Non è solo una sedia

Charles Peguy – L’Argent

“Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura.

Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali.

E sono solo io – io ormai così imbastardito – a farla adesso tanto lunga. Per loro, in loro non c’era allora neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto.

Un sentimento incredibilmente profondo che oggi definiamo l’onore dello sport, ma a quei tempi diffuso ovunque. Non soltanto l’idea di raggiungere il risultato migliore possibile, ma l’idea, nel meglio, nel bene, di ottenere di più. Si trattava di uno sport, di una emulazione disinteressata e continua, non solo a chi faceva meglio, ma a chi faceva di più; si trattava di un bello sport, praticato a tutte le ore, da cui la vita stessa era penetrata. Intessuta.

Un disgusto senza fine per il lavoro mal fatto. Un disprezzo più che da gran signore per chi avesse lavorato male. Ma una tale intenzione nemmeno li sfiorava. Tutti gli onori convergevano in quest’unico onore.

Una decenza, e una finezza di linguaggio. Un rispetto del focolare. Un senso di rispetto, di ogni rispetto, dell’essenza stessa del rispetto. Una cerimonia per così dire costante. D’altra parte, il focolare si confondeva ancora molto spesso col laboratorio e l’onore del focolare e l’onore del laboratorio erano il medesimo onore. Era l’onore del medesimo luogo. Era l’onore del medesimo fuoco.

Cosa mai è divenuto tutto questo. Ogni cosa, dal risveglio, era un ritmo e un rito e una cerimonia. Ogni fatto era un avvenimento; consacrato. Ogni cosa era una tradizione, un insegnamento; tutte le cose avevano un loro rapporto interiore, costituivano la più santa abitudine. Tutto era un elevarsi, interiore, e un pregare, tutto il giorno: il sonno e la veglia, il lavoro e il misurato riposo, il letto e la tavola, la minestra e il manzo, la casa e il giardino, la porta e la strada, il cortile e la scala, e le scodelle sul desco. Dicevano per ridere, e per prendere in giro i loro curati, che lavorare è pregare, e non sapevano di dire così bene”.

 

2 Commenti

  1. Ho letto una volta che la nostra mente tende ad edulcorare i ricordi eliminando o sminuendo quelli spiacevoli così che il passato si colora di rosa . Avviene così lo stesso fenomeno che gli astronomi chiamano red shift : la luce che proviene dal passato vira verso il rosso . Io credo che per i ricordi ci sia qualcosa di analogo e si possa parlare di ” pink shift ” . Perciò ho dei dubbi sulla bontà del passato rispetto al presente ma se così fosse sarebbe il fallimento totale della Provvidenza . Noi cristiani non crediamo forse che tutta la Storia e le singole storie siano permeate indirizzate e guidate da un disegno superiore ? Quando chiediamo ” venga il tuo regno ” non lo chiediamo forse per l’oggi anzi per l’adesso ? Certo basta aprire il giornale per avere certi giorni seri dubbi sull’operato della Provvidenza ma la storia è fatta anche da noi uomini e il suo non è un procedere rettilineo ma di bolina. grazie per l’attenzione e un cordiale saluto a chi mi legge .
    Paolo

  2. Invio un commento del novembre 2012 di Padre Aldo, pubblicato su TEMPI
    Questo commento è un editoriale che Padre Aldo ha scritto per il bollettino che viene distribuito presso la parrocchia di San Rafael ad Asunción, Paraguay.

    «Un tempo un cantiere era un luogo della terra dove gli uomini erano felici. Oggi un cantiere è un luogo della terra dove gli uomini recriminano, si odiano, si battono; si uccidono. Ai miei tempi tutti cantavano (me escluso, ma io ero già indegno di appartenere a quel tempo). Nella maggior parte dei luoghi di lavoro si cantava; oggi vi si sbuffa». Così, lo scrittore Charles Péguy, nella sua opera Il denaro, descrive i tempi in cui «nel lavoro stava la loro gioia, e la radice profonda del loro essere. E la ragione stessa della loro vita. Vi era un onore incredibile del lavoro, il più bello di tutti gli onori, il più cristiano, il solo forse che possa rimanere in piedi».
    Chi oggi pensa al lavoro umano così? In Italia, che noi definiamo un paese cattolico, il primo maggio hanno celebrato il giorno dei lavoratori e sono emersi come sempre discorsi sul popolo e la “sua tragedia”: il lavoro. Si parla di “rivendicazione”, di sfide, di “lotte” e fino a un certo punto è giusto. Ma questo è tutto? È lo stesso che si chiedeva il mistico scrittore francese, repubblicano e socialista come si autodefiniva. Seguendo le sue riflessioni possiamo trovare un raggio di luce per capire il problema di fondo che ci colpisce come lavoratori oggi.
    «Abbiamo conosciuto un onore del lavoro identico a quello che nel Medioevo governava le braccia e i cuori. Proprio lo stesso, conservato intatto nell’intimo. Abbiamo conosciuto l’accuratezza spinta sino alla perfezione, compatta nell’insieme, compatta nel più minuto dettaglio. Abbiamo conosciuto questo culto del lavoro ben fatto perseguito e coltivato sino allo scrupolo estremo. Ho veduto, durante la mia infanzia, impagliare seggiole con lo stesso identico spirito, e col medesimo cuore, con i quali quel popolo aveva scolpito le proprie cattedrali», esclamava poeticamente Péguy.
    Cos’è in fondo la critica dello scrittore, se non la denuncia dello spirito che oggi domina le nostre relazioni lavorative nel nostro paese, dove ci inorgogliamo quando lavoriamo meno rispetto agli altri ma portiamo a casa uno stipendio più alto, dove quando si fa un briciolo di carriera abbiamo già la necessità di una segretaria e dell’autista per sottolineare il nostro status di lavoratori di classe A? Molte volte proviamo vergogna per i lavori manuali, per non parlare di quello collegato alla cura della casa, come se fossero impieghi deplorevoli. La mentalità borghese non è solo quella che domina tra la gente altolocata, ma anche nel popolo si vede e si sente questo stesso modo di pensare, si osserva questa posizione di fronte al lavoro.
    «Il popolo non esiste più. Tutti sono borghesi. Quel poco che sopravvive dell’antica aristocrazia, o meglio delle antiche aristocrazie, è divenuto una borghesia meschina. L’antica aristocrazia è diventata anch’essa una borghesia del denaro. L’antica borghesia si è trasformata in una borghesia squallida, una borghesia del denaro. Quanto agli operai, hanno ormai un’idea soltanto: farsi borghesi», accusava in maniera decisa Péguy. Tutto il male è venuto dalla borghesia che ha cominciato a trattare il lavoro dell’uomo come un valore di borsa e il lavoratore ha cominciato, a sua volta, a trattare come un valore di borsa il suo stesso lavoro. Oggi viviamo in un regime di giochi di borsa e di perenni ricatti. Che distanza dalla descrizione del lavoro cristiano: «Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali».
    Che bellezza si trova nel lavoro dell’uomo fedele a se stesso! Qualsiasi sia il settore del proprio lavoro: ufficio, ambulatorio, cucina, confessionale, opera di costruzione… Il lavoro è un motivo di allegria per l’uomo. Un’espressione del suo essere. Una collaborazione personale, cioè umana, all’opera divina della creazione. Quegli operai si sarebbero sorpresi molto se gli fosse stato detto che alcun anni dopo i loro compagni si sarebbero messi d’accordo per lavorare il meno possibile.
    Quegli operai provavano, continua Péguy, «un disgusto senza fine per il lavoro mal fatto. Un disprezzo per chi avesse lavorato male. Ma una tale intenzione nemmeno li sfiorava».
    Allontaniamoci per un momento dal discorso, dalla teoria, dall’ideologia, dalle chiacchiere che sovrabbondano in questi giorni sui lavoratori e i loro “oppressori”. Guardiamo per un istante la nostra realtà: ciò che diceva Péguy continua a essere vero ai nostri giorni. Se fossimo sinceri, ammetteremmo che uno dei più grandi fallimenti del nostro tempo è che abbiamo perso il senso e il gusto del lavoro come espressione allegra del nostro io. È come se dovessimo mettere al sicuro qualcosa, un asso nella manica. Vivo è colui che trionfa senza sforzo, con abilità, senza passione, senza lavoro. Tutto è subordinato al denaro: gli orari, i vestiti, i progetti. Certo che il denaro è importante. Questo strangolamento, che sentiamo da parte del potere borghese, ci fa desiderare perfino ciò che ben sappiamo non potremmo raggiungere neanche in tre vite. Cose, denaro, molteplici oggetti a cui attribuiamo valore, come se fossero dei. La vanità invade i cuori della gente che vive nei quartieri esclusivi, come pure i cuori di coloro che chiudono la loro abitazione con pezzi di cartone. Il nostro modello è sempre il “primo mondo”, i famosi paesi sviluppati, un mondo forgiato per anni grazie al lavoro delle persone, tra cui molti cristiani, che vedevano nei loro sforzi creativi qualcosa di molto più importante del prestigio o dello stipendio: era il bene comune.
    Ma cosa sta succedendo in Europa? Tutta questa crisi finanziaria a livello mondiale è la prova dolorosa del fatto che in economia, nella finanza, nel mondo del lavoro non si può sostenere un sistema umano senza tener conto dell’umano. In Irlanda, per esempio, il governo sta spronando i lavoratori disoccupati a ritornare a imparare professioni che nessuno faceva più: muratore, macellaio, calzolaio… Stanno ritornando a valorizzare il lavoro, perché la speculazione finanziaria dei super uffici e delle limousine è crollata, e sta crollando in molti altri paesi del mondo. In Europa sono centinaia di migliaia le persone licenziate. E cosa stanno capendo? Che bisogna ritornare alle radici se vogliono uscire da questa crisi! È necessario rivalorizzare il lavoro, la famiglia e la fede: fonti genuine di ricchezza sociale e materiale.
    Continuiamo a sognare la costruzione di un paese ideale, ma lo facciamo con discorsi, senza sacrifici, senza lavoro onesto, o peggio anche a forza di un puritanesimo che accusa la corruzione, come se ci fosse un uomo che scappasse dalla miseria del peccato originale. Così non si costruisce un paese. Se ogni cattolico si mettesse oggi di fronte allo specchio trasparente di Cristo, figlio di Giuseppe, il falegname di Nazareth, potrebbe vedere come Zaccheo che avvengono molte truffe, molti furti, che è diffuso l’ozio, che c’è molto da rettificare a livello lavorativo. Con l’aiuto di Dio tutti possiamo fare questo passo.
    È sicuramente necessario un cambiamento radicale, ma non per spodestare gli imprenditori e stabilire una dittatura del proletariato, come alcuni antiquati intellettualoidi propongono, ma per prendere sul serio ciò che, in maniera molto rigida, consigliava san Paolo: «Se qualcuno non vuole assolutamente lavorare, non mangi». Ed è lo stesso che con nostalgia descrive lo scrittore francese ricordando i lavoratori cristiani: «Dicevano per ridere, e per prendere in giro i loro curati, che lavorare è pregare, e non sapevano di dire così bene».

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