Siamo come i fiori!

Davide Prosperi – Introduzione al libro “Chiedimi se sono felice”

È così perché si manifestassero in lui le opere di Dio

“Chi ha peccato, lui o i suoi genitori?” chiede a Gesù uno dei suoi discepoli, evidentemente turbato al pensiero di quanto miserabile dovesse essere la vita di quell’uomo, che, nato cieco, chissà da quanti anni s’era ridotto a passare le sue giornate standosene accucciato lì, nei pressi della piscina di Siloe, a mendicare.

A ben pensarci, la domanda dei discepoli non è poi così offensiva ed assurda come può sembrare. Immedesimiamoci in Pietro, Giovanni, Tommaso e tutti gli altri della combriccola. Da buoni figli di Israele, cresciuti a pane e Scritture, i discepoli sanno che il Dio che ha creato il cielo e la terra, il Dio che dà la vita ad ogni vivente, è un Dio giusto e buono, un Dio che non vuole che il bene dei suoi figli. Ma se così stanno le cose, perché allora questo figlio di Israele è nato cieco? Per quale ragione l’Onnipotente lo ha condannato ad una esistenza così grama, prima ancora che egli potesse commettere peccato? Giustamente desiderosi di trovare una risposta all’enigma – come è più facile, di fronte al dolore innocente, voltarsi dall’altra parte e non pensarci – i discepoli presentano a Gesù la spiegazione che pare loro più plausibile: se non è lui ad aver meritato un tale castigo, di certo sarà colpa dei suoi genitori. La risposta di Gesù, come spesso accade, è spiazzante:

«Né lui ha peccato né i suoi genitori: è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio” 

Gesù non si attarda a spiegare le cause prossime e remote dell’infermità del poveruomo. Certo, avrebbe potuto farlo. Avrebbe potuto, per esempio, parlare del mistero del peccato originale e delle sue conseguenze sul genere umano. Oppure avventurarsi in una spiegazione scientifica (difficilmente afferrabile dai suoi, presumo, viste le conoscenze dell’epoca) delle cause biologiche della malformazione. E invece non lo fa. Ribalta la prospettiva: quel che sembra maledizione – poiché non c’è dubbio che nascere ciechi cosa buona non è – Dio ha il potere di trasformarlo in benedizione, cioè in una circostanza che paradossalmente “concorre” a fare di quest’uomo lo strumento eletto da  Dio per il manifestarsi di opere grandi, meravigliose: “è così perché in lui si manifestino le opere di Dio, la potenza di Dio, l’agire di Dio”.

Di quali opere si tratta? In apparenza la risposta è facile: non sta Gesù stesso per guarire gli occhi del poveruomo? E non è proprio questo miracolo la grande opera che Dio aveva da sempre deciso di compiere in quest’uomo?

A parte l’amaro in bocca che questa risposta ci lascia, se non adeguatamente rimpolpata – dunque il riscatto dal nonsenso di tutti quegli anni di umiliazione e miseria, starebbe nel fatto d’offrire al Messia il “materiale” per dimostrare a tutti la Sua “gloriosa maestà” di guaritore? – mi pare ci siano più indizi che Gesù intenda qui dire qualcosa di più.

E tornò che ci vedeva

Primo, colpisce il fatto che Gesù parli di “opere” al plurale, e non di “opera” al singolare.

In effetti, mi pare giusto chiedersi se la vista fisica sia l’unico dono che quest’uomo riceve nell’incontro con Gesù. A giudicare da quel che vediamo accadere in seguito, direi di no. “Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva”. Certo, il primo motivo di stupore e gioia per quest’uomo che mai aveva visto il mondo fino a quel giorno, deve essere stato il fatto puro e semplice di “cominciare a vedere la realtà” – nel senso più letterale e materiale possibile. E tuttavia, insieme e per così dire attraverso questo dono, l’uomo ne riceve d’un colpo anche un altro: egli si scopre amato, prezioso agli occhi di Dio. Egli non è un maledetto, un aborto, un insetto. No, egli è un figlio prediletto dell’Altissimo – un principe. E come tale infatti immediatamente dopo si comporta, quando interrogato dai capi e principi del popolo tiene loro testa, dimostrando una intelligenza ed un coraggio da leone. Così comprendiamo: sì, guarendogli gli occhi del corpo, il Signore ha donato a quest’uomo una vista ancor più preziosa di quella fisica: gli ha restituito la consapevolezza della sua dignità, della sua identità di figlio dell’Altissimo: “e tornò che ci vedeva”.

Non è quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?

Ma non è finita qui. Ad una lettura attenta del seguito della vicenda, ci si accorge che la guarigione del cieco non è l’unica “opera” di cui ci vien dato conto. L’Evangelista Giovanni, infatti, non ci parla solo dell’opera compiuta da Gesù. Ma anche delle “opere” compiute da qualcun altro, e cioè appunto il cieco nato. Per cominciare, non ci deve sfuggire il fatto che Gesù compie il miracolo non senza la collaborazione del poveruomo, se è vero che per riavere la vista egli deve compiere un’azione tutt’altro che facile: fidarsi di un “medico” che pretende di guarirgli gli occhi cospargendoli di fango (!) – gesto cui il povero cieco, che probabilmente di medici ne aveva conosciuti, avrebbe avuto il diritto di reagire non solo con scetticismo, ma anche con rabbioso dispetto. Immedesimiamoci, cerchiamo di immaginare quanto difficile dovesse essere per quest’uomo lasciarsi “toccare gli occhi” da chicchessia – quegli occhi che incarnavano, per così dire, tutta la sua vergogna, la sua miseria, la sua più intima umiliazione. Ed ecco che questo sconosciuto, questo Galileo, non solo osa toccarglieli, ma vi spalma sopra del fango, la materia più sporca e vile che esista – fango peraltro prodotto a suon di sputi (!) – quasi a gettare sale su una ferita aperta… Insomma, se l’uomo si fosse ritratto sdegnato, non credo nessuno avrebbe potuto biasimarlo. Ma non è ciò che vediamo accadere. L’uomo lascia fare, docile come un bambino. E quando Gesù gli ordina di andarsi a lavare alla piscina di Siloe, obbedisce senza esitazione, “domando” in un baleno le onde dello scetticismo e dell’orgoglio, che certamente dovettero assalirlo in quei pochi cruciali secondi.

C’è da stupirsene? Si, ma forse anche no. Non era stata proprio la “vita dura” che aveva fino ad allora avuto in sorte, a “prepararlo” a questo grandioso atto di umile fede? Non era stata proprio la sua malattia a costringerlo a sviluppare quei “muscoli” che di norma rimangono assai mosci nell’uomo cosiddetto sano – il “muscolo” dell’umiltà e quello della fede? Della sua vita di prima, in effetti, il vangelo ci dice di fatto due cose solamente: che era cieco e che era un mendicante, il che significa: uno che per vivere doveva affidarsi interamente – anzi ciecamente, nel senso letterale del termine – all’aiuto del prossimo (Gv 9, 8).

Cominciamo così a capire in che senso quei lunghi anni di  “minorità”, non erano stati poi così “maledetti” come i discepoli s’erano immaginati, nel vederlo lì accucciato come un

cagnolino: quell’uomo, apparentemente ridotto ad una larva, aveva invece segretamente affinato, giorno dopo giorno, forse senza neanche accorgersene, la capacità di compiere con naturalezza “opere grandi” – azioni che ai cosiddetti normo-dotati risultano estremamente ardue.

Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?

Ma non è ancora finita. Giovanni ci racconta anche di un’altra, non meno impressionante “opera” compiuta dal nostro uomo – vi abbiamo già accennato: la testimonianza intrepida e intelligente da egli resa di fronte ai capi del popolo, scribi e farisei. C’è qualcosa di ironico nel fatto che questo poveruomo nato cieco sia l’unico in  tutta  Gerusalemme,  almeno stando a quanto leggiamo nel IV vangelo, capace non solo di distinguere con chiarezza la verità circa questo Gesù Nazareno di cui in città tutti parlano, ma anche di dirla davanti a tutti – di dire pane al pane e vino al vino, senza lasciarsi confondere dalle parole dei capi e dei dotti. Lui, cieco dalla nascita, si ritrova ad essere l’unico che davvero ci vede. Lui, il disabile, il mendicante, da sempre abituato a dipendere in tutto da altri, si dimostra a conti fatti il più libero, l’unico pensatore veramente “indipendente”.

Ma anche qui: è ciò poi così strano? Non è proprio il fatto d’esser uso a “star seduto più in basso di tutti”, a far sì che il nostro uomo si trovi nella privilegiata posizione di colui che non ha alcun “seggio d’onore” da difendere? È vero, egli è agli occhi della società un “nessuno”. Ma proprio per questo di nessuno ha paura. È vero, egli ha passato tutta la vita seduto che più in basso non si può. Ma proprio per questo, non avendo “alcun seggio da perdere”, egli ha il potere di ergersi più alto di tutti nella difesa spassionata del vero.

Ci si potrà chiedere cosa c’entrino queste riflessioni sul vangelo del cieco nato, con il libro di cui mi è stato chiesto di scrivere la prefazione. In apparenza ben poco. In realtà molto, a mio avviso.

In apparenza poco, perché nelle testimonianze raccolte in questo libro si parla sì di disabili, cioè di figli e figliole che come il cieco nato sono portatori di malattie congenite. Ma non si legge – eccetto che in un caso peraltro tutto particolare – di guarigioni miracolose, né tantomeno di ciechi che riacquistano la vista. In realtà molto, perché ad  una  lettura accorta, ci si accorge che in effetti proprio e quasi solo di “guarigione di occhi” in questo

libro si parla. Non tanto degli occhi dei tanti disabili di cui facciamo la conoscenza scorrendo le pagine del libro. Quanto di quelli dei loro genitori, parenti, amici – dei molti che poco o tanto il destino chiama ad accogliere queste creature, a prendersene cura o anche solo a “trovarsi davanti” al mistero della loro esistenza. È essenzialmente questo, mi pare di poter dire, il grande miracolo, la grande opera di Dio di cui in modi e con accenti diversi, parlano le testimonianze raccolte in questo volume. Attraverso il “dono terribile” di questi figli, spesso così difficili da accogliere – come più testimonianze, con commovente sincerità e realismo sottolineano – Dio opera nel tempo un cambiamento profondo in chi è chiamato a camminare con loro, una purificazione degli occhi e del cuore. Introduce cioè ad un modo nuovo di vedere non solo questi figli medesimi, ma anche se stessi, il senso della vita stessa. In che senso? Si potrebbero dire in merito molte cose. Mi permetto di sottolinearne alcune – quelle che hanno colpito me, nel venire a contatto con gli amici dell’associazione Mongolfiera, prima e più ancora che leggendo il libro. Come si vedrà, almeno le prime tre sottolineature, richiamano da vicino quanto abbiamo osservato sopra, meditando sul vangelo del cieco nato.

Noi siamo come i fiori

Primo, il contatto col mistero della disabilità, costringe, volenti o nolenti, a “stare”, nel senso forte del termine (il vero “stare” implica tempo, ore, giorni, anni…) di fronte ad una domanda, la cui risposta troppo spesso tendiamo tutti a dare per scontata: dove sta la dignità, il valore della singola persona umana? La risposta che la mentalità oggi dominante tende a inoculare in noi – che ce ne accorgiamo meno – è più o meno nota: tu sei la tua performance, il tuo valore sta in quel che sei capace di fare, di “realizzare”. Tu sei la tua azione, tu sei “grande”, nella misura in cui “fai la differenza”, sai “fare qualcosa” di utile al mondo, qualcosa che ti dia un “nome che pesa”. Il disabile, come la  parola  stessa suggerisce, può fare molto poco, a volte quasi nulla – a volte addirittura proprio nulla, se non pesare sulle spalle degli altri. Ebbene, proprio in questo, mi pare, sta il primo, paradossale dono della sua presenza. Nella sua impotenza, nella sua apparente inutilità, egli rende il servizio più grande: ci rivela a noi stessi, rende per così dire più trasparente, più nudamente e crudamente trasparente, la radice ultima e più vera della nostra – in effetti infinita – dignità: “che giova all’uomo guadagnare tutto il mondo se poi perde se stesso? O che darà l’uomo in cambio di sé?”. Certo, noi siamo anche fatti per agire, per lavorare, per collaborare con Dio alla costruzione di un mondo migliore. Ma c’è qualcosa che viene prima, “qualcosa” che non va dimenticato, che va messo e rimesso al centro del nostro sguardo, pena il pervertirsi d’ogni nostra azione, di tutto il nostro “fare” in un ansioso, ultimamente alienante sforzo di sentirci esistere, di sentirci importanti, di sentirci “qualcuno”. Questo qualcosa è la memoria del fatto che ciò che fa  di questo misero grumo di carne che io sono  un principe, un qualcuno di infinitamente nobile, è il fatto che io – sì, proprio io – sono stato scelto, voluto e scelto da un amore eterno: “Ti ho amato di un amore eterno”. Dio non mi vuole “in funzione di”, io non sono il pezzo di un ingranaggio. Certo, egli mi dà anche una missione. Ma innanzitutto Egli si compiace che io sia – è felice che io sia, che io esista davanti a Lui, come ci si compiace che esista il fiore, come da bambino io mi compiacevo, ero felice che esistessero gli stambecchi, quando li vedevo balzare tra i crepacci, vicino al rifugio Mezzalama.

A cosa serve un fiore, la bellezza di un fiore? A nulla, se non a dimostrare la gioia del Mistero nel donargli gratuitamente di essere. Ecco, il disabile è come il fiore. La sua missione è ricordare a tutti ciò che fa di un uomo un principe, non è innanzitutto il suo essere “performante”, il saper fare questo o quello, ma il fatto di essere il termine di una eterna elezione: “Non rallegratevi però perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli (Lc 17, 20). Dice tutto questo assai meglio di me Chiara, una ragazza affetta da polimicrogiria perisilviana, di cui mio fratello prete mi ha passato  una commovente poesia:

“Il fiore non è solo per bellezza, ma anche parla alla vita. Noi siamo come i fiori”

Noi siamo come i fiori – io sono come un fiore, dice Chiara – una ragazza di 23 anni che tutto ha avuto in sorte tranne che una vita facile e serena. Eppure può dire questo e lo può dire perché si sa amata, si sa fiore negli occhi di qualcuno. Può dire questo, perché anche lei, come il cieco nato attraverso Gesù, ha scoperto, attraverso il tocco delle mani, degli occhi, della voce dei suoi genitori, delle sue sorelle, dei suoi amici, di essere preziosa, amata.

Sanno bene che fanno tutto e più di tutto

Ma facciamo un passo in più. Ho detto sopra, che in certi casi questi figli “speciali” possono fare poco o nulla. Mi devo correggere: dipende da cosa si intende con “fare”. C’è in realtà un tipo di attività in cui essi spesso raggiungono livelli di eccellenza: come il cieco nato, essi conoscono l’arte della mendicanza. Soprattutto sanno mendicare  amore,  attenzione, affetto. Quel che Peguy dice del bambino, è vero del disabile all’ennesima potenza. Egli conosce, in un  senso assai  più drammatico e  radicale che neanche il bambino piccolo, l’arte del puro dipendere. Ma proprio per questo è assai più vero di lui, quel che Peguy dice nel suo grandioso Portico della seconda virtù,  parlando di  quella  paradossale  generosità che è caratteristica del bambino.

“Ah, sono in gamba loro. Fanno finta di non far nulla, i birboni. Sanno bene quel che fanno – gli innocenti. Agli innocenti a piene mani. Sanno bene che fanno tutto e più di tutto.  (…) Con la loro aria innocente. Con la loro aria di non sapere nulla. Di non sapere.”

Il bambino, dice Peguy, “sa bene” che è proprio nel chiedere, nello slancio fiducioso del puro chiedere, che egli fa la felicità della sua mamma, che le dà gioia: la gioia di essergli madre. Egli sa, che nell’accettare il suo ruolo di bambino, di puro ricettacolo, per così dire, egli fa tutto e più di tutto: si dimostra figlio e dà alla sua mamma la gioia di dimostrarsi madre, di darsi per lui. Lo stesso è “esponenzialmente” vero di quel bambino al quadrato che è il disabile. Tutto in questi bambini sembra passività, puro bisogno. Eppure, nell’ascoltare la testimonianza di molti tra i genitori che nel tempo hanno imparato ad accoglierli, si ha l’impressione dell’opposto. Si ha l’impressione che siano loro i beneficati, e i loro figli i benefattori. Cos’è che questi così impegnativi bambini hanno da offrire? Vien da rispondere: la loro sete d’essere amati, quel grido che erompe continuamente dalla loro carne,  non meno che dalla loro voce: “amami! amami…”

Viene così alla luce un secondo grande insegnamento che ci viene da queste creature “speciali”. Affannati come siamo a farci in quattro – qui parlo per me -, magari anche per costruire il Regno di Dio, finiamo per dimenticare che la cosa che forse più d’ogni altra il Signore s’attende da me – è il mio desiderio di Lui, più e prima del mio fare per Lui; è un cuore che mendica, che chiede di essere accarezzato dal tocco della Sua Presenza, con la stessa disarmata attesa di segni d’affetto, con cui questi bambini vivono ogni giornata.

Mi ami tu?

A questa seconda annotazione, ne aggiungo una terza, che è in qualche modo un corollario delle prime due.

Torniamo al cieco nato. C’è un ulteriore motivo, mi pare, per cui è degno di nota il fatto che quest’uomo fosse un “mendicante di professione”. Il nostro uomo non aveva vissuto che di misericordia, di elemosina. È perciò logico che avesse imparato a distinguere al volo la moneta “genuina” da quella falsa, l’autentica misericordia da quella  “ipocrita” – quella di chi usa della miseria altrui per farsi bello, per apparire grande agli occhi degli uomini. Anche per questo, forse, aveva potuto formulare subito un giudizio così netto e chiaro su Gesù.

Lo stesso è vero dei “figli speciali” di cui si legge nelle pagine di questo libro. Abituati a vivere solo di segni di autentico affetto, a non cercare altro, essi divengono una sorta di cartina al tornasole del cuore di chi sta loro intorno, genitori, parenti, conoscenti. Con questi “tipetti” è impossibile barare. Ciascuno di loro – mi si perdoni l’audacia – è un po’ come Gesù: è un “cardio-gnostico” (Cfr. Gv 2, 33), uno cioè  che conosce i cuori e perciò ha  lo strano potere di metterci tutti davanti allo specchio. Non che essi ci giudichino a parole. Alcuni di loro forse nemmeno parleranno mai. È la domanda che erompe dai loro sguardi, da ogni loro gesto, magari dispettoso, da ogni loro capriccio, a mettere al muro. Quella domanda, insistente come la domanda di Gesù a Pietro: “ma tu mi ami? Mi vuoi bene?”

Si torna così al racconto del cieco nato. Proprio perché senza barriere né difese, senza filtri né inibizioni, queste misteriose, “anomale” presenze ci mettono a nudo, spesso senza nemmeno accorgersene, e mettendoci a nudo ci destano dal torpore, risvegliano in noi il desiderio di un cuore più grande, più vero: anzi, nel ferirci, già ci cambiano il cuore.

Bambini Gesù

Voi bambini imitate Gesù. Non imitate. Siete dei bambini Gesù. Senza saperlo, senza vederlo.

Giunti a questo punto, non si può evitare di osar dire almeno qualche parola sulla questione più spinosa – questione sulla quale chi come me non ha vissuto direttamente una esperienza simile a quella dei genitori che parlano in questo libro, può permettersi di balbettare qualcosa soltanto sotto voce, e non senza timore e tremore.

Questi figli, questi bambini soffrono. In certi casi, soffrono molto e continuamente. Stante tutto quanto detto fin qui, rimane il tremendo mistero: perché? Perché un bambino, che non ha fatto mai nulla di male – perché un innocente, un bambino deve soffrire?

Si tratta di un enigma tremendo – un enigma cui la ragione umana, lasciata a se stessa, non sa trovare risposta. Come noto, è infatti questo l’argomento principale di quanti – e sono sempre più numerosi – affermano essere immorale far venire al mondo bambini di cui la scienza moderna è in grado di stabilire in anticipo che saranno affetti da disabilità gravi: perché condannare una persona umana ad una vita di umiliazioni e tormenti, quando si potrebbe risparmiargliela?

La domanda è tutt’altro che banale. Certamente, quanto si è detto fin qui, e soprattutto la testimonianza “in carne ed ossa” di tanti bambini sofferenti eppur felici di vivere, aiuta a rispondere alla sfida: chi ha il diritto di dire a Chiara che sbaglia, quando dice di sentirsi un fiore, perché nella sua vita non c’è in realtà nulla di bello? Quale scienziato?

E tuttavia noi sentiamo che questa risposta non basta. Qualcosa rimane fuori. Ci sono situazioni in cui si toccano livelli di sofferenza tali, che davvero vien la tentazione di dar ragione al mondo. Ci sono momenti, sì, possono esserci, in cui può essere dato a questi figli, così come ai loro genitori, che assistono impotenti al loro soffrire, di sentirsi salire in cuore le tremende parole di Giobbe (3, 11-13.20-21):

“Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo?

Perché due ginocchia mi hanno accolto, e perché due mammelle, per allattarmi? Sì, ora giacerei tranquillo,

dormirei e avrei pace…

Oppure, come aborto nascosto, più non sarei, o come i bimbi che non hanno visto la luce. (…)

Perché dare la luce a un infelice

e la vita a chi ha l’amarezza nel cuore…”

La risposta che Dio ha dato al grido di Giobbe non è una risposta fatta di parole.  Quale parola potrebbe qui bastare? La risposta di Dio è stata ed è un evento, una parola fatta di carne e sangue: Cristo – il Dio crocifisso dall’amore. È in Cristo, questo Figlio che il Padre Suo lascia che sia immolato per la redenzione del mondo, che il mistero d’ogni lacrima, di tutto il dolore innocente di questi bambini trova senso. Un senso che  rimane misterioso, e tuttavia un senso reale e come tale sperimentabile. Non è inutile la sofferenza di questi bambini. Come direbbe Peguy, che oltre al mistero della Speranza ha scritto anche il Mistero dei santi innocenti – cioè i neonati trucidati da Erode che la Chiesa venera come santi – questi piccoli sono, pur “senza saperlo”, dei “bambini Gesù”: sono cioè associati in modo tutto  speciale alla croce di Gesù, che vuol anche dire alla sua fecondità, alla sua forza redentrice. “Cosa c’entra la salvezza del mondo con la vita di mio figlio?” – si chiede Luca Frigerio, uno dei tanti papà che parlano nelle pagine di questo libro. Luca ha trovato risposta a questa domanda in un libricino prezioso, purtroppo non noto quanto merita: “Pedagogia del dolore innocente” del beato Carlo Gnocchi – prete brianzolo che dedicò l’ultima parte della sua vita, dopo la guerra, ai “mutilatini”. Don Gnocchi – scrive ancora Frigerio – dice  che “il dolore dei bambini collabora alla salvezza del mondo perché partecipa del sangue versato da Gesù. Come Gesù è l’innocente crocifisso, così questi bambini sono ciò che nell’umanità più si avvicina a quella mancanza di colpa, a quel sangue innocente, al sangue di Cristo”. Tante delle testimonianze riportate in questo libro si soffermano giustamente su questo grande mistero. Volendo fare l’avvocato del diavolo, qualcuno potrebbe obiettare: che prove abbiamo che questo è vero? Non è in fondo tutta questa gran “teologia della croce” nulla più che una pia auto-consolazione?  A questa obiezione risponderei così: certo,  un mistero di fede come questo deve essere innanzitutto creduto, in pura fede, poiché non ne abbiamo prove tangibili. E tuttavia proprio le pagine di questo libro dimostrano, che a quanti credono, viene donata di fatto l’esperienza di ciò che credono, se è vero che attorno a questi “bambini Gesù”, fiorisce davvero un’umanità nuova, redenta. Il loro sacrificio porta frutto – lo porta innanzitutto nella vita di coloro cui sono affidati.

Veniamo così all’ultimo e più vertiginoso insegnamento che ci danno questi “bambini Gesù”. Nella vita si soffre. Non c’è modo di evitare il dolore. Non solo, spesso si soffre ingiustamente. E come non c’è modo di evitare il dolore, non c’è modo di eliminare l’ingiustizia. Tutti siamo un po’ vittime innocenti – oltre che un po’ carnefici. Ebbene, questi bimbi ci insegnano e ricordano che la sofferenza non è solo qualcosa da allontanare ed attutire il più possibile (senza ovviamente negare che il farlo sia giusto, il cristianesimo non è masochismo). La sofferenza, quando è innocente, può diventare una azione – anzi l’azione più grande, feconda, potente che esista. Qual’è l’opera più grande, l’opera con la O maiuscola che Cristo ha compiuto? Non la guarigione del cieco nato, non la resurrezione di Lazzaro. Ma la redenzione del mondo mediante la croce. Ave Crux – spes unica!

Sì, questi “bambini Gesù”, questi bambini che agli occhi del mondo non dovrebbero essere mai nati, hanno una invece grande missione. E i loro genitori, i loro cari ne hanno una non meno grande: aiutarli a svolgerla, aiutarli a portare la croce. Nemmeno Gesù ha portato la croce da solo. Ha avuto bisogno, ha voluto aver bisogno di Simone di Cirene. Soprattutto ha voluto la vicinanza di sua madre, ha avuto nell’ora cruciale bisogno della vicinanza di Sua madre. Lo stesso è tanto più vero di questi piccoli ma grandi discepoli del Signore.

Vengo così alla conclusione. La croce non si porta da soli: questo è vero dei “bambini Gesù” ma è vero anche dei loro genitori, delle loro famiglie. Ecco, l’associazione Mongolfiera, mi pare si possa dire, è questo: una compagnia di amici che si mettono insieme per aiutarsi innanzitutto a riconoscere la grandezza del mistero che si cela nei corpi sofferenti dei loro figli, e perciò ad accompagnarli con la venerazione e la dedizione che spetta loro.

Ringrazio gli amici della mongolfiera per la testimonianza che danno – una testimonianza di cui abbiamo oggi più che mai bisogno, ragion per cui mi auguro che questo libro possa essere letto da molti e molti indurre a riflettere.