don Paolo Prosperi – Convivenza giovani di CL – Assisi [2] 23-26 novembre 2023
«Un cammino dello sguardo»6
Il target della lezione di questo pomeriggio, lo dico subito a scanso di equivoci, non è quello di lanciare chissà quale nuovo tema. Lo scopo che ci prefiggiamo è piuttosto quello di provare a fare qualche passo in più nel cammino di riflessione già iniziato qui a marzo – e di provare a farlo alla luce del passo che il movimento sta proponendo a tutti (penso soprattutto alla Giornata di inizio anno). Sono infatti persuaso che tra il tema affrontato qui, e quello dell’esperienza cristiana, o se si vuole degli occhi nuovi che la fede dona (tema centrale nella Giornata d’inizio anno), vi sia un nesso più stretto di quel che potrebbe sembrare. Cominciamo, dunque.
- «Siamo ciechi anche noi?» (Gv 9,40)7: una malattia degli occhi
Inizio da una considerazione che ho sentito fare a tanti, nel corso dei molti dialoghi sui contenuti di Assisi cui ho partecipato quest’estate, girando per le vacanze delle comunità di CL.
La considerazione è questa: la mentalità del self-made man, cioè quell’assetto interiore per cui si fa consistere il proprio valore nella propria capacità di performance, non ha appena a che fare con la sfera del lavoro.8 Si tratta invece di una mentalità che tende a insinuarsi nel rapporto che abbiamo con tutto – moglie o marito, figli, amicizie, vita morale, e chi più ne ha più ne metta.9
Ora, se questo è vero, tanto più urgente diventa la domanda – anch’essa gettonatissima nelle vacanze estive: come si esce dalla gabbia del criceto? Come si esce dalla gabbia dell’ego performante, per entrare nel punto di vista di Cristo?10 «Bella l’immagine di Gesù che lava tutto contento i piedi ai suoi discepoli» – qualcuno mi ha detto – «io però non sono Gesù – non vedo il Padre celeste sullo sfondo, quando ho davanti la faccia del mio capo al lavoro. Come ci entro, quindi, in questo punto di vista di Cristo?».
È proprio qui, mi pare, che il tema della Giornata d’inizio anno ci viene in aiuto. Si legge al n. 18 di Lumen Fidei, l’enciclica sulla fede di papa Francesco:
La fede non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere. […] La vita di Cristo – il suo modo di conoscere il Padre, di vivere totalmente nella relazione con Lui – apre uno spazio nuovo all’esperienza umana e noi vi possiamo entrare. […] La fede nel Figlio di Dio fatto uomo […] non ci separa dalla realtà, ma ci permette di cogliere il suo significato più profondo […], si apre un nuovo modo di vedere.11
La fede, ci dice il Papa, non è appena una forma di contatto con Gesù. La fede ci introduce in un modo nuovo di vedere tutta la realtà. A me piace dirlo così: compresa nel suo pieno potenziale, la fede è un po’ come quegli occhiali che ti danno al cinema, quando vai a vedere un film in 3D. Senza gli occhiali vedi tutto piatto e sfocato. Come inforchi gli occhiali, di colpo tutto t’appare nitido e tridimensionale – a tal punto tridimensionale, che in certi momenti ti sembra che gli oggetti escano dallo schermo e ti piombino addosso. Ecco, la fede fa qualcosa di simile: non cambia la superficie di ciò che vedo – si tratti di una faccia, d’una circostanza, di una cosa da fare. Ma me la fa vedere da un punto di vista nuovo – un punto di vista dal quale è come se riuscissi a percepirne meglio lo “spessore”, il pondus. Ricorderete che a marzo dicevamo che in ebraico la parola kabod (pondus, peso) significa anche gloria, cioè qualcosa di grande, di importante, di denso di significato. Il che vuol dire: a vedere in esse una profondità di significato altrimenti impercepibile.12
La risposta alla domanda-obiezione del nostro amico è dunque: la fede. È la fede che ci fa entrare nel punto di vista di Cristo, che è poi il punto di vista più vero.
Il che presuppone (è il rovescio della medaglia) che il punto di vista da cui si guarda la realtà di solito sia parziale, cioè non necessariamente errato, quanto piuttosto meno penetrante.
In effetti, non è proprio da questo deficit della facoltà visiva che dipende l’alienazione di cui abbiamo parlato a marzo? Come amava dire Benedetto XVI, la malattia che più affligge l’uomo d’oggi (e quindi anche noi!) non è una malattia della volontà, bensì degli occhi:
L’uomo contemporaneo [ebbe a dire papa Ratzinger, in un messaggio inviato alla nascente scuola dove ora insegno] è fermo al positivismo. […] Non sembra più in grado di percepire la profondità della realtà che i nostri occhi vedono e toccano, si tratti di un fiore o di un volto umano.13
Torna qui decisamente utile la famosa descrizione dello sguardo positivista che Giussani fornisce ne Il senso religioso:
L’atteggiamento positivista è come quello di uno che, in posizione da miope, portasse l’occhio a un centimetro da un quadro e, fissando un punto, dicesse: «Che macchia!»; ed essendo il quadro grande potrebbe percorrerlo tutto centimetro per centimetro, esclamando a ogni mossa: «Che macchia!». Il quadro apparirebbe un insieme senza senso di macchie diverse. Ma se arretrasse di tre metri vedrebbe il dipinto nella sua unità, nella prospettiva esauriente.14
Spontaneamente, la mente torna al cieco nato, su cui ci siamo soffermati nella Giornata d’inizio anno. Proviamo a immedesimarci con quest’uomo, che non aveva mai visto un volto umano, che non aveva mai visto il proprio stesso volto riflesso in uno specchio. Ebbene: non è in fondo la situazione di quest’uomo un calzante, oltre che struggente simbolo della condizione dell’«homo positivisticus» contemporaneo, quale descritto da Ratzinger e Giussani?
Mi ha sempre colpito lo strano gesto con cui Gesù guarisce il nostro uomo. Perché spalmargli del fango (fatto con il suo sputo!) sugli occhi (Gv 9,6)? Perché guarirlo con un gesto così strambo? Come Ireneo di Lione già aveva compreso,15 il gesto di Gesù rimanda alla creazione di Adamo narrata nella Genesi: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo».16 Col suo gesto, Gesù sta dunque dicendo: «Io sono venuto per ri-crearti, o uomo, sono venuto per fare di te una creatura nuova» (cfr. 2Cor 5,17). E questo, più d’ogni altra cosa vuol dire? Per darti occhi nuovi – occhi capaci di vedere ogni cosa, a cominciare dalla tua stessa umanità, nel suo vero splendore: «Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva».17
Ora, in cosa concretamente consistono questi occhi nuovi che la fede dona, e la memoria, che altro non è che la fede vissuta,18 permette di sviluppare?
Nel prosieguo di questa meditazione, vorrei tentare di offrire qualche spunto di risposta a questa domanda. E per farlo, ho deciso di prendere come figura di riferimento lo stesso personaggio evangelico su cui abbiamo fissato lo sguardo proprio alla fine del nostro primo incontro, nella sintesi di marzo. Parlo ovviamente del buon vecchio Simon Pietro. Infatti, come qualcuno di voi ricorderà, è proprio parlando di lui e del suo ribellarsi alla “strana” iniziativa da Gesù presa nel mezzo dell’ultima cena, che già a marzo era emerso il tema del cammino necessario per entrare nel punto di vista di Gesù:19 come la fede di Simon Pietro in Gesù, pur sincera fin dall’inizio, non ha portato subito il nostro a “capire Gesù”, così è per noi.20 Ciò detto, vorrei ora entrare un po’ più nel merito di questo passaggio dal vecchio al nuovo “punto di vista”. In cosa esattamente esso consiste? E in che senso è la fede a renderlo possibile? Last but not least: che ruolo ha la nostra compagnia in questa dinamica? Per tentare di aprire delle “piste di risposta” a queste importanti domande, mi avvarrò di una pagina del vangelo di Giovanni molto cara alla nostra storia: Gv 21. Gv 21 ci presenta infatti un Pietro assai diverso da quello a cui Gesù nel cenacolo aveva detto: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo»;21 un Pietro cioè che finalmente ha cominciato a capire, soprattutto grazie a un fatto che gli ha irreversibilmente cambiato gli occhi: la rivelazione, nella grande ora Pasquale, dell’amore del Signore in tutta la sua gloria (cfr. Gv 13,1).22 Cominciamo dunque.
- E si tuffò in mare: lo “scatenarsi” dell’uomo nuovo
Il primo punto su cui voglio soffermarmi è il cambiamento dello sguardo su se stessi che la fede dona.
Ripartiamo dal self-made man. Uno dei connotati del soggetto di prestazione, ci dicevamo a marzo, è la paura di fallire. Se infatti io consisto di ciò che riesco a fare, è normale che io viva in uno stato di permanente ansia di riuscire, il che in negativo vuol dire: paura di non riuscire. Di qui il paradossale «spirito da schiavi»23 di cui abbiamo parlato – posto che lo schiavo è per definizione uno che vive ed agisce in un regime di paura.24
Ora, in che senso la fede spacca le sbarre di questa prigione dell’ansia e della paura? Lo dice bene san Paolo:
E voi [cioè quanti siete stati battezzati in Cristo] non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!». (cfr. Rm 8,15)
«Uno spirito da figli». Ricordate nella lezione di marzo il passaggio dall’essere schiavo alla condizione di figlio? La fede mi libera dalla paura innanzitutto perché mi dona uno «spirito da figlio», cioè cambia il contenuto di ciò che vedo quando mi guardo allo specchio: non più un io che deve conquistarsi un nome (cioè una consistenza, un’esistenza reale) con le sue prestazioni; ma un io che si sa figlio, cioè amato “gratis”, prima e a prescindere dall’esito dei suoi tentativi;25 e che per questo è abilitato e portato a darsi a sua volta in gratuità, con cuore lieto, come a riflettere l’amore gratuito di cui si riconosce oggetto.
Ebbene, proprio in Gv 21 c’è una scena che a mio avviso meglio d’ogni altra mostra in atto questo cambiamento di prospettiva – una scena che del famoso dialogo tra Gesù e Pietro che il don Giuss ci ha insegnato ad amare è come l’anticipazione drammatica (vi tornerò poi). È la scena in cui Simone, saputo che l’uomo sulla riva è il Signore, si tuffa in acqua verso di Lui, lasciando perdere barca, reti e tutto quanto.
Ricordo brevemente gli antefatti. Il Signore Gesù è ormai risorto. È già apparso due volte ai dodici radunati nel cenacolo (Cfr. Gv 20,19 ss.). In Gv 21, Egli appare ai suoi per la terza e ultima volta, e lo fa alle prime luci dell’alba, sulla riva del mare di Tiberiade, al termine di una nottata passata da Pietro ed altri sei discepoli in barca a pescare. A un certo punto, il Discepolo amato, più acuto e svelto degli altri, riconosce il Signore e lo dice a Simon Pietro (Gv 21,7). E Pietro cosa fa?
Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito [in greco è gymnos, che vuol dire “nudo”: sotto era nudo!!], e si gettò in mare. (Gv 21,7)
Facciamo attenzione ai dettagli, perché è proprio nei dettagli più materiali, come abbiamo visto già a marzo, che Giovanni nasconde le sfumature di significato più profonde. Così avviene qui: perché Giovanni ci tiene a dirci che Pietro si cinge il camiciotto prima di tuffarsi?
Innanzitutto per farci notare la stranezza del fatto: di norma quando uno si tuffa in acqua si spoglia, mica si veste! Eppure Pietro qui fa l’opposto. Perché? Giovanni non lo dice, ci invita a indovinare. Ebbene, la prima risposta è abbastanza ovvia: il nostro Simone non vuole presentarsi nudo davanti a Gesù (eh, insomma!). Ma è tutto qui? No, non è tutto qui. C’è un altro personaggio nella Bibbia che molto tempo prima di Simone s’era cinto per coprire la propria nudità: è Adamo, il quale dopo aver commesso il primo peccato della storia umana, s’era cinto di frasche per occultare la sporcizia che il peccato aveva lasciato in lui e così non sentire vergogna.26
Comprendiamo così il senso profondo, per così dire “subliminale” del gesto di Simone. Come Adamo, così anche Simone è ancora tutto pieno di vergogna per quel che ha fatto: come brucia ancora il ricordo di quel triplice rinnegamento…
Ma qui viene il bello. All’apparire del Signore nel giardino alla brezza del giorno, Adamo, preso da un moto di paura, s’era nascosto tra gli alberi:
Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto».
All’apparire del Risorto all’alba sulla riva del lago di Tiberiade, Pietro fa l’opposto: si tuffa di slancio verso il Signore, come incapace di contenere l’affetto:
Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. (Gv 21,8)
Che bello quest’altro dettaglio: perché Giovanni ci tiene a sottolineare che «non erano lontani che un centinaio di metri da riva»? Per farci percepire la fretta, l’incontenibile desiderio di Simone di raggiungere Gesù, per poter essere di nuovo trafitto dal suo sguardo. Non poteva aspettare un minuto, visto che ormai erano a pochi metri da riva? No, non poteva aspettare, per quell’impazienza che è il contrassegno dell’amore, quand’esso è intenso e insieme sgombro d’ogni inibizione, come è l’amore dei bambini. I bambini fanno così, quando all’improvviso appare qualcuno cui vogliono tanto bene: gli corrono incontro festosi, senza vergogna.
Come è possibile? Come è possibile che Pietro reagisca in questo modo proprio adesso che avrebbe ogni ragione per sentirsi più “sbagliato” che mai?
Qui è cruciale notare un altro contrasto. A dire il vero, non è questa la prima pesca miracolosa operata da Gesù in presenza di Pietro. Se da Giovanni passiamo al vangelo di Luca, ci accorgiamo che Gesù aveva già compiuto un segno quasi identico proprio all’inizio, prima ancora che Simone lasciasse tutto per seguire Gesù (Lc 5,11).27 Ma la reazione di Pietro, allora, era stata diversa. Era stata di fatto uguale a quella di Adamo, all’apparire del Signore nel giardino:
Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore».
Di fronte al manifestarsi del potere del Signore, proprio nel campo in cui lui si sentiva competente (la pesca era la “sua” cosa; quante volte succede anche a noi di ricevere un aiuto, e quasi ci dispiace di non avercela fatta con le nostre forze), la reazione di Simone era stata un sentimento di sproporzione, di inadeguatezza. Quasi che il rivelarsi della grandezza di Gesù mettesse a nudo la sua pochezza. E per questo aveva sentito l’impulso di tirarsi indietro.
Ebbene, perché allora Simone, proprio adesso che avrebbe ogni ragione per sentirsi ancora più indegno, per acquattarsi in fondo alla barca dietro agli altri, si getta invece verso di lui senza paura? È che Pietro non è più lo stesso, è cambiato. E ciò non nel senso che la vergogna per la sua pochezza sia sparita magicamente. Tante volte noi immaginiamo la misericordia come una specie di cancellino che resetta la nostra memoria. Invece la misericordia è qualcosa di assai più grande e meraviglioso di questo. Come abbiamo visto, la vergogna di Pietro per quel che ha fatto non è tolta. Ma è come se non vincesse più. E perché non vince più? Perché Pietro non è più centrato su se stesso, sui suoi meriti, ma sulla certezza di un amore che precede ed eccede ogni merito. Si capisce allora perché prima ho detto che la scena del tuffo di Pietro è davvero l’anticipazione in forma drammatica di ciò che il “sì di Pietro” esprime a parole. Quante volte don Giussani ci ha invitato a immedesimarci con quest’uomo, che si sente chiedere da Gesù – lui, che l’aveva da poco rinnegato tre volte –: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?». E lui, anziché sprofondare nella vergogna, “si sente” invece rispondere, come spinto da un impulso travolgente: «Si, Signore, tu lo sai, lo sai che ti amo – e se me lo chiedessi mille volte, mille volte ti direi: sì, sì, sì…».28
Ecco, questa è la libertà nuova che nasce dalla fede. Una libertà che non è lassismo o disimpegno. Bensì è un impegno che ha come un “motore” nuovo: non più l’ansia d’ottenere chissà quale “risultato”, ma il desiderio di rispondere con tutto se stessi all’Amore senza misura che s’effonde da quella faccia – quella faccia che ti chiede una sola cosa: «Mi ami tu?».29
Tornando alla scena del tuffo, c’è un altro piccolo dettaglio che dice questo in modo un po’ sottile, eppur grandioso. Subito dopo aver narrato il tuffo di Simone, Giovanni scrive:
Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci. (Gv 21,8)
Anche qui: perché Giovanni, con uno spostamento repentino della cinepresa, attira la nostra attenzione su questo dettaglio?
Il fatto è che era stata di Pietro l’iniziativa di andare a pescare: «Io vado a pescare!»30 – aveva detto Pescare era il suo mestiere, e la barca era certamente la sua, così come la rete. Eppure adesso, appena s’accorge che l’uomo sulla riva è il Signore, lascia barca, rete e pesci nelle mani d’altri, e si lancia in acqua verso il Signore.
Ci sta dunque suggerendo Giovanni che l’amore a Cristo porta a disprezzare i pochi o molti beni che ci sono affidati? Ci sta suggerendo che l’amore a Cristo porta a dimenticarsi tutto il resto, come se Egli fosse una sorta di droga, che ci rende liberi sì, ma nel senso di indifferenti a tutto e tutti? Evidentemente no. Ciò che Giovanni ci sta suggerendo è qualcosa di più paradossale. Ma per capire di che si tratta, dobbiamo spostarci alla scena successiva.
I discepoli sono ormai tutti giunti a riva, dove Gesù li aspetta, presso un fuoco di brace con sopra del pesce e del pane. A un certo punto Gesù dice loro: «Portate un po’ del pesce che avete preso». E ancora una volta Pietro anticipa tutti:
Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatrè grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. (Gv 21,11)
Che bello: quello stesso Simon Pietro, che nell’impeto del suo amore per Gesù s’era disinteressato di rete e pesci, quando è Gesù a chiederglielo, si dimostra capace di trascinare da solo a riva una rete piena di 153 grossi pesci (cioè circa un quintale di pesce, secondo le stime).31 Come dire: l’amare Cristo fino a “dimenticarsi” della sua rete piena di pesci, è ironicamente ciò che dà a Pietro la forza di trarre a terra più pesce del più provetto e robusto dei pescatori. Il che, venendo a noi, significa: quanto più cominciamo ad amare Cristo più delle cose e delle persone che ci sono affidate, tanto più l’amore a cose e persone, cioè il farci carico di cose e persone, smette d’essere fonte di stress e diviene, per usare la bellissima espressione di Gesù, «giogo dolce e carico leggero» (cfr. Mt 11,30).
- Possesso nel distacco: verso il centuplo
Veniamo così al secondo aspetto di quella visione nuova delle cose, che la fede introduce nella nostra esperienza. La memoria di Cristo non cambia soltanto il nostro modo di guardare a noi stessi. Trasforma anche il nostro sguardo su ciò che è davanti a noi, a cominciare dalle persone e cose di cui siamo chiamati a prenderci cura. In che senso?
In realtà lo abbiamo già detto, descrivendo questo Pietro che prima, per amore di Cristo, si dimentica della rete, e poi, sempre per amore di Cristo, la trae a terra tutto da solo.
Ecco: la memoria di Cristo ottiene in noi lo stesso paradossale effetto. In apparenza, è come se ti allontanasse dal tuo lavoro o dalla faccia di tua moglie, perché se guardi in faccia a Cristo non puoi guardare in faccia tua moglie. In realtà, però, in questo “tuffarti verso Cristo”,32 tu non ti allontani. Piuttosto è come se fossi portato dentro, nell’intimo del volto di tua moglie, perché sei portato nel punto di vista da cui riesci a vederla davvero, nella sua “verità intera”.33 Il che vuol dire: non più come una somma di tratti che ti piacciono e tratti che non ti piacciono (dove più passa il tempo più i secondi aumentano), ma come questa “pecorella”, che il Signore ti affida:
Mi ami tu, Simone figlio di Giona? […] Pasci le mie pecore.
Come notava già sant’Agostino,34 Gesù non dice a Simone «pasci le tue pecore», bensì pasci le mie pecore. Che vuol dire: solo se riconosci che queste pecore non sono tue ma mie – solo allora le puoi pascere davvero, innanzitutto perché cominci a vederle per ciò che veramente sono.35
Ecco, la memoria è come il riaccendersi continuo in noi di questa coscienza – la coscienza che questa donna che è mia moglie, questi bambini che sono i miei figli, non sono innanzitutto miei. Sono di un Altro che me li affida, e proprio così si fa mendicante del mio amore, si “mette alle mie dipendenze”, direbbe Péguy:36 «Mi ami? […] Pasci i miei agnelli».37
Con un cruciale, ironico nota bene, che è il fatto che in questa apparente espropriazione, in questo distacco che sembra espropriarmi, chi ci guadagna sono io, poiché il frutto di questa “riconsegna” è un godere cento volte tanto del rapporto con moglie e figli – è un amare pieno di una gratuità, di una attenzione, di una pazienza e di una fecondità altrimenti impossibili.
Se la tua risposta alla grazia è: «Ti accetto. Sì, Signore, ti voglio bene». «Guida nella storia il mio popolo – gli ha risposto Gesù – pasci i miei agnelli». «Guida nella storia il mio popolo»: questo è altro che centuplo! Così, a te dice: «Se compi il sacrificio di un amore a me senza ritorno, sarai decisiva per tutta la gente che sta andando, camminando verso il suo destino, tutta la gente che non sai, che non conosci».38
Quindi la risposta alla bellissima la domanda che ha fatto una di voi oggi: – come faccio ad avere uno sguardo non possessivo nei confronti dei ragazzi che mi sono affidati? – è questa: la memoria. Ma la memoria non innanzitutto come rimedio ad una paura: «Oddio, ho paura di essere possessiva, quindi devo ricordarmi che questi ragazzi non sono miei»; quanto piuttosto la memoria intesa come porta che mi introduce in un possesso più vero, più puro ma anche più intenso.
Don Giussani, come credo molti di voi sappiano, ha dato il nome di verginità a questa esperienza di possesso nel distacco, che la memoria di Cristo fa attecchire pian piano in noi. Il che, tra le altre cose, vuol dire: la verginità, giussanianamente intesa, non è qualcosa di sperimentabile soltanto da coloro che sono chiamati alla verginità in senso stretto, cioè nel senso vocazionale del termine. No, c’è un senso in cui la verginità è l’ideale di tutti, anche di coloro che sono chiamati a far famiglia, sempre che per verginità si intenda quel che s’è detto.39 E cioè: non innanzitutto uno stato di vita, ma una modalità di rapporto con la realtà, che apre ad un più pieno possesso di essa40 – possesso che è come un assaggio della modalità in cui Gesù vedeva cose e persone, gli uccelli del cielo e il giglio del campo, il volto di Giovanni e quello della Samaritana.
Quale modalità? Il Signore stesso ce lo ha detto, nella sua ultima grande preghiera al Padre: «Erano tuoi e li hai dati a me».41
Cosa vedeva Gesù, mentre guardava negli occhi quella donna che giunta al pozzo con la giara sulla testa lo interrogava? Nel fondo del «pozzo profondo»42 di quegli occhi, pieni di malcelata malinconia, Gesù vedeva il volto del Padre, che Gli stava affidando quella donna: «Erano tuoi e li hai dati a me…».43 Di qui il trasalimento, l’emozione, lo stupore che riempiva i Suoi di occhi, mentre la guardava: un’emozione ed uno stupore quali lei non aveva mai visto negli occhi di alcuno degli uomini che pur l’avevano amata – uno stupore che le penetrava nel cuore ed era come se ne lenisse la sete, come se la dissetasse, pur senza darle “alcunchè” (cfr. Gv 4,10).44 Anzi, non “come se”: la dissetò in effetti (come da Gesù promesso: Gv 4,14!),45 se è vero che la donna «intanto lasciò la sua anfora»46 e corse in paese a raccontare a tutti l’accaduto, come dimentica della sete che l’aveva spinta al pozzo…
Gesù [osserva Giussani in L’autocoscienza del cosmo] era come un bambino di fronte alla gente: si stupiva del fiorellino, si stupiva dell’erba, si stupiva dell’uccellino, si stupiva dei bambini che giocavano, si commuoveva di fronte alla donna che piangeva, aveva pena per chi aveva sbagliato. Ed è certamente dal modo con cui l’ha guardata che la Maddalena è andata da Lui: è dipeso dal modo con cui l’ha guardata. Guardava le cose per quello che erano veramente: una cosa si guarda per quello che è veramente, quando la si vede come la vede Dio.47
E altrove aggiunge:
Dove l’eterno può essere esperienza dell’aldiqua? Nel come ti fa vedere tuo padre, come ti fa vedere tua madre, come ti fa vedere la donna che ami, come ti fa veder l’uomo che ami! C’è un prezzo: un sacrificio dentro, un abbandono dentro; sembra un abbandono, ed è una presa più profonda che dà un risultato più imponente. […] «Cento volte tanto» vuol dire un’esperienza più intensa. Guardare l’oggetto con rispetto – col rispetto che ti mostra con la coda dell’occhio la presenza di Cristo – ti fa guardare, amare l’oggetto, «avventare» sull’oggetto stando a una distanza debita, e usare l’oggetto cento volte meglio. Chi non fa questa esperienza non ha capito cos’è il cristianesimo! Perché il cristianesimo, diceva san Paolo [Gal 2,20], è: «Io, pur vivendo nella carne [vivendo nella carne vuol dire padre, madre, uomo, donna, figlio, amici;…], vivo nella fede del figlio di Dio [guardo, sento, uso la cosa come la guardava, sentiva, usava Cristo]». Questo porta una utilizzazione della cosa, un arricchimento della cosa, una luce sulla cosa, un calore della cosa, una calma della cosa, una pace nella cosa che è cento volte tanto quello che hanno tutti gli altri e che avrei avuto io.48
Immagino che i più tra voi non abbiano mai avuto l’occasione di incontrare dal vivo don Giussani e avere un’esperienza diretta del suo sguardo, del modo in cui ti guardava – con cui guardava tutto. Penso però che tutti o quasi ne abbiate sentito parlare. Ebbene, se dovessi dire ciò che di lui più stupiva me, direi che era il suo stupore – perdonate il gioco di parole: lo stupore con cui ti guardava, con cui guardava tutto. L’esempio famoso del decimo capitolo de Il senso religioso – immaginate di aprire gli occhi per la prima volta sul mondo con la coscienza che avete ora – è in realtà un po’ un autoritratto del don Giuss. Vengono in mente le parole con cui Péguy descrive il genio di Victor Hugo:
Tutta la forza del suo genio viene quasi unicamente da lì: vedeva il mondo non come un oggetto conosciuto, con uno sguardo abituato, ma come l’oggetto primo di uno sguardo primo.49
Non credo d’essere il primo né l’unico cui abbiate sentito raccontare di come don Giussani, guardandoti, sapeva comunicarti la sensazione di essere ai suoi occhi la cosa più interessante e misteriosa del mondo – la prima e sola faccia che avesse mai visto. Se non che, è fin troppo facile fermarsi al mero contraccolpo del fatto, al massimo limitandosi ad attribuirne l’origine allo “straordinario” carisma che al Giuss è stato dato da Dio. Indubbiamente ciò è in parte vero. E tuttavia, come egli stesso una volta mi disse, quasi con stizza, si tratta di un’esperienza che può fare chiunque viva seriamente la memoria50 – chiunque cioè guardando in faccia la sua donna, anziché fermarsi alla superficie del suo “bel visetto”, penetri fino alla radice abissale da cui quella faccia erompe in ogni istante, come un avvenimento sempre nuovo.
Un aneddoto famoso dice tutto questo in modo mirabile. Si tratta dell’incontro che il Giuss ebbe, ancora giovane prete, con un cinico ex-seminarista, che uscito dal seminario s’era finalmente innamorato e poi sposato. Permettetemi di leggervi uno dei racconti dell’episodio che don Giussani ci ha lasciato:
Vi ricordate il mio amico di Saronno? C’era un seminarista che era un tipo cinico e scettico (eravamo già al liceo), aveva stampato sulle gote, come due pezzi di ghiaccio, un riso sardonico con cui prendeva in giro tutti, dal rettore all’ultimo compagno, l’unico con cui parlava sotto i portici ero io. Comunque, in terza liceo uscì, se ne andò, giustamente. Vent’anni dopo, ero a Saronno, alla stazione di Saronno […], arriva il treno e, come arriva il treno, mi sento battere una mano sulla spalla. Mi volto: era lui. Dopo vent’anni, con un sorriso un po’ più masticabile: «Buongiorno, professore, dove va?» «Devo andare a Milano.» «Senta, io dovevo andare a Varese, ma vengo a Milano con lei, così facciamo quattro chiacchiere.» Ed è venuto a Milano con me […]. Lui era lì, guardava fuori dal finestrino e io osservavo che la sua silhouette era diversa da un tempo. E, infatti, incomincia esattamente così: «Debbo dirle che aveva ragione – perché io gli dicevo: “Cambierai quando ti innamorerai di una ragazza” e lui dava in escandescenze quando gli dicevo così in seminario –, aveva ragione: mi sono innamorato di una ragazza cui sono affezionatissimo da ormai un po’ d’anni, abbiamo due bambini; insomma, quello che lei diceva si è avverato: son cambiato». Ma, appena detto così – zac! – la maschera scettica gli si fa subito sulle gote (improvvisa, perché era diventato diverso) e dice: «Però c’è una cosa che, quando capita, mi dico: “Ma forse avevo ragione io”. Perché quando sono lì con mia moglie e le ripeto certe parole: “Ti adoro, per sempre, nessuna più se non te, sei la più bella del mondo”, mi vien da ridere, mi vien da ridere perché è una bugia! È una bugia: lei non aveva ragione; non si sa come resistere a quello che lei dice, però non è vero perché è una bugia, ci sono momenti in cui appare come bugia!». E lì, io sono rimasto un po’ impacciato in un primo momento. Subito dopo gli ho risposto pressappoco così: «Immaginati che la faccia della tua donna sia come un punto di fuga, un punto che si apre dentro lo scenario dell’universo, e da quel buco lì intravedi da dove viene la luce per tutto, che illumina tutto e da dove viene quel fiato che fa la forma di tutto. Cioè guardi la tua donna come segno del Mistero, il segno dell’altra cosa. Perciò mantieni il sentimento».51
Si comprende così meglio perché per Giussani il dramma della libertà si giochi, prima e più che altrove, nella dinamica della conoscenza, come la Scuola di comunità sul terzo capitolo de Il senso religioso ci ha di recente fatto riapprezzare.52 Ciò non significa affatto, come una lettura sciatta dei testi del nostro potrebbe suggerire, che Giussani non avesse a cuore il cambiamento anche etico della persona. Significa piuttosto che egli ha capito che il dramma più profondo della libertà si situa sempre – e nell’uomo d’oggi più che mai – nell’atto stesso del conoscere e guardare, cioè appunto al livello di quel che ci si dà (o non ci si dà) la possibilità di arrivare a vedere. Di qui il fatto che l’ascesi, per Giussani, ha a che fare prima di tutto cogli occhi – è una strada di affinamento dello sguardo.53 Il resto è conseguenza.54
- «Un nuovo focolare»: la compagnia vocazionale
Ultimo passaggio. «Don Paolo, tutte queste cose sono belle e desiderabili » – mi ha detto una di voi, da cui sono stato a cena poco tempo fa – «ma poi, quando mi trovo al lavoro davanti alla mia capa, o semplicemente nel mezzo della giornata, da sola di fronte alle circostanze, è come se mi sembrassero astratte, cioè impossibili da vivere». A questo punto mi sono permesso di stopparla, per non impedirle di perdere per strada l’importanza di quel che lei stessa aveva detto: «Hai ragione, – le faccio – da sola non vai da nessuna parte». E infatti, se leggiamo il prologo dello statuto della Fraternità, che abbiamo anche riportato nell’ordine del giorno di questo raduno, che cosa vi leggiamo? Quale è lo scopo della Fraternità di CL?
La natura specifica del […] carisma [di CL] può essere così descritta: [primo] – l’insistenza sulla memoria di Cristo come affermazione dei fattori sorgivi dell’esperienza cristiana in quanto originanti la vera immagine dell’uomo [e di questo mi pare abbiamo parlato già parecchio]; [secondo] –- l’insistenza sul fatto che la memoria di Cristo non può essere generata se non nella immanenza ad una comunionalità vissuta.
Ecco: gli occhi nuovi di cui abbiamo parlato non si affinano guardando un tutorial su YouTube o frequentando il corso di self-coaching di questo o quel guru. La memoria di Cristo, che è la vera forza motrice del cambiamento della nostra mentalità, «non può essere generata» – dice don Giussani – «se non nella immanenza ad una comunionalità vissuta» (con tutte le precisazioni fatte in assemblea).55 Attenzione: don Giussani non dice qui che la comunionalità vissuta generi la fede. La fede ci è data per grazia, per un avvenimento di grazia che accade come e quando Dio vuole e che oggettivamente si chiama battesimo.56 Giussani dice piuttosto che l’immanenza ad una comunionalità vissuta è necessaria a generare in noi la memoria – e cioè appunto, come si è detto, la fede in quanto principio di un modo nuovo di stare nella realtà.
È solo dentro una comunionalità vissuta, insomma, che la memoria trova l’alimento e il sostegno necessario a informare la vita.
Torniamo al nostro “tuffo di Pietro”. È significativo che Pietro riconosca Gesù che si erge sulla riva non da sé stesso, ma grazie ad un’imbeccata del discepolo amato.
Che bello: chi d’impeto si tuffa, come un innamorato che d’improvviso veda la sua bella nella folla, è Simone. L’atto di memoria, lo slancio del cuore, è sempre personale: è mio e tuo. Eppure è come se non potesse essere innescato senza l’aiuto dei tanti Giovanni che il Signore ci mette accanto, come compagni di cammino.
Un altro passo del IV vangelo, sempre con protagonista Pietro, illustra questo punto ancora meglio. Si tratta della famosa scena del triplice rinnegamento.57 Tra i dettagli di questo racconto, vi invito a fare attenzione soprattutto al fuoco vicino al quale Pietro si trova quando rinnega Gesù:
La giovane portinaia disse a Pietro: «Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?». Egli rispose: «Non lo sono». Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava. (Gv 18,17-18)
Anche in questo caso, come al solito, è cosa buona e giusta chiedersi: perché mai Giovanni, dopo averci raccontato dei primi due rinnegamenti, spende un intero versetto per informarci che i servi e le guardie si trovavano attorno ad un fuoco a causa del freddo, e che anche Pietro se ne stava lì con loro per scaldarsi? Che ci importa?
È chiaro che anche qui non si tratta di puro amor di cronaca. No, Giovanni ci sta ancora una volta invitando a leggere tra le righe (con gli occhi della fede!). Chiediamoci dunque: cosa rappresentava il fuoco (o più precisamente il focolare, cioè il fuoco acceso dall’uomo) nell’antichità? La risposta, per noi moderni meno immediata, è: focolare è per l’uomo antico sinonimo di casa. Dove c’è una casa c’è un focolare, c’è il fuoco. Ma la casa è anche il luogo in cui l’uomo vive con la sua famiglia, con altri. Il fuoco allora passa immediatamente a simbolizzare quel riparo, quella fonte di sicurezza che ogni individuo trova nel suo clan. La vera casa, il vero focolare dell’uomo sono i suoi legami. L’uomo è relazione, è un «animale sociale» diceva Aristotele.58 Il che in negativo significa: quando ti ritrovi solo contro tutti, quando non hai il sostegno dei “tuoi”, pur di avere un posto attorno al focolare, ti ritrovi, senza neanche accorgerti, a rinnegare anche tua madre. Perché a star soli non ce la si fa, fa troppo freddo. Ed il freddo non solo taglia le gambe: annebbia anche la vista…
Permettetemi un breve excursus autobiografico, prima di chiudere. Come qualcuno di voi sa, prima di andare in America, ho passato in Russia cinque anni. Ebbene, mi impressionava sempre, nell’ascoltare i racconti della mia anziana professoressa di russo sugli anni di Stalin, il fatto che persone anche di grande levatura – letterati, filosofi, scienziati – avessero potuto dimostrare un simile entusiasmo per Stalin ed il suo regime. Certo, non si può generalizzare. E tuttavia, l’idea che mi feci allora è che perlomeno alcune di queste a suo tempo illustri personalità fossero in buona fede. Alcuni certamente recitarono una parte per paura. Ma qualcuno sembra proprio fosse sincero. Come si spiega? A mio parere, si spiega col fatto che quando sei circondato da gente che tutta quanta la pensa in un certo modo, che ti ripete da mattina a sera che il verde è arancione, finisci per convincerti che sei tu che sbagli e che veramente il verde è arancione, “arancionisssimo”! A tal punto è forte in noi non tanto l’istinto di conservazione, quanto il bisogno di comunione.
Si capisce così la necessità vitale di quella che Giussani chiama «immanenza ad una comunionalità vissuta». In un mondo in cui tutto cospira a convincerci che i «pazzi siamo noi» – per fare il verso al grande De Gregori,59 è di fatto impossibile non finire per adeguarsi e vivere come tutti se non si ha un “focolare alternativo”, capace di scaldare con la sua fiamma il nostro cuore fino al punto da farlo ardere d’amore per Cristo, costi quel che costi; capace di rischiarare con la sua luce le nostre menti, altrimenti così facilmente esposte a cadere in balìa di «qualsiasi vento di dottrina».60
Non a caso, c’è un solo altro focolare in tutto il vangelo di Giovanni, oltre a quello presso cui Simone rinnega Gesù. È il focolare attorno a cui i sette discepoli si raccolgono insieme, invitati dal Risorto.61 Come dire: ciò che trasforma Simone da vile rinnegatore in intrepido testimone del Signore, capace di dare la vita per Lui (cfr. Gv 21,18), non è solo la “sua” individuale fede nel Signore. È anche il permanere in quella comunione ecclesiale, che è il luogo concreto in cui questa fede è continuamente riattizzata – il luogo concreto in cui Egli continuamente si rende Presente, fino al giorno del Suo Ritorno.
Come avrete notato, il terzo dei tre pilastri del carisma che erano all’ordine del giorno non è stato trattato. Perciò vorrei lanciarlo come provocazione e come sfida (quindi da meditare) anche in preparazione dell’assemblea. Mi limito a leggerlo e ad affidarlo alla vostra riflessione e magari ai dialoghi tra voi, fino all’assemblea di domani. Sarebbe bello che qualche spunto emergesse anche su questo. È come se ci facesse vedere l’altra faccia della medaglia del punto due. Il punto due era che la memoria genera la comunione. Il punto tre è l’insistenza sul fatto che la memoria di Cristo inevitabilmente tende a generare una comunionalità visibile e propositiva nella società. Come dire: la comunione genera la memoria e la memoria genera a sua volta la comunione.
Note