Don Ignacio Carbajosa – Tratto da “Diario di un sacerdote in un ospedale Covid”; pp. 95-100.
Leggo questo articolo su “La Vanguardia” di oggi:
“La notizia del suicidio della Dott.ssa Lorna Breen è una delle più tristi di questa terribile pandemia. Aveva 49 anni e dirigeva il pronto soccorso del New York Presbyterian Hospitale. In queste ultime settimane ha lavorato in prima linea per combattere il Covid 19. Come molti altri operatori sanitari a contatto con i contagiati, si è ammalata. Si è ripresa in fretta e voleva tornare al lavoro, ma l’ospedale l’ha rimandata a casa. Ha raccontato a suo padre l’insopportabile esperienza di vedere morire tanti malati. “Ha cercato di salvarli tutti e questo l’ha uccisa” […] La sfortunata fine di questo medico descrive la profondità del pozzo in cui ci troviamo: i limiti della scienza, l’impotenza della professione medica, lo stupore e la disperazione che suscita una pandemia per la quale non eravamo preparati [Antoni Puigver, Il suicidio di Lorna Breen, 29 aprile 2020]
L’articolo mi coglie pronto a capire. So cosa vuol dire l’inferno che ha visto quella dottoressa di New York. Capisco l’abisso su cui si è affacciata […]
Quel baratro non mi ha lasciato indifferente. Mi ha ferito. Ma allo stesso tempo non smetto di ringraziare in silenzio per la grazia che mi ha toccato: aver conosciuto Gesù Cristo all’interno della vita della Chiesa, in un modo così reale come lo conobbero i discepoli. Lui è stato una compagnia reale in questi giorni in ospedale, reale come gli amici con cui vivo la fede da 35 anni.
Mi guardo indietro e penso i miei drammatici 16-18 anni, quando la stessa domanda sul dolore ha aperto un abisso di insignificanza che ho vissuto in profonda solitudine. L’ipotesi di Dio non mi sembrava ragionevole allora. Solo ciò che potevo toccare, vedere, sentire, misurare era reale. Fu allora che il Signore si chinò sulla mia piccolezza e si fece carne entrando nella mia vita con la stessa concretezza con cui entrò in quella di Giovanni e Andrea, i primi che incontrarono Gesù sulle rive del Giordano […]
Sono stato cappellano dell’ospedale per quasi un mese, assistendo i pazienti Covid 19. In questo periodo, la mia ragione e il mio affetto sono stati sfidati da un problema di conoscenza: cos’è il dolore? cos’è la morte? e di conseguenza, cos’è la vita? Ogni giorno devo guardare in faccia queste domande, stando di fronte a persone malate che soffrono e muoiono.
In questi giorni mi è diventato chiaro cosa significa […]: “la creatura nuova ha una mens nuova, una capacità di conoscere il reale diversa da quella degli altri”, e cosa significa che l’origine di questa nuova conoscenza è “l’adesione a un avvenimento”.
In ospedale non si può fingere, nessuno può guardare dall’altra parte, siamo tutti di fronte al fatto della sofferenza e della morte. Questo è il problema di conoscenza che tutti noi dobbiamo affrontare. Lo sguardo analitico [razionalista ndr.] sulla realtà [non c’è nulla al di là di ciò che posso misurare] che continuamente si insinua in me, sembra concludere che tutto finisce nel nulla: non siamo altro che fisica e chimica, l’unica legge della vita è quella che segue questo virus, cioè la legge della scienza. Da questo si dedurrebbe che non c’è un disegno buono: siamo tutti frutto del caso, della sorte. Tutti sembrano guardare la realtà in questo modo, anche se non sempre si esprimono in questi termini. Di conseguenza, il resto non è altro che poesia, compreso ciò che viene chiamato “religione”: una bella e allo stesso tempo assurda consolazione per chi sopravvive.
Uno sguardo come questo mi soffoca. Perché? Riecheggiano in me le parole di un buon amico: “se soffochi sei positivista [razionalista ndr.], cioè guardi la realtà senza tener conto di tutti i suoi fattori”.
E allora che inizia per me il lavoro della ragione, quello stesso lavoro che Gesù costrinse i suoi discepoli a fare nella barca, quando, il giorno dopo la moltiplicazione dei pani si preoccuparono perché avevano dimenticato il pane [cfr. Mt 16,5-12] avevano davanti a sé il panettiere e l’avevano già dimenticato!
È lo stesso lavoro che devo fare io, che ho visto molti miracoli con i miei occhi. Non è una riflessione astratta, intellettuale, che si sforza di analizzare tutti fattori in gioco. È il lavoro di una ragione “coinvolta affettivamente in un avvenimento”: posso pensare a partire dalle cose che il Signore suscita nella mia vita, degli avvenimenti che i miei occhi vedono, e accompagnato da persone che hanno “il pensiero di Cristo”, come direbbe San Paolo [1Cor 2,16].
“Nacho, chi hai conosciuto in questi anni? Chi è entrato nella tua vita? Chi ha attirato la tua ragione e il tuo affetto? Vuoi ridurre tutto zero?”
Posso dire con certezza di aver conosciuto il mistero di Dio fatto carne. Colui che sostiene il mio essere in questo momento è entrato nella storia e io l’ho conosciuto. È allora che respiro di nuovo, non in virtù di un nuovo miracolo capace di cambiare lo stato d’animo [come volevano i discepoli di Gesù], ma come frutto di un cammino della ragione che riconosce di nuovo ciò che, effettivamente, esiste. Lo stesso cammino che Gesù costringe i suoi discepoli a fare sulla barca, affinché si rendano conto di chi è con loro.
Allora viene alla luce la menzogna implicita in quello sguardo analitico [razionalista] sulla realtà che sembra concludere che tutto finisce nel nulla […] L’avvenimento particolare storico di Gesù [la sua vita morte e resurrezione] non avrebbe la capacità di spiegare un problema universale della ragione, come la morte. Ma chi dice che sia così?
Quando entro in ospedale, questo avvenimento nuovo che ha cambiato la storia entra con me. Entra una conoscenza nuova di quel problema che tutti devono affrontare: la sofferenza, la morte. E mi sorprende vedere che l’avvenimento di Gesù dilata la mia ragione, almeno in due sensi.
In primo luogo mi permette di sapere che prima del fatto della morte c’è la sorpresa di fronte al fatto di essere. Non si può concludere che tutto è niente! Questa è una menzogna che si sta diffondendo in mezzo a noi. È vero, siamo una realtà contingente, ma contingente non significa casuale, senza scopo. Infatti, “l’uomo è quel livello della natura in cui la natura diventa esperienza della propria contingenza. L’uomo si sperimenta contingente: sussistente per un’altra cosa, perché non si fa da sé [io sono fatto da un altro; sono rapporto con il Mistero che mi da la vita ndr.]”.
In secondo luogo l’avvenimento di Cristo che mi ha toccato nella mia storia personale mi ha fatto conoscere il volto di quel mistero che la ragione può intuire nel dato delle cose. Senza questo particolare evento storico, non avrei potuto conoscerlo. Ma l’ho conosciuto! La mia coscienza si è imbattuta in lui nella storia.
E così entro in ospedale con questa novità di conoscenza, con questo annuncio lieto, oggi più che mai necessario, perché i malati sono soli nelle loro stanze, senza marito e moglie, senza figli.
E posso sussurrare all’orecchio dei malati gravi ciò che Giussani dice, più pertinente che mai: “C’è un rapporto col Mistero che fa tutte le cose, col Mistero fatto carne, uomo, Gesù, che è immensamente più umano, più mio, più immediato, più tenace, più tenero, più inevitabile del rapporto con chiunque – con la madre, col padre, con la fidanzata, con la sposa, con i figli [sembra l’elenco dei parenti che non possono accompagnare i malati negli ospedali!] -, del rapporto con tutti e con tutto”
Questa è la novità che è entrata nella storia attraverso un avvenimento particolare: c’è un rapporto con il Mistero [Dio] che si è fatto carne più inevitabile e tenero del rapporto che ho con mia madre! Gesù morto e risorto introduce una nuova luce sulla morte. Una conoscenza nuova. La creatura nuova ha questa conoscenza nuova, questa nuova mens.