Dalla solitudine al focolare

don Massimo Camisasca – tratto da “La luce che attraversa il tempo”

Sono convinto che il vero dramma dell’uomo contemporaneo sia la solitudine. Potrebbe apparire paradossale, un controsenso. Infatti non c’è mai stata un’epoca come quella attuale in cui, almeno apparentemente, tutti possono essere in contatto continuo con gli avvenimenti del mondo, con le notizie, con le riflessioni, con gli studi. Eppure è profondamente vero che il nostro è un tempo di grande solitudine. Lo si legge sui volti di molte delle persone che ci attraversano la strada.

La solitudine può avere caratteristiche molto diverse: talune positive, talaltre negative. Quanto più si va avanti nel tempo e nell’esperienza della vita, tanto più si scopre che esistono due tipi di solitudine: una è buona e necessaria; l’altra è cattiva e distruttiva.

La solitudine buona e necessaria è quella che descrive un aspetto originario della nostra natura creaturale, è la solitudine che ci spinge verso Dio. Essa coincide con la scoperta che solo lui può riempire il fondo del nostro essere.

Tutti hanno bisogno di vivere questa solitudine, soprattutto i cristiani che, per vocazione, hanno il compito di creare legami fra il cielo e la terra, fra l’uomo e il suo destino, fra il finito e l’infinito. È una solitudine buona che ci rilancia nella vita e ci permette di entrare in un rapporto più profondo e più vero con noi stessi e con gli altri.

La solitudine cattiva – nella quale molte persone vivono stabilmente e da cui probabilmente nessuno, almeno in alcuni momenti della vita, è preservato – è quella che ci porta a chiuderci in noi stessi e a escludere il rapporto con gli altri, o anche solo la possibilità di lasciarsi aiutare da qualcuno. Direi che la solitudine cattiva dell’uomo contemporaneo è la solitudine dell’orfano, di chi non riconosce un padre – un’autorità – nella sua vita.

Sappiamo bene come – dal Sessantotto in poi, ma in fondo in tutta l’età moderna – sia stata condotta, da parte delle élite dominanti, una lotta senza quartiere contro l’esperienza dell’autorità, cioè contro la figura di chi può aiutare l’altro a crescere come persona, dal punto di vista interiore ed esteriore. Si sono sviluppate così le teorie dell’auto-educazione e dell’auto-crescita, e in questo modo si sono poste le fondamenta del grande individualismo che domina il nostro tempo. È vero che questa lotta contro l’autorità, come ho già rilevato, è stata condotta anche a causa dell’autoritarismo, cioè di un’autorità che voleva imporsi senza spendere qualcosa di sé stessa, senza sacrificio di sé, senza condivisione, senza donazione. Ma essa ha finito per minare profondamente nella coscienza degli uomini qualcosa di essenziale e ha condotto la società verso un precipizio.

Oggi si inizia ad avere percezione critica di tutto ciò, ma l’assenza del padre rimane, a mio parere, la questione fondamentale della crisi della società, come anche della Chiesa. L’educazione individualistica che abbiamo ricevuto, a volte anche all’interno della stessa Chiesa, pone degli ostacoli enormi al riconoscimento della necessità e della bellezza della vita come sequela e rapporto con un padre. In fondo si pensa che il singolo può gestire e risolvere da solo i problemi della vita, tutt’al più con il consiglio di un amico o di un’autorità occasionale, magari aiutandosi con una teoria rintracciata in un libro o su Internet. Ma fondamentalmente da solo, senza l’implicazione con qualcuno cui affidarsi e da cui imparare. Accade la stessa cosa, purtroppo, anche in tante comunità ecclesiali dove si vive il rapporto con Dio in modo intimistico, spiritualistico. L’individualismo spirituale, che esalta la genialità del singolo o gli interessi di parte a scapito della comunione e della carità, diventa la negazione stessa della vita che Cristo ha consegnato alla sua Chiesa. Tutto ciò, oltre che determinare o approfondire problemi affettivi, psicologici, familiari e sociali, logora il cuore dell’uomo poiché mina alla radice la struttura stessa del suo essere, fatto a immagine di Dio, nella comunione e per la comunione.

La solitudine e i drammi che ne derivano risulta a mio parere l’aspetto più emblematico nelle grandi città secolarizzate, luoghi in cui spesso non ci si conosce, neppure tra persone che vivono nello stesso piano del condominio, e in cui tutto tende a essere funzionalizzato all’utilità del proprio lavoro, dei propri interessi e dei propri piccoli orizzonti.

Penso, per questo, che il primo compito della Chiesa oggi sia di costituire dei focolari. Mi piace l’immagine del focolare perché essa racchiude in sé tre valori fondamentali. Innanzitutto il valore della luce. Un tempo il focolare illuminava la casa, il luogo dove si svolge la vita. Nello stesso tempo, riscaldava e «attirava» a sé. Nel focolare troviamo così emblematicamente racchiuse tre strade per uscire dalla solitudine.

La prima è una strada intellettiva: aiutare le persone a camminare verso la verità, a uscire dalla menzogna su cui si regge la vita quotidiana che non conosce Dio. Non è necessariamente la menzogna di peccati clamorosi, ma più generalmente la falsità di una vita superficiale, senza grandi ideali che, infine, si esprime nella banalità e nel cinismo. Il secondo scopo del focolare è quello di riscaldare: esso aiuta le persone a scoprire o riscoprire quali sono i legami fondamentali della vita, a riconoscerli e a viverli. Il terzo compito è quello di «attirare» a sé, cioè mostrare quanto questa verità e questo bene siano attrattivi per l’esistenza, corrispondenti ai più profondi desideri inscritti nel cuore dell’uomo, capaci di generare rapporti veri, costruttivi, fecondi.

Com’è possibile creare dei focolari? Esistono due tensioni fondamentali: una prima tensione in uscita e una seconda in entrata. La tensione in uscita è quella a cui tante volte ci ha rimandato papa Francesco. Questa tensione ci ricorda qualcosa di essenziale e cioè che non dobbiamo attendere che le persone vengano da noi, ma dobbiamo essere noi a cercarle. La tensione in entrata sta nell’indicare e nel condurre queste persone a un luogo che esiste: una comunità, una casa, un’amicizia. Non si parte mai da zero. Il desiderio stesso di andare incontro alle persone, quando è autentico, nasce sempre da un’esperienza positiva in atto.

Le persone non vanno solo cercate e incontrate nelle periferie fisiche o esistenziali in cui si trovano. Esse hanno bisogno di incontrare un luogo in cui la loro umanità possa essere accolta, raccolta e rilanciata. Hanno bisogno di una comunità che faccia loro scoprire la bellezza, il calore e la luce della comunione per cui sono fatte. Hanno bisogno di sentire l’annuncio di Cristo che le perdona e le libera.
La strada per incontrare veramente una persona è aiutarla a entrare in rapporto con la persona stessa di Cristo che viene a noi nella realtà della Chiesa. Non si possono fare calcoli -non si può dire: «Questa persona non è pronta», «Dobbiamo aspettare ancora questo e quest’altro» -perché in realtà l’iniziativa di Dio ci precede sempre, attraverso lo spirito lavora nei cuori delle persone per renderle terreno aperto all’incontro con la sua parola, con l’eucarestia, con la rivelazione del suo volto di Padre.

I focolari di cui parlo sono le piccole o grandi comunità al cui centro c’è un’esperienza di comunione vissuta tra sacerdoti e famiglie. Sono come città poste sul monte, che attraggono con la luce della loro amicizia, della loro fede profonda e sincera, della loro carità verso i fratelli, della loro speranza creativa. Che costituiscono quella casa per i popoli di cui parlano i profeti, in particolare Isaia (cfr. Is 56,7).

L’immagine della casa, della dimora, appare nella prima domanda, nella prima richiesta che registriamo sulla bocca degli apostoli, secondo il Vangelo di Giovanni : «Maestro, dove abiti? Dove dimori? Dove è la tua casa?» (cfr. Gv 1,38). La casa ci parla di un’esigenza fondamentale dell’uomo di ogni tempo, ma in particolare del nostro, del suo bisogno di essere accolto, amato, del suo bisogno di punti di riferimento, di stabilità, di pace.

Ma essa non è un’immagine chiusa, né borghesemente pacificante. La casa va edificata ogni giorno, ogni giorno vanno allargate le sue mura per far posto a tutti coloro che incontriamo o che bussano alla porta. Le pietre della casa siamo tutti noi, uomini e donne chiamati con il battesimo a entrare con i nostri doni nella costruzione della casa di Dio. Essa è edificata sulla pietra angolare che è Cristo e si esprime nelle diverse vocazioni ecclesiali (cfr. Ef 2,19-22).

La Chiesa si è sempre sviluppata attraverso i doni dello spirito che lungo la storia hanno creato diversi focolari, ripresentazioni vive e originali del primo e paradigmatico focolare che è quello costituito da Gesù con i suoi apostoli, a sua volta immagine dell’eterno focolare che è il rapporto tra il Padre e il figlio nello spirito. […] Qualunque sia la forma esteriore in cui una piccola o grande comunità si esprime, non può mai venir meno in essa la radice di grazia che sono i sacramenti e l’annuncio della fede. Allo stesso modo, non deve mai mancare il giudizio sulla verità e sulla storia, perché senza questo la fede rimarrebbe bambina e sarebbe uccisa dal mondo. Infine, non può mancare l’esperienza della carità come possibilità quotidiana di toccare la carne di Cristo.

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