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Tratto dal libro “La solitudine spezzata” di Erik Varden

Maïti nacque nel 1922 da madre francese e padre svizzero. La sua nazionalità svizzera e la conoscenza del tedesco giocarono un ruolo importante nella sua storia. Suo padre, un convertito al cattolicesimo, morì quando lei aveva quattro anni. La vedova portò i suoi due bambini a Parigi, per crescerli nella casa dei suoi genitori, Marie-Louise e Paul Rougnon. Rougnon – allievo di César Franck e maestro di Alfred Cortot – era a quel tempo andato in pensione dalla sua cattedra presso il Conservatorio di Parigi, ma ancora dava lezioni a casa, considerato come uno dei migliori insegnanti di musica del suo tempo. Sotto la sua guida benevola, Maïti capì fin dall’infanzia che desiderava diventare una pianista, e che possedeva il talento necessario.

Quando la guerra iniziò, la famiglia aveva già lasciato Parigi per una proprietà a Bonnes, una città lungo il fiume Vienne, vicino a Poitiers. Nel giugno del 1940 l’armata tedesca vi entrò e la casa dei Rougnon venne requisita come residenza per gli ufficiali. Bonnes si ritrovò al confine del territorio occupato, appena dall’altra parte del fiume c’era una terra di nessuno che portava nella zona franca controllata dal governo di Vichy. Presto, Maïti iniziò a far attraversare il confine ai prigionieri evasi. La sua attività si intensificò e si uni a quella di una rete di resistenza locale. Usò la sua gioventù e il suo bilinguismo come scudi protettivi. Con il tempo, usò anche il pianoforte. I concerti per l’élite tedesca le offrivano la possibilità di raccogliere informazioni e di intercedere per i compagni arrestati. Anche se lavorò duramente per mantenere la sua copertura – una giovane donna, ingenua e di buona famiglia – le sue attività vennero sempre più tenute sotto controllo. Una sera dell’ottobre del 1943, venne arrestata e portata nei quartieri generali della Gestapo in avenue Foch per un interrogatorio iniziale. Venne poi mandata con altri quattro prigionieri in un edificio nell’angolo d’Europa, sull’Atlantico, dove la Francia si incontra con la Spagna. Restò lì per quattro mesi, sottoposta a raffinati metodi di tortura.

Ai prigionieri, dapprima quasi due dozzine, venne vietato di parlare tra di loro. Erano frequentemente interrogati. La tortura fisica inflitta era intenzionalmente punitiva: supervisionata da un giovane dottore, consisteva in metodiche bastonate alla base della colonna vertebrale. Lasciava poche tracce all’esterno, ma internamente causava terribili danni: i colpi danneggiavano la spina dorsale e il sistema nervoso centrale. Ogni sessione lasciava a Maïti un dolore debilitante. Vedeva morire i compagni a causa di tale trattamento; e almeno uno si suicidò.

Nel febbraio del 1944, ormai incapace di stare in piedi, stava quasi per crollare. La morte non sembrava una prospettiva lontana. Ciò che la salvò fu una missione di salvataggio sotto protezione della Croce Rossa svizzera. Venne ricoverata in ospedale e fu sottoposta a delle cure, ma il danno era irreparabile: visse con un dolore cronico per tutto il resto della sua vita. Le fu impossibile rimettersi al pianoforte. Sapeva che le mancava la forza di formarsi una famiglia. Passò la sua vita dando lezioni a casa e impegnandosi in attività caritative, fedele al suo impegno di terziaria domenicana. Morì il 28 marzo 2014, all’età di novantadue anni.

Se fosse questo tutto ciò che c’è da sapere di Maïti Girtanner, la sua storia sarebbe epica, ma anche intercambiabile con innumerevoli altri destini di vite devastate dalla guerra. Ciò che rende unica Maïti è la sua resilienza spirituale, un’instancabile determinazione a dare un significato cristiano a ciò che la sua vita era diventata e a viverla con radicalità cristiana. Appena dopo la guerra formulò il proprio programma di vita: “Non farò della mia vita una tragedia”. […] Cercò di dare un ordine a ciò che aveva subito in modo da renderlo comprensibile, lottando per strapparlo alle mani del caos; ed era ben decisa a non lasciarsi spezzare. In tutto ciò, era guidata dalla sua fede. Il suo lavoro per la Resistenza era nato da un senso del dovere che, allo stesso modo, ha illuminato, ha illuminato la sua prigionia. 

Si assunse la responsabilità morale del bene dei suoi compagni di prigionia. Sfidando il silenzio imposto dalle guardie, parlò ai suoi compagni e li fece parlare l’uno con l’altro, perché “un essere umano è soprattutto un essere che si esprime”. Rifiutò di lasciare che l’umanità venisse resa muta. Testimoniò la sua fede di fronte a uomini e donne sottoposti a torture e prossimi alla morte Parlò della vita eterna, presentandola come “la certezza di toccare il nostro vero scopo, di conoscere finalmente perché, e soprattutto per chi, siamo stati creati”.

Si assunse la responsabilità della propria salute mentale. Quando le fu chiesto come avesse fatto a tenere insieme se stessa quando il suo corpo era sommerso dal dolore, rispose: “Ho resistito nella mia mente. Coltivò la certezza che le fila di ciò che stava vivendo erano intessute in una storia che, con il tempo, avrebbe rivelato il suo significato, forse perfino una qualche bellezza. Lei lo sapeva: “Finché riuscivo a orientare i miei pensieri, finché riuscivo a pregare, ero io a vincere”.L’esempio di Cristo la sosteneva. Così come lui “doveva” soffrire, anche lei si aggrappò alla convinzione che la provvidenza fosse all’opera nel suo dolore.

Da ultimo, lei si assunse la responsabilità per i suoi carcerieri. Il comandamento di Cristo risuonava in lei come un imperativo morale non negoziabile.

“Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano… Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?” (Mt 5,44-46). Queste parole di Gesù erano una presenza viva in me durante le settimane di prigionia, perfino in quei momenti in cui il dolore raggiungeva un livello che non avevo mai conosciuto né immaginato prima. La vedo come una grazia, questo essere stata abitata fin dall’infanzia da quella parola di vita, e di non aver ceduto a pensieri di morte.

Si sforzò di pregare per i suoi aguzzini, in particolare per il medico che supervisionava la loro crudeltà. “Già allora, il desiderio di vederlo salvo alla fine era nato dentro di me in profondità”.Era un desiderio libero da ogni sentimentalismo. A uno sguardo retrospettivo, esso acquistò una lucidità priva di paura: “Il mio modo di augurargli di essere salvato era anche augurare a me stessa di sconfiggere il male che portavo dentro di me, del quale io stessa ero complice”.

Dopo la liberazione, iniziò una nuova battaglia. Maiti si trovò a tu per tu con la normalità che contrastava non solo con la sua vita precedente alla guerra, ma anche con le sue speranze per il futuro.

Soffrire, per me, non fu una fase transitoria, ma un modo di esistere. È davvero dura ammettere una cosa del genere. Viviamo sempre nella speranza che le nostre ferite passeranno. Ci aspettiamo che le fila della nostra vita si ricolleghino. Nel mio caso, andò in modo diverso. Era semplicemente una questione di costruire su fondamenta nuove, che non avevo scelto io.

Il desiderio per la musica era intenso, per un po’ la terapia le diede la speranza che forse, un giorno, avrebbe potuto riprendere a suonare. Ma non sarebbe accaduto. Maïti comprese che doveva voltare pagina, che non doveva “strappare alle mani del destino ciò che avevo dovuto donare senza riserve”. Questa determinazione a fare un dono di ciò che le era stato tolto cambio sua esistenza. Una certezza sorse in lei: “Non dovevo avere nostalgia per ciò che ero stata o per ciò che sarei potuta diventare. Invece, dovevo amare ciò che ero e cercare ciò che avrei potuto essere”. Abbandonò un progetto di vita pensato in termini di possibilità per uno pensato in termini di realtà. Lo dice con enfasi: “E stato un lungo viaggio. Nulla è accaduto dal giorno alla notte. Ma questa è la condizione, a un tempo della redenzione e di ogni battaglia”. 

La grande preoccupazione di Maïti era di perdonare. Il male che sperava di combattere in se stessa era, soprattutto, il male del rancore, del rimanere aggrappata a ciò che era sbagliato. Il suo corpo non le permetteva mai di dimenticare ciò che aveva sofferto. […] Avendo combattuto questa battaglia, riflette in modo struggente, in tarda età, sulle parole di Cristo a proposito di Giuda: “Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato” (Mc 14,21).

Trent’anni fa lo avrei letto come una condanna. Ma con il tempo – per opera della grazia o perché la tarda età sta smussando i miei angoli appuntiti – ho cominciato a capire che ciò che Gesù dice è una parola di compassione: “Ma è terribile! Che sciagura che quell’uomo si sia spinto fino a questo punto!”

Applicare questa crescente intuizione di compassione alla propria esperienza divenne l’obiettivo della sua vita. Pregò di riuscire a perdonare dal profondo del cuore, di non serbare traccia di amarezza, ma vide che l’opera non poteva essere compiuta da una parte sola: “Perdonare non avviene in modo astratto; richiede la presenza di qualcuno a cui il perdono possa essere indirizzato, qualcuno da cui possa essere ricevuto”. Desiderava perdonare, ma non poteva ignorare la domanda: “Ho perdonato?”.

Un momento inaspettato di prova avvenne nel 1984. Venne contattata dal medico che, quarant’anni prima, aveva ideato la tortura che aveva rovinato la sua vita. Ormai anziano, gli era stata diagnosticata una malattia terminale. Temendo la morte, si ricordò di ciò che Maïti aveva detto a proposito dell’eternità, e desiderava sapere: era vero? Maïti confermò la propria convinzione. La conversazione volse al loro ultimo incontro e ai suoi effetti su di lei. Permise al visitatore di chiederle perdono e permise a lei di concederglielo. Quando lui si chinò su di lei (a causa del forte dolore, quel giorno, Maïti stava sdraiata sul divano), essa prese la sua testa tra le mani e lo baciò sulla fronte.Era stato un gesto, affermò più tardi, che non era premeditato ma che “non avrebbe potuto non accadere”. Dopo aver visto il proprio perdono confermato, “una persona non è più la stessa”. Abbiamo la sua testimonianza che il suo visitatore era cambiato allo stesso modo. […]

Tutto il percorso di Maïti Girtanner come résistante potrebbe non venir mai completamente delineato, era tra le ultime della sua generazione. Ciò che è al di là di ogni dubbio è la coerenza della sua determinazione a lasciare che la passione di Cristo fosse non solo un oggetto di devota meditazione, ma un elemento su cui edificare la vita.

Rileggendo i capitoli finali del Vangelo secondo Marco, osservò che: “Attraverso la passione, la morte e la resurrezione, il motivo ricorrente è l’apertura. È un motivo tanto più in evidenza perché il simbolo della chiusura è il peccato. L’apertura sovrasta la chiusura”. Da ciò trae un insegnamento: “Una vita chiusa su se stessa non porta alcun frutto”. Questa è una sintesi intelligente ed esistenziale del sacrificio di Cristo. Descrive la dinamica attraverso la quale un seme di perdono può schiudersi, germinare, crescere e liberare il suo potenziale settanta volte sette (cf. Mt 18,22). Mostra il lento maturare del coraggio richiesto per ricevere e rendere viva la grazia redentiva di Cristo. È un fine per il quale vale la pena di impegnarsi con tutte le forze, dovesse anche richiedere quarant’anni di esodo. 


LA PIANISTA E QUEL RITMO NON SUO

Silvia Guidi

Quello che colpisce, in Maïti Girtanner, è la razionalità delle domande. E, di conseguenza, la razionalità delle risposte. Oltre a una lealtà, una lucidità di giudizio talmente grande da lasciare sconcertato chiunque venga raggiunto dalla sua storia. 

Anche l’odio è un legame, un vincolo difficile da spezzare. Un fatto impossibile da ignorare la lega per sempre al suo carnefice, il giovane medico nazista Léo: quattro mesi di torture, durante la Seconda Guerra mondiale. Bastonate sui centri nervosi della spina dorsale, subendo lesioni gravi, permanenti, che le impediranno di avere una esistenza “normale”, e di suonare il suo amato pianoforte. A 18 anni, nella stagione della vita più colma di promesse. 

Adesso che farò della mia vita? si chiede Maïti. Affonderò in un lamento perenne? Sarò per sempre inchiodata al passato? Il rimpianto su ciò che poteva essere e non è stato avvelenerà ogni singolo giorno che mi resta, con il suo soffocante, nauseabondo tepore, con il sapore stantio di un rancore covato a lungo?

La sorte di Léo le interessa, in senso letterale si è “messa in mezzo” nella sua vita. E arriva il momento di dimostrarlo. Un giorno Léo trova il coraggio di chiamarla, e di chiederle di essere perdonato. Lei accetta di vederlo. E di perdonarlo. 

Come misericordia non è una parola umana, ma una parola divina, che si spiega, cioè, solo con il diretto intervento di Qualcuno che è “di più” dell’uomo, così il perdono non è naturale. È “contro-natura”, totalmente opposto a ogni umana istintività. Ma Maitiè è una musicista sa cosa vuol dire obbedire a un ritmo non suo, a intervalli di note scritte da altri. La sostiene la certezza che la vita non è inutile, anche se sfigurata dal male. Un male inferto o subito, ma sempre pericoloso, anche a distanza di decenni, come una bomba inesplosa che conserva ancora tutto il suo potenziale di distruzione. Capace di uccidere ancora.

La libera la scoperta che si può ancora danzare, che c’è una musica che può ancora essere suonata, senza usare le dita, senza bisogno di un pianoforte. Anche con i centri nervosi della spina dorsale fuori uso per sempre (o meglio, per tutti i rimanenti della vita terrena, poi si potrà danzare per sempre nell’abbraccio dell’Eterno). Il dialogo costante tra creatura e Creatore è il segreto della forza non-umana, inspiegabile di Maiti, lo spartito che le è toccato in sorte, e che ha deciso, con tutta l’energia della sua affettività e della sua sensibilità (e disciplina) di artista, di interpretare nel modo migliore possibile.