don Paolo Prosperi – Sintesi della convivenza giovani di CL che si è svolta ad Assisi [1] dal 23 al 26 marzo 2023.
La lezione che Prosperi ha tenuto durante la convivenza di Assisi l’abbiamo già pubblicata e la trovi qui.
Il libretto con tutti i contributi lo trovi qui.
Bene, questa mattina tiriamo un po’ le fila. Non è facile farlo, perché – come un amico mi ha detto ieri sera – questi giorni sono stati “un gran bel caos, in senso buono”. Cosa l’amico intendesse dire, a dire il vero non lo so. Io traduco le sue parole così: in questi tre giorni è successo ed è stato detto molto, il che rende assai arduo fare una vera e propria sintesi. Mi limiterò perciò a “lanciare” tre punti, che più che portare a sintesi quel che è accaduto e s’è detto, intendono segnalare una traiettoria di cammino, che quel che è emerso mi pare indicare.
1. Lasciarsi lavare i piedi: la strada della liberazione
Visto che abbiamo tanto parlato della lavanda dei piedi, sia nella lezione che in assemblea (parecchie domande e interventi vertevano proprio sulla comprensione di questo grande gesto di Gesù, segno che la zoomata su di esso ha colpito l’immaginario di molti), permettetemi di cominciare questa breve sintesi tornando ancora una volta su questa grandiosa scena del quarto Vangelo e di farlo facendone emergere il nesso con un altro dei temi centrali attorno a cui ha ruotato l’assemblea di ieri: quello del «giudizio comunionale».
Che cosa intendiamo esattamente quando diciamo «giudizio comunionale»? Ebbene, forse è proprio la lavanda dei piedi che ci può aiutare a capirlo. Lasciate dunque che vi legga il seguito del passo che abbiamo citato e commentato nel finale della lezione: «Quando dunque ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro: “Sapete [cioè capite] ciò che vi ho fatto? [L’importanza del capire]. Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene perché lo sono. Se dunque io, che sono il Signore [re] e Maestro ho lavato i vostri piedi, anche voi [per entrare nella mia regalità, per entrare nel mio nous-spirito] dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri [interessante questa reciprocità: lavare e lasciarsi lavare!]. […] Sapendo queste cose [cioè capendole, le traduzioni non sono sempre ottimali…], sarete beati”»,24 cioè sarete felici, compiuti, raggiungerete il massimo della vita che si possa desiderare già in questo mondo.
«Sapete ciò che vi ho fatto? (…) Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica…», il che si può anche tradurre: «Non è che sarete beati se vi lavate materialmente i piedi a vicenda. Non è quello che vi sto dicendo. Quel che vi sto dicendo è piuttosto che sarete beati, cioè entrerete nel gusto vero della vita, se farete gli uni agli altri ciò che il mio gesto significa, ciò di cui il mio gesto è segno», che è di più di un fare materiale. In cosa consiste questo di più? Che cosa vuol dire, “fuor di metafora”, lavarsi i piedi a vicenda?
Una parte importante della risposta è emersa bene ieri in assemblea: vuol dire vivere nel rapporto tra noi, nelle nostre comunità e gruppi di fraternità, quella “invadenza amorosa” di cui ieri si parlava – una invadenza tale per cui da una parte si ha l’audacia di correggersi l’un l’altro, il che è assai più arduo che lavarsi i piedi a vicenda (tanto più oggi, nell’era della sacralizzazione della privacy); dall’altra si fa questo in modo appunto amoroso, il che innanzitutto significa: assumendo su di sé i pesi dell’altro, soffrendo con l’altro, facendo proprio il problema dell’altro, così come Gesù, nell’inginocchiarsi per lavare i piedi ai suoi, non può che “sporcarsi le mani”, non può che lasciare che lo sporco di quei piedi entri in contatto con lui. Certo, un’invadenza che dev’essere anche discreta, cioè rispettosa della libertà dell’altro, se amorosa in effetti vuol essere: «Colui che ama – ci ha insegnato Péguy – si mette, per questo stesso […] in dipendenza […], dipende da colui che ama»,25 fa cioè sempre generosamente spazio al giocarsi della libertà dell’amato. E tuttavia d’invadenza reale si tratta, come prova la ribellione istintiva di Pietro: «Non mi laverai mai i piedi!»26 (certo, nella ribellione di Pietro al gesto di Gesù giocano anche altri elementi, vi tornerò poi).
Ora, vorrei suggerire che in un primo e (se si vuole) ordinario senso, l’espressione «giudizio comunionale» indica esattamente questo.27 È facile ridurre il giudizio comunionale al “volantino di giudizio” su questioni di attualità, politica, cultura. Invece – come si diceva ieri nel dopo-serata con un gruppo di amici pugliesi – la prima e più “carnale” forma di giudizio comunionale (carnale nel senso che tocca la carne viva dei nostri interessi e dei problemi personali) è quella del giudizio sulla nostra vita personale, in tutti i suoi aspetti. Anzi, di più: è quella del giudizio circa la verità ultima del mio io, della mia persona, come cercavo di suggerire nell’ultimo intervento che ho fatto ieri in assemblea. «Come ci si libera dall’ego performante, per entrare nella libertà di Cristo?» – qualcuno chiedeva, dopo la lezione di venerdì. Come si esce dalla gabbia del criceto? Come s’afferma concretamente in noi quell’autocoscienza nuova di cui parlava il nostro amico in assemblea, cioè quell’io capace di gratuità, perché si sa gratuitamente amato?
Nella prima assemblea molto s’è detto dell’importanza della memoria. Non torno qui su questo. Mi voglio invece soffermare sulla seconda risposta emersa in questi giorni, una risposta che mi pare non meno decisiva della prima: di fatto questo spaccarsi dell’ego autonomo, dell’io incapsulato in se stesso, avviene soprattutto attraverso quell’attivo “lasciarsi lavare i piedi” che è il desiderare di essere corretti, sostenuti, aiutati da chi ci è compagno al destino.
Tante volte noi tendiamo a pensare, magari inconsciamente, che questo aiuto consista solo nella consolazione affettiva che l’amico ci offre, nel sostegno al cammino che la presenza dell’altro al nostro fianco è. Certo, ce lo siamo detti tante volte e ce lo siamo ripetuti anche in questi giorni, la compagnia è prima di tutto questo: abbiamo bisogno continuamente di uno sguardo su di noi che ci testimoni la Misericordia di Cristo, la predilezione di Cristo per ciascuno di noi. Si può osare anche di più, come ho cercato di dire ieri in assemblea. L’amicizia, l’affetto reciproco è tanto centrale nell’esperienza del divino in cui Cristo ci fa entrare, che c’è un senso in cui è giusto dire che essa è fine non meno che mezzo, se è vero che come si accennava ieri, in Paradiso non saremo ognuno in una stanzetta solo con Gesù, ma godremo della gioia della Gerusalemme celeste, cioè della comunione coi fratelli non meno che con Dio (non entro nel merito, anche se sarebbe interessante chiedersi il perché sia così).
Tuttavia, per noi che siamo ancora in cammino, la comunione non è solo questo, non può limitarsi a questo. Cercare solo questo tipo di sostegno, il sostegno d’uno sguardo che solo ci afferma senza condizione, come non ci fosse nulla che in noi debba essere lavato, trasformato, cambiato, vuol dire negare un fattore essenziale del senso della comunione stessa, del senso della compagnia. Cristo non dice: «Fatevi le carezze gli uni gli altri». Dice, invece: «Lavatevi i piedi gli uni gli altri», il che, letto alla rovescia, suona: «Lasciatevi lavare i piedi gli uni dagli altri».
Qual è il vertice di questa dinamica? Il punto più alto di questa dinamica si chiama Sacramento della Confessione, perché andarsi a confessare significa esattamente questo: accettare che per poter camminare, per avere piedi capaci di camminare dietro a Cristo, di correre dietro a Lui, ho bisogno di lasciarmeli sempre di nuovo lavare da Lui, ricreare da Lui, rinvigorire da Lui. Da Lui, certo, mica dal prete. Eppure, attraverso il prete (il divino passa sempre attraverso l’umano, è questo il genio del cattolicesimo), il che per converso chiede a me di avere l’umiltà di mettere i miei piedi sporchi nelle mani del prete, cioè di un peccatore come me, un povero peccatore come me. E si tratta di un’umiltà più grande ancora – mi pare questo un “nota bene” niente affatto banale – che neanche se avessi davanti a me Gesù, come lo aveva Simon Pietro nel cenacolo. C’è un’umiltà da avere. Ma il premio di quest’umiltà vissuta è la libertà, una partecipazione sempre più grande alla libertà di Cristo, che è la libertà di chi consiste totalmente del gratuito amore di un Altro, del potere generatore e rigeneratore dell’amore di un Altro.
Ecco, mutatis mutandis, la vita dei nostri gruppi di fraternità, vorrebbe essere qualcosa di analogo a questo (analogo, non identico: non è che io vado a fare l’elenco dei miei peccati al gruppetto di fraternità!): un lavarsi e lasciarsi lavare i piedi a vicenda, cioè un aiutarsi nell’affronto delle sfide della vita, che nel tempo genera una libertà, una non-misura di sé che non nasce da una acquisita perfezione, da una acquisita infallibilità, ma dal fatto che quando dico io, sempre più questo dire io coincide col riconoscermi parte di un noi in cammino, parte di una comunione che mi abbraccia e continuamente mi rilancia.
Si capisce così il senso più profondo della famosa frase di Lobkowicz su CL: «Voi siete gli unici che conosco per cui l’amicizia è una virtù».28 Se l’amicizia fosse pura spontaneità, allora non sarebbe una virtù. Che sia una virtù significa che l’amicizia tra noi richiede un’ascesi, un lavoro affinché tale amicizia cresca e diventi sempre più vera. Quale lavoro? Lo abbiamo detto: il lavoro della condivisione, del confronto sui problemi concreti della vita – confronto che non è per nulla facile, specialmente in un mondo come il nostro in cui privacy e auto-determinazione sono considerati più sacri del Santissimo Sacramento. La società contemporanea ti dice: se vuoi essere libero, devi giudicare tutto da solo, non devi lasciare che nessuno invada il tuo personal space. Noi diciamo il contrario: noi diciamo che è la comunione che libera l’io (ci chiamiamo infatti Comunione e Liberazione). E cosa intendiamo con “comunione”? La comunione con Cristo presente tra noi, la comunione con quel Cristo che continuamente si china per lavarmi i piedi usando di quelle “mani” che sono i volti dei fratelli con cui mi chiama a camminare.
In sintesi: «Se non ti laverò non avrai parte con me»,29 dice Gesù a Pietro. Il che significa: ciò che rende a Pietro possibile entrare nel sentire di Cristo – viene in mente la frase di Giussani citata l’altra sera: «Il vostro problema è che non sentite come me» –, ciò che può portare Pietro a sentire come sente Cristo,30 non è il suo sforzo di seguire Cristo con le sue sole forze (sappiamo come andrà a finire quando ci proverà).31 Ma lasciarsi amare da Lui, sentire sulla propria pelle le mani di questo Gesù che tutto felice s’abbassa a lavargli i piedi. Lo stesso è vero per noi: la nostra comunione dovrebbe essere, e idealmente è, il luogo in cui facciamo esperienza di questa passione di Cristo per il nostro destino – una passione che nel tempo si comunica a noi, trapassa in noi senza che nemmeno ce ne accorgiamo, così come un bambino impara la gratuità vedendo la gioia, sentendo per così dire sulla sua pelle l’amore con cui sua mamma sta lì a fargli il bagnetto (io invece mi ribellavo sempre quando mia mamma ci provava, ero un bambino discolo, ribelle!).
2. Corrispondenza al cuore e obbedienza: una conciliazione possibile
Voglio fare adesso una obiezione a ciò che io stesso ho detto. Wait a minute, father Paolo (mi metto nei panni di un mio amico d’Oltreoceano): come la mettiamo col desiderio naturale del cuore? Siamo sicuri che tutto questo corrisponde al cuore? Non è un po’ folle questo godere nel “lavare e farsi lavare i piedi” di cui vai parlando? L’obiezione non è banale e rispondere bene non è facile. In questa sede, mi limito a buttare lì un’unica (se si vuole, un po’ provocatoria) osservazione: tutto dipende da ciò che si intende per desiderio naturale del cuore. È chiaro che da un punto di vista mondano, cioè di ciò che il mondo considera “corrispondente”, Gesù sembra un folle – così come un folle sembrò sulle prime ai più san Francesco. Mi ha colpito ieri, seguendo la spiegazione di fra Felice degli affreschi della Cattedrale superiore, la scena in cui Francesco si spoglia nudo in mezzo alla piazza di Assisi: si vede il padre che sta per menarlo e, dietro di lui, un conciliabolo di benpensanti che ridacchiano. Ebbene, non è un po’ una variazione di quel che era già accaduto con Gesù nel cenacolo? Non dimentichiamo l’istintiva reazione di Pietro: «Tu lavi i piedi a me? […] Non mi laverai mai i piedi!».32 Il che significa: «Non ha senso, è una roba da matti che tu, che sei il Messia, lavi i piedi a me, che sono il servo. Non esiste!”.
Viene a galla così la vera questione: è il gesto di Gesù ad essere folle o è Pietro che ancora è incapace di coglierne la bellezza, la grandezza, la gloria? «Quel che faccio, ora non lo capisci, lo capirai più tardi»,33 gli risponde Gesù. Che vuol dire: «Non è il mio gesto che è folle. Sei tu che ancora non capisci». E perché Pietro non capisce? Bella domanda! Per diverse ragioni, ma qui ne sottolineo una sola (non mi metto a fare una lezione di esegesi, non preoccupatevi!): perché se Pietro avesse capito tutto subito, allora non avrebbe avuto bisogno di alcun cammino dietro a Gesù, per entrare in un punto di vista nuovo sulla realtà – quel punto di vista nuovo che, come dice la Scuola di comunità che stiamo facendo,34 è il punto di vista nel quale Cristo è venuto a introdurci. Per entrare nel punto di vista di un altro, per arrivare a vedere il mondo con gli occhi di un altro, io devo muovermi, devo spostarmi dalla mia posizione di partenza per portarmi là dove è quest’altro, per assumere il punto di osservazione di quest’altro. È fisica questa, non si scappa.
Allo stesso modo, per entrare nel punto di vista di Gesù, del maestro Gesù (sia detto per inciso: non si capirebbe perché lo chiamavano maestro, se non avesse avuto nulla di nuovo da insegnare), per entrare negli occhi di Cristo io devo in qualche modo «uscire dalla terra»35 del mio punto di vista sulle cose – sull’amare e il lavorare, su ciò che è gloria e ciò che non lo è, etc. – per entrare “nella terra” del Suo punto di vista. Il che richiede un cammino, un “esodo” – per tornare all’immagine da cui siamo partiti venerdì –, un viaggio.36 Se così non fosse, vorrebbe dire che Cristo non è venuto per cambiare alcuna delle mie categorie, essendo le categorie con cui ragionavo prima di incontrarLo già perfette. Ma questo – la logica è inesorabile – equivale a rendere la fede inutile, esistenzialmente inutile, perché la fede, come dice l’enciclica di papa Francesco Lumen Fidei,37 è esattamente questo: entrare sempre di più negli occhi di Cristo, cioè nel punto di vista da cui Cristo vede tutto,38 non solo il Padre Suo ma anche la moglie o il marito, il lavoro, i bambini, etc.; un punto di vista che all’uomo naturale – anche se avesse il senso religioso di Ghandi o persino di Mosè – è inaccessibile, perché è il punto di vista di Dio, è il punto di vista dell’unico «che è disceso dal cielo»39 e perciò vede le cose – non solo quelle di lassù ma anche quelle di quaggiù!!40 – dalla prospettiva del cielo, dalla prospettiva di Dio e non da quella del mondo: «La ragione da sola – leggiamo nella Scuola di comunità – non può comprendere tutto quello che Cristo dice, perché Cristo rivela, svela il nuovo e l’inimmaginabile, e lo svela dopo – attenzione: dopo! – che la gente gli si è legata».41
Ora, questo vuol dire che per seguire Gesù bisogna rinunciare al cuore come criterio, vuol dire che il mio cuore, con le sue esigenze strutturali, non è infallibile? No, non vuol dire questo. Vuol dire piuttosto che Cristo è venuto ad adempiere le esigenze autentiche del nostro cuore e non le immagini di felicità, le immagini di compimento che s’affollano nel nostro cuore (ecco di nuovo l’idea biblica di idolo, di cui si parlava nella lezione: idolo, dal greco eidolon, vuol dire immagine, l’idolo è un’immagine del divino «fatta da mani d’uomo», fabbricata dalla mia mente). Cristo è venuto ad adempiere le esigenze vere del cuore, non le immagini di felicità che abbiamo in testa. E quindi, se un soggetto vuole arrivare a vedere il compiersi della promessa che Cristo gli ha fatto venendogli incontro, se uno vuole cioè sperimentare il gusto del centuplo quaggiù che Gesù promette a chi lo segue, deve lasciare queste immagini e seguirLo. Non c’è alternativa, mi spiace. Non c’è centuplo – lo dice Gesù, mica io – se uno non è disposto a lasciar tutto e seguirLo.42 Ma allora dove va a finire il criterio della corrispondenza? Non va a finire da nessuna parte. Rimane valido all the way through, cioè dall’inizio alla fine, anche se non in un senso unico, non secondo una misura invariabile, per così dire – ecco il punto delicato!
Provo a spiegarmi: la comprensione che io ho del mio cuore, cioè dell’oggetto vero del mio desiderio, man mano che seguo Cristo si evolve, s’affina, matura.43 Quando il famoso Andrea, il giorno dopo il famoso incontro, è andato da Pietro e gli ha detto: «Abbiamo trovato il Messia!», in forza di cosa ha potuto dirgli così, con un entusiasmo tale che persino il burbero Simone non ha potuto rimanere indifferente? Lo sappiamo: in forza di una corrispondenza, una corrispondenza al cuore imparagonabile e mai sperimentata prima. Una corrispondenza tale che gli ha fatto dire: «Sì, è Lui, è Lui Quello che attendevamo, è Lui!». Eppure, vuol questo dire che Giovanni e Andrea avessero già capito tutto di Gesù, che avessero già capito al primo incontro in cosa consistesse il compimento, la vita nuova che Gesù era venuto a portare? No, niente affatto.
Piuttosto, per usare la calibratissima espressione di don Giussani, ne avevano avuto come il presentimento.44 Un presentimento infallibile, certo, ed è questo il paradosso della grazia della fede. Eppure un presentimento che conviveva in loro con le immagini di compimento, cioè con le immagini sul Messia che avevano tutti, che erano uguali a quelle di tutti. Era per questo meno vera la corrispondenza che avevano sperimentato? Era per questo non vera la loro fede? Niente affatto. Era vera e certa. Ma era ancora immatura. Nel contenuto, era immatura.
Credeva Simone che Gesù fosse il Messia, l’Atteso del cuore? Con tutto il cuore. Se c’era uno che l’incontro lo aveva fatto, quello era lui. Lo sguardo di Gesù – che lo aveva trapassato da parte a parte (emblepsas, dice il testo greco, che vuol dire: guardandolo dentro)45 appena prima di dirgli «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa», come ad abbracciare tutto di lui, il passato e il futuro, quel che era e quel che doveva diventare – quello sguardo non se lo poteva levare di dosso. Vi era come rimasto intrappolato dentro. Eppure quello stesso uomo, Gesù di Nazareth, quell’uomo che ormai era il centro della sua vita, Simone non lo capiva. Non lo capiva! O meglio: lo capiva in parte. Capiva che quell’uomo era il Messia, capiva che era Colui che non solo lui stesso, Simone figlio di Giona, ma tutti, tutto Israele attendeva da secoli. Questo lo capiva. Eppure – c’era da impazzire! – capiva anche che non Lo capiva. Cosa non capiva? Non capiva cosa volesse veramente dire che Egli era il Messia, non capiva dove volesse andare a parare talmente era diversa la Sua logica da quella di tutti, a tal punto era diverso il Suo modo di muoversi da quello di tutti – corrispondente, sì, come null’altro, eppure così spesso spiazzante, bizzarro, a volte perfino urtante: «Quello che faccio non lo capisci ora, lo capirai più tardi».
Come è stato per Pietro, così è per noi. Non si entra nel punto di vista di Cristo di schianto. Lo si riconosce di schianto, ma si entra nel Suo punto di vista pian piano e mai senza lotta, mai cioè senza la necessità che qualcosa in noi si rompa, si smagli come si smaglia il ventre di una donna nel partorire.46 Ma il frutto di questo travaglio è davvero l’ingresso in una libertà sempre più grande e in una conoscenza di Cristo sempre più ricca.
3. La virtù che ci è chiesta
Per questo, per tutto questo, è ragionevole seguire anche quando magari non si capisce tutto. Non mettendo tra parentesi la propria ragione e il proprio cuore, ma per una disponibilità e una fedeltà all’incontro fatto, che non è con una persona o l’altra, bensì attraverso l’una o l’altra persona con qualcosa di molto più grande della persona, cioè con Cristo presente nella realtà di questa compagnia guidata al destino. Uno può non capire, sentirsi smarrito di fronte a certi cambiamenti di rotta, come si sono sentiti smarriti Pietro e gli altri, quando Gesù ha cominciato a dire cose che sembravano assurde – tipo questa, che causò il darsela a gambe di molti: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue non avrete in voi la vita ».47 «Dobbiamo dunque diventare cannibali? » si sarà chiesto il povero Simon Pietro. Eppure non se ne andò.
Disse allora Gesù ai dodici: «“Volete andarvene anche voi?”. Gli rispose Simon Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”».48 Perché Pietro non se ne va? Per fedeltà all’incontro fatto, per fedeltà all’esperienza fatta nell’incontro con Gesù, un’esperienza che lo aveva portato a dire, pur senza una piena chiarezza di quel che volesse dire: «Sì, Tu sei il Santo di Dio, e quindi è con Te che devo stare per avere la vita». Lo stesso è vero per noi. Uno può non capire tutto, può sentire a volte la stessa repulsione di Pietro e degli altri di fronte a certe proposte del Signore. Ma se è vero che l’incontro che hai fatto è con qualcosa di più di un certo affascinante testimone o di un certo accento, allora devi seguire l’oggettività della carne di Cristo, di quel pezzo del corpo di Cristo che ti ha preso. Devi perseverare, proprio per fedeltà a quel che ti è accaduto – non mettendo a tacere la tua ragione, il tuo cuore (che vuol dire: non rinunciando a chiedere ragione e persino obiettare, quando non capisci, come faceva Pietro con Gesù!) eppure sempre rendendoti disponibile, faticosamente magari (e proprio perciò tanto più generosamente) –, a verificare nel tempo se il cambiamento che ti è chiesto, il passo oltre che ti è chiesto è per un di più, è per un approfondirsi di ciò che è iniziato oppure no. La libertà, il dramma della libertà si gioca in questa alternativa: l’alternativa tra la disponibilità a seguire, mettendo in gioco tutta la propria ragione e affezione, e il chiudersi in sé, nella propria misura.
Certo, come ci è stato fatto presente con forza dal magistero recente del Papa, non bisogna identificare l’autorità indicata con l’infallibile megafono dello Spirito Santo. La guida del movimento non è Gesù, quindi l’analogia tra Pietro che segue Gesù e noi è sempre (assai!) imperfetta. Il seguire ha da essere un seguire intelligente e dialogico. Ha cioè da essere un seguire in cui la propria responsabilità personale è vissuta fino al punto che se uno in coscienza è convinto di vedere una cosa che l’autorità non vede, deve sentirsi in diritto e dovere di farla presente, contribuendo così al bene di tutti. La critica, la domanda, persino l’obiezione, se è cordialmente costruttiva, non si oppone alla sequela e alla comunione, ma la arricchisce, come non solo la storia della Chiesa tutta ma anche la nostra stessa storia dimostra.49 Siamo insieme per aiutarci e lo spunto nuovo che tutti illumina, come ci siamo sempre detti, può arrivare dall’ultimo ragazzino che leva la sua voce dal mezzo della folla, come fa il giovane Daniele nella storia di Susanna.50 Ciò detto, rimane valido il principio di fondo: se sei dentro una storia è ragionevole innanzitutto dare credito a questa storia, mettendo al contempo attivamente in gioco tutta la tua sensibilità e ricchezza d’esperienza. «E quando è difficile?» Quando è difficile occorre chiedere allo Spirito quella somma virtù del cuore che don Giussani chiamava disponibilità o povertà di spirito – somma perché è la virtù del cuore che fa la grandezza di quella donna che giustamente veneriamo come la più grande della storia, «umile e alta più che creatura»: Maria di Nazareth.
Scriveva il don Gius nella lettera alla Fraternità del 2003, uno dei suoi ultimi e più profondi scritti: «La Madonna ha rispettato totalmente la libertà di Dio, ne ha salvato la libertà; ha obbedito a Dio perché ne ha rispettato la libertà: non vi ha opposto un suo metodo».51 Non vi ha opposto un suo metodo, cioè non ha posto obiezioni alla forma strana, anzi inconcepibile, con cui il Mistero, nella Sua infinita libertà, le è venuto incontro. Di fronte all’annuncio dell’Angelo, un annuncio inaudito prima – perché non era certo accaduto altre volte che una donna concepisse senza conoscere uomo –, Maria avrebbe potuto dire: «È impossibile». E invece ha detto: «Come è possibile?». Si è aperta alla novità con cuore semplice, disponibile. Ed è qui che sta la sua grandezza, la sua somma grandezza. Tu sei grande e giusta e tutta bella, o Maria, perché in te l’universo finito si è aperto, si è spalancato fino al punto da divenire dimora dell’Immenso: «Accada di me secondo la tua parola».52 Io ci sto, Signore, ma tu dilata la mia misura, dilata il grembo della mia misura, fino a rendermi capace di accogliere e capire il senso di questa cosa nuova che fai.
Vengo così a un ultimo “nota bene”, con cui voglio concludere questa sintesi. Noi non siamo la Madonna, nessuno di noi è semplice e puro come lei era e sempre fu. Da qui un dato che, benché a tutti noto, credo sia cruciale tenere sempre presente: come la guida che ci è messa davanti non è né la Seconda né la Terza persona della Trinità incarnata (persino il Papa, che pure è infallibile quando parla ex cathedra, non è la re-incarnazione di Gesù Cristo e non è nemmeno l’incarnazione dello Spirito Santo), così nessuno di noi è la Madonna, nessuno di noi è la povertà di spirito incarnata. Non abbiamo un cuore puro come quello della Santa Vergine. Abbiamo un cuore dotato di criteri infallibili, certo, ma non abbiamo un cuore puro. E per questo nel giudicare, spesso e volentieri e senza neanche accorgerci, usiamo criteri che poco hanno a che fare con la struttura originale del cuore – criteri mutuati dal di fuori di noi, cioè da altri (vedi prima premessa de Il senso religioso),53 oppure dettati da un nostro gusto, da un nostro sentire (vedi terza premessa de Il senso religioso).54 Noi non siamo l’Immacolata Concezione.
Pertanto, anche la povertà di spirito, anche quell’amore al vero più che a se stessi, che don Giussani chiama disponibilità, è ultimamente un miracolo che possiamo solo domandare. In questo senso, tutto davvero si riconduce alla domanda, come diceva in modo così semplice e limpido una di voi ieri: la domanda allo Spirito di renderci disponibili al cammino proposto, disponibili a dire «sì, ci sto – con tutto il carico di quello che sono, la mia sensibilità, le mie idee, la mia storia che può essere diversa dalla tua –, io ci sono, ci sto».
Concludo perciò citando di nuovo le parole finali della preghiera di Atto di consacrazione al cuore immacolato di Maria che abbiamo recitato ieri, nella festa dell’Annunciazione, in risposta all’invito del Papa e insieme a tutta la Chiesa – non so a voi, ma a me sono venuti i brividi a sentire le nostre 300 e più voci pronunciare queste parole [che contengono tra l’altro una citazione di Dante a noi cara, quella scritta sulla lapide di don Giussani] come una voce sola: «Donna del sì, su cui è disceso lo Spirito Santo, riporta tra noi l’armonia di Dio. Disseta l’aridità del nostro cuore, tu che “sei di speranza fontana vivace”. Hai tessuto l’umanità a Gesù, fa’ di noi degli artigiani di comunione. Hai camminato sulle nostre strade, guidaci sui sentieri della pace. Amen».
Note
24 Gv 13,12-14.17.
25 Cfr. Ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, in Id., I Misteri, Jaca Book, Milano 1991, p. 230.
26 Gv 13,8.
27 «Il giudizio deve essere comune. Evidentemente la parola, il termine “giudizio comune” significa “giudizio comunionale”, perché altrimenti significherebbe un giudizio di tutti su cui son d’accordo tutti; e questo, oltre che pericoloso dal punto di vista della eventualità (che raramente accade), sarebbe anche indecente dal punto di vista del cammino, perché vorrebbe dire che non ci sarebbe mai il segno di qualcosa di più, cioè non ci sarebbe mai l’obbedienza. “Giudizio comune” significa “giudizio comunionale”; e questo, allora, che cosa indica? Indica un giudizio che sorge dalla comunione vissuta tra noi; il giudizio comunionale esprime una vita di comunione vissuta. Cosa vuol dire una vita di comunione vissuta? Una vita fatta insieme per vivere la memoria di Cristo. Perché è nella fraternità, è nella compagnia fraterna che la presenza di Cristo è più pedagogica, si comunica in modo pedagogicamente più grande, e viene assimilata in modo più vivo e sicuro. Se la comunione fraterna è vissuta, allora si può parlare anche di giudizio veramente comune; ma nella misura in cui non c’è lo sforzo per vivere la vita di comunione, il giudizio comune sarà il luogo della pretesa, in cui noi pretenderemo di far passare il nostro punto di vista» (L. Giussani, Sul giudizio comunionale, «Tracce-Litterare Communionis», n. 6/2001, p. 103).
28 Cfr. L. Giussani, Il rischio educativo, BUR, Milano 2016, pp. 10-11.29 Gv 13,8b.
30 «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo» (Fil 2,5-7).
31 Cfr. Gv 13,36-38; 18,15-18; 18,25-27.
32 Gv 13,6b.8b.
33 Gv 13,7.
34 Cfr. L. Giussani, Dare la vita per l’opera di un Altro, Bur, Milano 2021, p. 94.
35 Cfr. Gen 12,1 ss.
36 «Che sia convertita a Cristo la nostra coscienza, il nostro modo di pensare, e la nostra affezione, il nostro modo di amare, vuole dire che continuamente tale coscienza e tale affezione sono portate, trasportate dove non avrebbero pensato, sono continuamente sollecitate a uscire da sé, vanno fuori di sé, sono continuamente portate dentro un terreno, dentro un territorio al di là di quello che si concepiva o che si sentiva prima. È sempre nell’ignoto che vengono introdotte, è una misura che si allarga: sono introdotte continuamente, la coscienza e l’affettività, in un orizzonte imprevisto, al di là della propria misura» (L. Giussani, La familiarità con Cristo, San Paolo, Cinisello Balsamo-MI 2008, p. 135).
37 «La fede, non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere. In tanti ambiti della vita ci affidiamo ad altre persone che conoscono le cose meglio di noi. Abbiamo fiducia nell’architetto che costruisce la nostra casa, nel farmacista che ci offre il medicamento per la guarigione, nell’avvocato che ci difende in tribunale. Abbiamo anche bisogno di qualcuno che sia affidabile ed esperto nelle cose di Dio. Gesù, suo Figlio, si presenta come Colui che ci spiega Dio (cfr. Gv 1,18). La vita di Cristo – il suo modo di conoscere il Padre, di vivere totalmente nella relazione con Lui – apre uno spazio nuovo all’esperienza umana e noi vi possiamo entrare» (Francesco, Lettera enciclica Lumen Fidei, 18).
38 «La prima incidenza sulla vita dell’uomo che ha l’imitazione di Cristo […] è una mentalità nuova, una coscienza nuova, non riducibile ad alcuna legge dello Stato o a una abitudine sociale, una coscienza nuova come sorgente e come riverbero di autentico rapporto con il reale, in tutti i dettagli che l’esistenza implica» (L. Giussani, Dare la vita…, op. cit., p. 95).
39 Gv 3,11-13; 31-32, ecc.
40 «In verità, in verità ti dico [dice Gesù a Nicodemo] noi parliamo di quel che sappiamo e testimoniamo quel che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo» (Gv 3,11-13).
41 L. Giussani, Dare la vita…, cit., pp. 96-97; corsivi miei. Continua più avanti don Giussani: «Nell’epoca moderna il razionalismo, perdendo la vera natura della ragione, rende abituale la confusione tra senso religioso e fede, evacuando così anche la vera natura della fede […]. La confusione tra senso religioso e fede rende confuso tutto. Il crollo della fede nella sua natura vera, com’è nella Tradizione, cioè nella vita della Chiesa, il crollo della fede come riconoscimento di “Cristo tutto in tutti”, come adeguazione e imitazione di Cristo, ha dato origine allo sconcerto moderno» (ibidem, pp. 99-100). E altrove scrive: «Tutta la coscienza moderna si agita per strappare dall’uomo l’ipotesi della fede cristiana e per ricondurla alla dinamica del senso religioso e al concetto di religiosità, e questa confusione penetra purtroppo anche la mentalità del popolo cristiano» (L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Bur, Milano 2019, p. 34).
42 «In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna» (Mc 10,29-30).
43 «In questo senso, la fede in Cristo supera e rende più chiaro il senso religioso del mondo. La fede svela l’oggetto del senso religioso, cui la ragione non può accedere» (L. Giussani, Dare la vita…, op. cit., p. 96; corsivi miei).
44 «Il cammino del Signore è semplice come quello di Giovanni e Andrea, di Simone e Filippo, che hanno cominciato ad andare dietro a Cristo: per curiosità e desiderio. Non c’è altra strada, al fondo, oltre questa curiosità desiderosa destata dal presentimento del vero» (L. Giussani, Alla ricerca del volto umano, Bur, Milano 2007, p. 125).
45 «Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)”» (Gv 1,42).
46 «La mentalità mondana [scrive ancora Giussani] opera sull’orizzonte totale di ciò cui l’uomo, crescendo, si educa. La mentalità nuova si sostituisce a essa con fatica e con lotta […]. “Cristo è entrato nel mondo in polemica col mondo” diceva monsignor Garofalo. O meglio: non è entrato nel mondo “in polemica” col mondo, è entrato nel mondo esponendo e comunicando se stesso, il suo mistero, perciò per una proposta: è il mondo che si erige contro» (L. Giussani, Dare la vita…, op. cit., p. 95; corsivi miei).
47 Gv 6,53.
48 Gv 6,67-69.
49 «La moralità è il far tutto per qualcosa di più grande, che è Cristo, come diciamo in Moralità: memoria e desiderio. E qual è l’opposto? L’opposto della moralità, cioè l’immoralità, è fare per reattività. E la reattività che cos’è? A livello dell’intelligenza è l’opinione, a livello pratico è l’istinto. Ma guai se noi adoriamo l’opinione nostra invece di Cristo! Inversamente, lo Spirito di Cristo guida una comunità attraverso la “testa” dei singoli, la coscienza dei singoli, cioè attraverso l’esperienza dei singoli; perciò il mettere in comune l’esperienza […] contribuisce a creare un contesto in cui salta fuori il giudizio comune» (L. Giussani, Sul giudizio comunionale, op. cit., p. 106).
50 «Mentre Susanna era condotta a morte, il Signore suscitò il santo spirito di un giovanetto, chiamato Daniele, il quale si mise a gridare: “Io sono innocente del sangue di lei!”. Tutti si voltarono verso di lui dicendo: “Che cosa vuoi dire con queste tue parole?”. Allora Daniele, stando in mezzo a loro, disse: «Siete così stolti, o figli di Israele? Avete condannato a morte una figlia d’Israele senza indagare […] la verità!» (Dn 13,45-48).
51 L. Giussani, «Commossi dall’Infinito», Lettera alla Fraternità di Comunione e Liberazione, 22 giugno 2003, «Tracce-Litterae Communionis», n. 7/2003, pp. 1-3.
52 Lc 1,38.
53 «Domandiamoci allora: qual è il criterio che ci permette di giudicare ciò che vediamo accadere in noi stessi? Due sono le possibilità: o il criterio in base al quale giudicare ciò che si vede in noi è mutuato dal di fuori di noi, o tale criterio è reperibile dentro di noi. Nel primo caso ricadremo nell’evenienza alienante che abbiamo descritto prima. Se anche avessimo svolto un’indagine esistenziale in prima persona, rifiutando perciò di rivolgerci a indagini già svolte da altri, ma prelevassimo da altri i criteri per giudicarci, il risultato alienante non cambierebbe. Faremmo ugualmente dipendere il significato di ciò che noi siamo da qualcosa che è fuori di noi» (L. Giussani, Il senso religioso, Bur, Milano 2023, pp. 7-8).
54 «Il valore dell’oggetto conosciuto, dunque, secondo la posizione e il temperamento dell’uomo, lo tocca in modo da provocare quella emozione che noi abbiamo individuato con la parola sentimento. Il sentimento è quindi l’inevitabile stato d’animo conseguente la conoscenza di qualcosa che attraversa o penetra l’orizzonte della nostra esperienza. Ma, abbiamo detto, la ragione non è un meccanismo disarticolabile dal resto del nostro io; perciò la ragione è legata al sentimento, ne è condizionata. Leggiamo definitivamente la nostra formula: la ragione per conoscere l’oggetto deve fare i conti col sentimento, con lo stato d’animo. È filtrata dallo stato d’animo, è comunque implicata nello stato d’animo» (L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 34).